Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti a confronto…

Eugenio Montale è nato a Genova nel 1896, trascorre la sua infanzia in piena tranquillità in una casa di campagna tra gli alberi di limoni: di punto in bianco si trova in una società in rovina causata dalla guerra mondiale.

La sua poesia rispecchia l’angoscia esistenziale per la crudeltà di un mondo ostile e indecifrabile da cui è impossibile evadere; le uniche opportunità sono rimembrare i ricordi a meno che non vengano annebbiati dal passare del tempo o fantasticare sperando in una situazione migliore: da tale difficile rapporto del poeta con la realtà scaturisce una forma ermetica, non chiara…

Anche lo scrittore Giuseppe Ungaretti (1888-1970), in un certo senso, ha questa visione della vita; egli infatti afferma: "…La parola scava nell’abisso alla ricerca dell’assoluto senza trovarlo. Trova solo schegge di verità…".

Con questa afferma che l’individuo è in forte contrasto con se stesso e con la società; dato il contesto sociale in cui si vive non vi sono certezze, basi solide su cui credere e andare avanti. Scoprire il segreto che c’è nel "Porto Sepolto" è quel poco che un uomo può dare di consolazione alla sua anima.

Se per Dante il porto era un luogo d’arrivo sicuro in cui ognuno di noi poteva pilotare la vita, per Ungaretti è un posto, che simboleggia l’animo ormai informe dell’uomo, irraggiungibile, perché sepolto, nel quale nessuno può permettersi di "oltrepassarlo" ed eventualmente calpestare ulteriormente la vita interiore altrui.


Ungaretti combatte sul fronte del Carso di conseguenza constata in prima persona quanto sia difficile "sopravvivere" in queste condizioni precarie; non a caso le sue opere si possono considerare "autobiografie immediate"; perché in esse egli restituisce a caldo sulla pagina lo scontro rovente e nudo con la morte che nutre di se stessa l’amore per la sopravvivenza e il più forte slancio vitale. ( da qui l’influenza di Henry Bergson).

Questo si può notare nella poesia "Veglia": "…non sono mai stato tanto attaccato alla vita." …

In essa si descrive la vita in trincea; distesi in mezzo al fango, i compagni del plotone morti o feriti gravemente vicini, gli spari e i bombardamenti che echeggiano nella notte, la gente sembra "gareggi"… vince chi ha la mano più veloce!…

Esseri umani intimoriti che vanno incontro al proprio inesorabile destino, i loro occhi si chiedono perché; perché si è arrivato a questo. Il solo colore della divisa provoca morte e disperazione… il valore della vita si perde, come un ago in un pagliaio, per l’appartenenza ad un reggimento opposto.

Che senso ha ormai battersi per una patria inesistente, priva di valori, priva di giustizia se tanto alla base c’è soltanto guerra, morte e carestia; ormai quest’attinenza è diventata soltanto una "…parola tremante nella notte…" (Fratelli).

Un tema trasversale riscontrato, inerente a quest’argomento, è la musica; precisamente un testo del cantautore Fabrizio De Andrè intitolato "La guerra di Piero" che racconta quello denunciato finora e, a mio parere, i possibili collegamenti con i testi poetici di Ungaretti:

"…lungo le sponde del mio torrente voglio che scendono i luci argentati non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente…" ("I fiumi"), "…il vento ti sputa in faccia la neve…" ("Veglia"), "…dei morti in battaglia ti porti la voce; chi diede la vita ebbe in cambio una croce…" ("San Martino del Carso"), "…e mentre marciavi con l’anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valla che aveva il tuo stesso identico onore ma la divisa di un altro colore…" ("Fratelli"), "…e se gli spari in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere, vedere, gli occhi di un uomo che muore…" ("Fratelli"), "…il tempo non ti sarebbe bastato chieder perdono per ogni peccato e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato ritorno…" ("Fratelli"), "…dentro le mani stringevi il fucile dentro la bocca stringevi parole troppo gelate per sciogliersi al sole…" ("Veglia").

Mentre Montale venne rimosso dal proprio posto di lavoro perché rifiutò d’iscriversi al partito fascista e firmò il "Manifesto degli intellettuali antifascisti" promosso da Benedetto Croce. Ungaretti aderisce al fascismo ma scrive poesie contro la guerra.

Per entrambi comunque il tema ricorrente, nelle loro opere è la guerra; il rapporto che c’è tra la civiltà e il semplice individuo che affronta questa tragedia.

Non recidere, forbice, quel volto Le Occasioni 1939

Il volto della persona amata, che ancora ben vivo campeggia nella memoria del poeta, è fatalmente insidiato dall’erosione del tempo, che ha già incrinato e travolto molte immagini del passato.

Per questo, perché almeno si salvi, il poeta prega, pur essendo consapevole che si tratta di un’utile preghiera.

"…un freddo cala… duro il colpo svetta…", questa sospensione fa riflettere alla agghiacciante situazione creatasi; e come se si sentisse il rumore del brusco taglio; la siepe si scrolla dalla cicala morta, il "guscio" rappresenta l’ultimo ricordo dell’estate, anche il più vicino.

Questa è una poesia possibilista,; il poeta spera la fine della guerra perché ha la certezza di una vita più bella che sta ad attenderlo al termine di questa situazione.

La lirica propone l’angoscia per l’inesorabile sfaldarsi dei ricordi, che egli evidenzia attraverso immagini di dolore e scudo realismo.

Anche Ungaretti durante le nottate in trincea ricorda… l’unico incentivo per non abbattersi e reagire.

