Petronio

 

Sat. XIV

Una scena al mercato ( 3 )

Al contrario Ascilto aveva paura della legge e diceva: “ma chi ci conosce in questo luogo, e chi si fiderà di noi se lo diciamo? Io ho deciso proprie di comprare, benchè sia nostro, l’oggetto che abbiamo riconosciuto e con pochi soldi riappropriarci del tesoro, piuttosto che venire ad un processo che non si sa come possa finire:

“cosa può fare la legge, dove regna solo il denaro, 

o dove la povertà non può vincere nulla? […]”.

Ma fatta eccezione per un unico doppio asse, che avevamo destinato a comprare ceci e lupini, eravamo a mani vuote. Così, perché nel frattempo la preda non ci sfuggisse, decidemmo di vendere il mantello ad un prezzo anche più contenuto perché la ricompensa di un maggior guadagno rendesse meno grave la perdita. Non appena iniziammo  a spiegare la merce, la donna dal capo velato, che era rimasta col contadino, dopo averne esaminato con attenzione le caratteristiche, vi getta sopra entrambe le mani e a gran voce esclama : “al ladro !”. Noi per tutta risposta, sconvolti, per non far vedere che non stavamo facendo nulla, afferrammo la tunica strappata e sporca e con medesimo ardore ci mettemmo a proclamare che erano nostri i cenci che essi possedevano. Ma la discussione non era affatto su un piano di parità, infatti anche i rivenditori che si erano avvicinati attratti dal baccano, ridevano - come è logico che accada – delle nostre pretese, perché loro reclamavano una veste preziosissima e noi un panno buono nemmeno per farci stracci. Finalmente Ascilto riuscì una buona volta a far cessare le risa e, imposto il silenzio:

 

Testo originale

 XIV. Contra Ascyltos leges timebat et: "Quis, aiebat, hoc loco nos nouit, aut quis habebit dicentibus fidem? Mihi plane placet emere, quamuis nostrum sit, quod agnoscimus, et paruo aere recuperare potius thesaurum, quam in ambiguam litem descendere: Quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat,
aut ubi paupertas uincere nulla potest? Ipsi qui Cynica traducunt tempora pera, non numquam nummis uendere uera solent. Ergo iudicium nihil est nisi publica merces, atque eques in causa qui sedet, empta probat." Sed praeter unum dipondium, quo cicer lupinosque destinaueramus mercari, nihil ad manum erat. Itaque ne interim praeda discederet, uel minoris pallium addicere placuit ut pretium maioris compendii leuiorem faceret iacturam. Cum primum ergo explicuimus mercem, mulier operto capite, quae cum rustico steterat, inspectis diligentius signis iniecit utramque laciniae manum magnaque uociferatione latrones tenere clamauit. Contra nos perturbati, ne uideremur nihil agere, et ipsi scissam et sordidam tenere coepimus tunicam atque eadem inuidia proclamare, nostra esse spolia quae illi possiderent. Sed nullo genere par erat causa, [nam] et cociones qui ad clamorem confluxerant, nostram scilicet de more ridebant inuidiam, quod pro illa parte uindicabant pretiosissimam uestem, pro hac pannuciam ne centonibus quidem bonis dignam. Hinc Ascyltos bene risum discussit, qui silentio facto:

 

 

Sat. XV

Una scena al mercato ( 4 )

