A chi si domanda se nella memoria
vi sia spazio per il perdono, Anna Foa, storica dell'età moderna alla
«Sapienza» di Roma e autrice di un volume sugli «Ebrei e l'Europa»,
obietta che la contrapposizione è ormai «stereotipica». Tanto più -
dice - che la categoria del perdono non è di quelle che preferisce
quando si parla di memoria storica di un fatto come l'Olocausto.
Sostiene di parlare più da laica che da ebrea, e al perdono oppone con
nettezza la categoria della «elaborazione del lutto».
«La cosa importante - spiega - mi pare sia quella di darsi (o essere
coscienti che non ce lo si può dare) un senso per questo lutto. Dopo
cinquant'anni credo che sia ora di chiedersi se il lutto è stato
davvero elaborato».
Ad Anna Foa abbiamo proposto di riflettere su questo tema in vista del
«Giorno della memoria» che da quest'anno viene celebrato annualmente
in Italia il 27 gennaio, nel cui ambito si colloca la mostra milanese «Per
non dimenticare la Shoah» che apre giovedì 18 a Palazzo Reale.
Professoressa Foa, l'elaborazione del lutto, come c'insegna
l'antropologia, si vale di certi rituali per superare la ferita della
morte. Da parte ebraica questi rituali sono quelli della museificazione
dell'Olocausto?
«In effetti, penso che questa giornata dedicata alla memoria, le
mostre, i musei, adozione di segni distintivi della memoria, il ricordo
dei nomi di quelli che altrimenti andrebbero smarriti, tutto questo è
già l'elaborazione che va fatta della tragedia. D'altra parte, la
memoria non è soltanto ricordo o mantenimento del ricordo, è piuttosto
una costruzione continua. E se guardiamo alla storia della Shoah vediamo
che non è stata una costruzione semplice: all'inizio ci fu una
rimozione generale, sia da parte ebraica che non ebraica. La categoria
dello sterminio non emergeva dall'universo delle disgrazie della guerra.
Poi, dieci anni dopo, comincia questa costruzione della memoria».
Che tipo di emblematicità può avere la Shoah per chi non fa parte
della cultura ebraica o per chi nasce oggi?
«Bisogna distinguere due piani nella domanda che lei mi fa. Riguardo a
chi ha vissuto l'epoca dell'olocausto, penso che si possa dire che la
Shoah è soprattutto una tragedia dei non ebrei...»
Allude al complesso di colpa dell'Europa?
«Dico che chi appartiene a una cultura che in qualche modo ha avvallato
un massacro di questo tipo, l'ha vissuto, lo ha accettato, ne ha fatto
parte... è una tragedia che riguarda tutti quelli che hanno vissuto il
fatto mentre si realizzava. La Shoah ha eliminato sei milioni di ebrei,
ma ha anche alimentato nella coscienza di molti rimorsi che pesano
tuttora. Sulle nuove generazioni invece va preso atto che viviamo in un
mondo diverso; ma non possiamo dimenticare che dopo la Shoah vi sono
stati altri massacri o genocidi simili. Ai giovani dobbiamo dare una
nuova memoria, che non può essere fossilizzata e deve rispondere ad
alcune domande: una, per esempio, non è tanto cosa fare perché questo
non accada di nuovo, come diceva molti anni fa Primo Levi, ma piuttosto
come fare affinché non avvenga sotto nuove forme».
Sulla rivista «Zakhor» lei ha dedicato un saggio alla mancanza di
una storia della «cultura materiale» ebraica. La costruzione di un
museo della Shoah, con immagini o oggetti che rappresentano non tanto la
«civiltà materiale» di cui scriveva Braudel, quanto la realtà
concreta, «quotidiana», di ciò che lo sterminio ha significato come
macchina distruttiva, ha sviluppato anche in anni recenti un'industria
della museificazione. Ma questa può considerarsi davvero una nuova
costruzione della memoria?