Recupera dalla memoria i compagni caduti: "…nessuna croce manca…" (San Martino del Carso), ricorda l’amico Mohammed Sceab, suicida perché non riuscì ad integrarsi nella cultura e nella mentalità occidentali: "…non sapeva più vivere nella tenda dei suoi…" (In memoria), risovviene i fiumi che hanno caratterizzato le tappe della sua vita "…questi sono i miei fiumi contati nell’Isonzio…", rammenta la figura materna che considera una guida importantissima, la stessa funzione che Dante assegnò a Beatrice durante il suo viaggio.

Non chiederci la parola Ossi di seppia 1921

A chi gli chiede di dare una definizione precisa e assoluta della vita e di indicare una verità in cui poter credere con fiducia il poeta risponde: la vita è un percorso incerto e irto di pericoli, senza mete e certezze indiscutibili e universali. È possibile pretendere dal poeta parole definitive e magiche per risolvere problemi da sempre irrisolti e insolubili. Lo stato d’animo è informe, non ha una spiegazione chiara "…a lettere di fuoco…" come se fosse un fiore di zafferano in mezzo ad un polveroso prato

(lo stato d’animo non può essere diverso dalla situazione dell’epoca della società).

L’uomo che crede d’essere sicuro, in pace con se stesso e con gli altri, non si rende conto che vive in una società in rovina.

Non chiederci una situazione politica, un mondo diverso futuro. Possiamo solo dire che frasi, vaghe idee con rabbia per il modo in cui stiamo vivendo; non possiamo dire cose dolci… una concezione così amaramente negativa, trova un riscontro stilistico nell’uso frequente della negazione "non" o di altre espressioni negative, verificate anche nella poesia "Non reciderci la parola", volte a "cancellare" immagini, concetti e una concordanza lessicale nell’uso di termini di aspra e arida quotidianità.

Questa lirica oltre a proporsi come dichiarazione poetica diventò un testo in cui si riconobbero molti, nella crisi spirituale che tormentava l’Europa della prima guerra mondiale, consapevolmente sceglievano la strada dell’indipendenza morale a costo di solitudine e incomprensione.

La negatività espressa si esaminò che non era soltanto un insegnamento letterario ma una legittima definizione esistenziale: non solo dall’animo del poeta ma di un’intera generazione.

Il rifiuto di ogni forma di privilegio, accettazione consapevole del "male di vivere" e la consapevolezza della crisi della propria poetica come termine di valori e di salvezza furono letti come gli unici rimedi individuali efficaci contro i risvolti psicologici ed esistenziali della profonda crisi iniziata per la borghesia italiana alla fine dell’'800 è destinata a sfociare nel dramma del gran conflitto, prima, e nei regimi totalitari, poi.

Montale infatti, con la sua coerenza e indipendenza morale, dava voce alla profonda infelicità ma consigliava di guardarla in faccia con coraggio senza sperare consolazioni.

I Limoni Ossi di seppia 1925

Questa è una poesia filosofica, diversa dalle altre perché non si basa sulle problematiche sociali ma si pone i problemi, le riflessioni del personaggio Gabriele D’Annunzio facendo riferimenti diretti ad una sua opera "La pioggia nel pineto". Tutti e due sentono i rumori della natura ma Gabriele se l’inventa, come se fosse un pianto esteriore; cerca di ostacolare la solitudine immedesimandosi in un immortale superuomo: poetavate, Eugenio invece è al corrente della presenza naturale quindi è come se avesse un pianto interno perché lui al contrario di D’Annunzio è stato sempre vittima della solitudine e quindi riallacciandomi alla poesia, gli basta solo osservare gli alberi per rimembrare la sua infanzia, i "suoi" limoni. Egli non è sicuro nell’affrontare la guida della civiltà, è contrario all’egocentrismo. In questa lirica il poeta critica le idee e lo stile usato per scrivere "La pioggia nel pineto". Una particolare caratteristica della poesia montaliana è la presenza di un "mondo di oggetti" specificato spesso con accurata precisione, ma carico di un significato simbolico, che va ben al di là della sua forma reale, mettendone in luce un valore peculiare spesso abusivo e privato, sempre ermetico e arduamente decifrabile. Così l’impegno del poeta è volto non tanto a "descrivere" una scena singolare quanto a fissare in un oggetto un proprio modo di sentire e vivere la scena stessa, creando contemporaneamente un sistema di significati che trascende la situazione reale e si pone come emblema di una condizione esistenziale, in cui tutti possono riconoscersi. Questa teoria del "correlativo oggettivo" nasce dall’idealizzazione del poeta angloamericano T. S. Eliot.

Montale resterà fedele a questa tecnica che farà ricorso nella convinzione che linguaggio e contenuto vivono in un rapporto di reciproca integrazione e interdipendenza.

Per concludere tutti sia in campo letterario sia in campo artistico erano accomunati da una convinzione: realizzare una realtà migliore.

Ognuno però la espresse in modo diverso; attraverso il piacere (D’Annunzio), l’ironia (Pirandello), l’inconscio (Surrealismo), la propria personalità (Svevo), distruggendo l’apparenza (Dadaismo), comprenderla sotto tutti gli aspetti e crearsene una propria (Cubismo); solo Montale e Ungaretti non seppero trovare una risposta per concretizzarla.

Credo che questi scrittori siano comunque da stimare come tutti gli altri perché entrambi hanno denunciato la realtà che affliggeva la società pur non dandola risolta.