Dalla magia ... alla pubblicità: il ruolo del logos

 

    La retorica antica ebbe origine, come attesta Cicerone nel Brutus, quando due logografi siciliani, Corace e Tisia, scrissero per primi – precedendo anche l’opera di Gorgia – i testi delle orazioni che i loro concittadini avrebbero pronunciato in tribunale, durante i processi per la restituzione dei beni confiscati loro dai tiranni e non ancora resi dopo la cacciata degli stessi dall’isola:

BRVTVS XII. Haec igitur aetas prima Athenis oratorem prope perfectum tulit. Nec enim in constituentibus rem publicam nec in bella gerentibus nec in impeditis ac regum dominatione deuinctis nasci cupiditas dicendi solet. Pacis est comes otique socia et iam bene constitutae ciuitatis quasi alumna quaedam eloquentia. Itaque ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia tyrannis res priuatae longo interuallo iudiciis repeterentur, tum primum, quod esset acuta illa gens et controuersia +natura, artem et praecepta Siculos Coracem et Tisiam conscripsisse - nam antea neminem solitum uia nec arte, sed accurate tamen et descripte plerosque dicere -; scriptasque fuisse et paratas a Protagora rerum inlustrium disputationes, qui nunc communes appellantur loci; quod idem fecisse Gorgiam, quem singularum rerum laudes uituperationesque conscripsisse, quod iudicaret hoc oratoris esse maxime proprium, rem augere posse laudando uituperandoque rursus affligere; huic Antiphontem Rhamnusium similia quaedam habuisse conscripta; quo neminem umquam melius ullam orauisse capitis causam, cum se ipse defenderet, [se audiente] locuples auctor scripsit Thucydides; nam Lysiam primo profiteri solitum artem esse dicendi; deinde, quod Theodorus esset in arte subtilior, in orationibus autem ieiunior, orationes eum scribere aliis coepisse, artem remouisse; similiter Isocratem primo artem dicendi esse negauisse, scribere autem aliis solitum orationes, quibus in iudiciis uterentur; sed cum ex eo, quia quasi committeret contra legem "quo quis iudicio circumueniretur," saepe ipse in iudicium uocaretur, orationes aliis destitisse scribere totumque se ad artes componendas transtulisse.

Questa “tecnh” nacque dunque con uno scopo pragmatico e fortemente concreto e non perse mai, nella sua evoluzione, questa valenza di “arma” d’offesa o di difesa, strumento efficacissimo per l’uomo che ne sappia fare un uso appropriato.

Il passaggio alla forma prosastica – sia che il merito vada attribuito ai logografi siciliani che a Gorgia – non è che la fase conclusiva di un processo di maturazione che ha un’origine remota.

Le nostre fonti più preziose per comprendere quanto la retorica fosse già sviluppata in Grecia, pur essendo confinata nel mondo dell’oralità, sono i testi omerici: il tema centrale dell’Iliade stessa, ad esempio, è una contesa verbale fra Achille ed Agamennone. Nel poema, inoltre, sono numerosissimi i momenti in cui i contendenti si servono del logos per vincere il proprio avversario: nello “scudo di Achille”, gli anziani decidono quale dei due uomini abbia ragione e Tersite, i cui discorsi sono “sbagliati” e perciò pericolosi, deve essere zittito a colpi di skeptros”.

La parola rivestiva un ruolo ancora più importante nei duelli, come testimonia chiaramente la clausola omerica "epea pteroenta, parole alate come frecce”, con cui vengono sottolineati l’efficacia ed il potere distruttivo delle ingiurie che gli sfidanti si scambiavano prima di iniziare a combattere.

Questo valore magico ed apotropaico del logos non è, però, un’invenzione propria del mondo greco, ma un’eredità di un’epoca antica, che lo stesso Omero non comprendeva più: si può agevolmente dimostrare questo concetto confrontando l’episodio della “costruzione dell’imbarcazione” nell’ Odissea con il suo analogo presente nelle saghe finniche.

I due eroi protagonisti, che si assomigliano molto, procedono però in modo differente: Odisseo costruisce la sua zattera lavorando il legno con l’ascia, mentre l’eroe finnico canta e con la magia della parola “compone” la sua barca.

 

Quando, dunque, la retorica passa dalla sua primitiva fase orale ad una forma prosastica, conserva inevitabilmente la sua intrinseca “pericolosità” ed il suo potere di vera e propria arma: Gorgia stesso parla della sua tecnh soffermandosi sulla sua fortissima valenza psicagogica, affermando, cioè, che la parola è in grado di trasformare e guidare a proprio piacimento l'animo dell'uomo.