«È molto difficile museificare la Shoah. Quando due anni fa, come
consulente del nascente museo ebraico di Bologna, con altri provammo a
immaginare uno spazio adeguato, fatto di pochi oggetti, quel che ne
emerse alla fine fu una stanza vuota. Una piccola stanzetta con dei nomi
e alcune scritte, ma in definitiva vuota. Ed è tipico di altri musei
ebraici dove prevalgono le parole e qualche immagine. Penso, in realtà,
che spesso museificazione voglia dire fossilizzazione, un uso pubblico e
politico della memoria della Shoah. Normalmente, però, questi luoghi
della memoria appartengono a tutti. C'è stata, è vero, una storia
controversa sugli spazi dedicati al giorno della memoria; su questo, uno
storico revisionista israeliano, Tom Segev, ha scritto un libro che
ripercorre lo sviluppo della memoria della Shoah in Israele, e si vede
che non è affatto una memoria lineare: è contesa tra religiosi e
laici, e si trasfonde nella costruzione dello Stato. Dentro questa
vicenda storica della memoria rientrano anche le difficoltà di alcuni
ad accettare che vi fossero e vi siano dei musei».
Vorrei soffermarmi ancora sulla «cultura materiale». Lei sostiene
che tutto parte dall'assenza del mondo contadino che si riflette nella
mancanza di radicamento della memoria ebraica in una terra precisa. La
museificazione è anche la storia della creazione di strutture che
sembrano prendere possesso di altre terre attraverso la memoria, così
da riscattare l'antica mancanza del radicamento ebraico...
«È interessante questa idea, ma non so se poi questo tentativo riesca
davvero nella realtà. Non a caso, tutti i punti forti della
museificazione della Shoah sono luoghi dove si punta soprattutto sulla
parola...»
Vedendo certi musei sembra che si punti anche sull'edificio.
«Nel caso dei campi...»
Non solo, penso al nuovo musei di Daniel Libeskind a Berlino,
un'architettura davvero choccante.
«Tutto questo mi sembra un po' anche una fuga nel simbolo, e il museo
è questo in fondo: un simbolo, cioè il contrario della cultura
materiale che vediamo di solito nei musei, dominati soprattutto da
oggetti d'uso quotidiano. Ripercorrere la cultura vuol dire toglierle
valore simbolico, ma noi stiamo cercando di fare proprio il contrario».
Ultimamente si è riparlato di Shoah con un accostamento alle foibe.
L'Olocausto può diventare l'emblema di altre forme di sterminio?
Ovvero, può uscire da se stesso, dal recinto che molti gli hanno
costruito intorno, proprio attraverso un corretto uso della memoria?
«Così si tocca uno dei punti più vivi del dibattito, quello
dell'unicità o meno della Shoah. In un certo senso, si può dire che
l'Olocausto sia stato caratterizzato da alcuni elementi forti che lo
rendono unico nella storia: la pianificazione dello sterminio di un
intero popolo per ciò che era e non per altro. In questo, va detto che
è stato preceduto dal genocidio armeno; ma anche in tempi recenti si
sono verificati stermini accostabili alla Shoah, penso al Ruanda o alla
pulizia etnica. Le foibe mi sembrano invece un fatto di tipo politico:
sono stati sterminati gli italiani che erano oppositori del regime di
Tito o quelli che sembravano tali. L'esempio della Cambogia, dove tutti
quelli che portavano gli occhiali venivano eliminati da Pol Pot, è più
vicino all'essenza tragica della Shoah: anche là furono eliminati in
massa uomini, donne e bambini per quello che erano, con assoluta
indifferenza per l'età, il sesso, la condizione sociale o fisica. Preso
atto di questo, può essere utile fare della Shoah, pur senza esagerare,
un paradigma dello sterminio da condannare; ma attenti a non trasformare
ogni cosa in un olocausto, altrimenti compiamo una operazione simile a
quella dei religiosi ultraortodossi israeliani, per i quali, dalle
crociate in poi, ogni martirio e ogni uccisione si equivalgono, mentre
non è affatto vero».
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