La degenerazione della retorica ebbe luogo proprio a partire dall’esasperazione della sua valenza paradigmatica e dalla finalità biecamente utilitaristica e relativistica che le attribuirono i Sofisti. Platone, infatti, si accorse immediatamente della potenziale “pericolosità” di questo strumento, se mal indirizzato, e distinse dalla “retorica dei sofisti” la “buona retorica”, cioè quella che ha per scopo la verità: solo quest’ultima, affermava, ha valenza educativa e positiva. Aristotele, al contrario, si occupò di valorizzare soprattutto le costruzioni entimematiche che miravano al verisimile ed al “senso comune”.

E’ forse opportuno approfondire e chiarire brevemente la posizione di questi due grandi filosofi, prima di proseguire: Platone distingue subito due tipi di retorica, una buona e l’altra cattiva. La retorica “di fatto”, a suo avviso, è l’arte di comporre qualsiasi discorso, avente per fine la verosimiglianza o illusione. La retorica “di diritto”, invece, è la vera retorica – o dialettica – ed ha per obiettivo la verità. Quest’ultima è in realtà una forma di psicagogia, ovvero di educazione degli animi mediante l’uso della parola. Quindi Platone distingue nettamente tra retorica dei sofisti ( una contraffazione di una vera tecnh ) e vera retorica, che, evitando l’espressione scritta, ricerca il dialogo e l’oralità. Lo schema della retorica è quello binario ( ascesa e discesa ) utilizzato dalla dialettica: ogni scelta comporta un’alternativa, proprio come accade tra Socrate ed il suo interlocutore nei celebri Dialoghi. Aristotele, le cui idee in proposito si sono poi affermate e divenute “canone” per i posteri, si occupò dell’arte oratoria e del discorso in genere in due differenti scritti: la Retorica, che si occupa del discorso pubblico, e la poetica, che si incentra sul potere evocativo del discorso. Per lo Stagirita, la retorica è “la facoltà di scoprire speculativamente ciò che in ciascun caso può essere atto a persuadere”. Aristotele fonda la propria retorica non sul vero, come voleva Platone, ma sul ragionamento e sul “sillogismo imperfetto”: celebre la frase “vale meglio un verosimile impossibile di un possibile inverosimile”.

Il maggior pregio della retorica, tuttavia, fu il notevolissimo stimolo dato alla prosa greca e poi latina: ogni autore si preoccupò, in vista della pubblicazione scritta, di ornare e rifinire la propria orazione con un paziente “labor limae” e con tutti gli espedienti che la tecnh forniva, per renderla massimamente persuasiva. E’ per questo che i discorsi di Demostene o Cicerone, come dice Leopardi, benchè dedicati ad argomenti di scarsissimo rilievo, ci sono stati conservati a secoli di distanza grazie alla loro pregevolezza letteraria.

Oggi, come giustamente afferma Umberto Eco, la pubblicità è uno dei più degni eredi di quella teknh ths peiqous che è nata oltre duemila anni fa. Non solo, infatti, essa conserva inalterati e correttamente applicati tutti gli espedienti retorici, ma possiede anche tuttora quel suo valore originario di arma offensiva che la rende il più efficace strumento di convincimento nei confronti del potenziale acquirente: essa è “l’arma e l'anima del commercio”.

La retorica pubblicitaria, tuttavia, ha completamente dimenticato l’ideale platonico, per fare propria invece la concezione di “retorica del senso comune” formulata da Aristotele, per cui vale più “un impossibile verisimile che un possibile inverosimile”. Il vero scopo del breve messaggio pubblicitario, infatti, non è la dimostrazione di una verità assoluta ma di quella relativa – e spesso costruita con un procedimento entimematico fuorviante – del venditore del prodotto.

Dal mondo greco ad oggi, a causa soprattutto dell’influsso negativo apportato dal relativismo protagoreo e dalla conseguente idea che la “verità” sia sempre posseduta da chi dispone delle argomentazioni più forti, la retorica ha finito per coincidere – più o meno apertamente – anche con l’inganno del più debole e dell’ignorante. Il processo, ad Atene, avveniva in presenza di giudici senza alcuna esperienza e che non conoscevano nemmeno il codice delle leggi: la verità non poteva essere altro che la tesi sostenuta dal logografo migliore.

Quando, in seguito, i sofisti diedero la prova che era possibile prima dimostrare una certa argomentazione e poi l’esatto suo contrario, tramontò l’idea che verità e giustizia fossero effettivamente concetti assoluti.

Solo il Cristianesimo portò di nuovo una Verità oggettiva per l’uomo, ma ciò non ha impedito che il dotto ed il potente abbiano continuamente imposto le proprie ragioni e la propria giustizia come assolute, approfittandosi del potere che la parola dell’istruito aveva – e continua sovente ad avere – nei confronti dell’ignorante.

Basandomi su questi presupposti, che sono stati aggravati dalla crisi profonda che hanno attraversato la dottrina Cristiana ed i suoi valori all’inizio del Novecento, e considerando i molteplici esempi in cui ancora oggi essi risultano veri, credo purtroppo che sia quasi impossibile parlare di Verità o Giustizia in senso assoluto, benchè ce ne sia – ora più che mai – un disperato bisogno.

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