 “E’ chiaro – disse – che a ciascuno stanno a cuore moltissimo le proprie cose; loro ci restituiscano la nostra tunica e si riprendano il loro mantello”. Anche se il contadino e la donna approvavano lo scambio, degli avvocati, o meglio dei ladri di strada, che volevano far qualche soldo sul mantello, pretendevano che entrambi gli oggetti venissero depositati presso di loro e che un giudice il giorno seguente dirimesse la questione. E non esaminavano solo gli oggetti che apparivano essere nella controversia, ma ben di più, perché evidentemente entrambe le parti erano sospettate di furto. Ormai si era deciso per il sequestro, ed ecco che un tizio mai visto fra i rivenditori, calvo, con la fronte ricoperta da bernoccoli, che era solito talvolta anche trattare cause in tribunale, si era gettato sul mantello e proclamava che lo avrebbe presentato in giudizio il giorno dopo. Del resto appariva chiaro che non cercavano altro che – una volta che la veste fosse stata consegnata – spartirsela fra loro furfanti, e che noi non venissimo al dibattito per paura di essere incriminati. Era la stessa cosa che anche noi desideravamo. Così la sorte esaudì il desiderio di entrambe le parti. Infatti il contadino, indignato che noi pretendessimo che venisse presentato in giudizio il suo straccio, gettò la tunica in faccia ad Ascilto e, dato che non avevamo più motivo di lamentarci, ci ordinò di consegnare il mantello, che era l’unico motivo del contendere, e, recuperato - come credevamo - il tesoro, ce ne andammo di filato all’albergo e, chiuse le porte, ci mettemmo a ridere dell’intelligenza dei rivenditori non  meno che dei calunniatori, perché con le loro trovate astute ci avevano restituito il denaro.

 

 

Testo originale

XV. "Videmus, inquit, suam cuique rem esse carissimam; reddant nobis tunicam nostram et pallium suum recipiant." Etsi rustico mulierique placebat permutatio, aduocati tamen iam, paene nocturni, qui uolebant pallium lucri facere, flagitabant uti apud se utraque deponerentur ac postero die iudex querelam inspiceret. Neque enim res tantum, quae uiderentur in controuersiam esse, sed longe aliud quaeri, quod in utraque parte scilicet latrocinii suspicio haberetur. Iam sequestri placebant, et nescio quis ex cocionibus, caluus, tuberosissimae frontis, qui solebat aliquando etiam causas agere, inuaserat pallium exhibiturumque crastino die affirmabat. Ceterum apparebat nihil aliud quaeri nisi ut semel deposita uestis inter praedones strangularetur, et nos metu criminis non ueniremus ad constitutum. Idem plane et nos uolebamus. Itaque utriusque partis uotum casus adiuuit. Indignatus enim rusticus quod nos centonem exhibendum postularemus, misit in faciem Ascylti tunicam et liberatos querela iussit pallium deponere, quod solum litem faciebat, * et recuperato, ut putabamus, thesauro in deuersorium praecipites abimus, praeclusisque foribus ridere acumen non minus cocionum quam calumniantium coepimus, quod nobis ingenti calliditate pecuniam reddidissent.

 

 

Sat. LXXVI

Trimalcione diventa ricco

Nulla tuttavia è mai sufficiente per nessuno. Mi venne voglia di mettermi nel commercio. Per non farvela troppo lunga, feci costruire cinque navi, le riempii di vino – e allora si pagava a peso d’oro – e le spedii a Roma. Potresti pensare che l’avessi ordinato io: tutte le navi naufragarono; ed è la realtà, non è una storia. In un solo giorno Nettuno si era divorato 30 milioni di sesterzi. Pensate che mi sia arreso? Per Ercole, questi fatti non mi toccarono nemmeno, come se non fosse successo nulla. Ne costruii delle altre, più grandi, più robuste e più belle, perché nessuno dicesse che io non sono un uomo coraggioso. Sai, una grande nave ha una grande robustezza. Le riempii di nuovo di vino, lardo, fave, profumi e schiavi. A questo punto Fortunata fece un bel gesto: vendette infatti tutti i suoi ori ed i suoi vestiti e mise nelle mie mani 100 monete d’oro. Questo fu lievito per il mio patrimonio. Si fa presto quello che gli dei vogliono. Con un solo viaggio  mi tirai su 100 milioni di sesterzi. Subito mi sono ricomprato tutti i terreni che erano appartenuti al mio padrone. Mi costruisco una casa, compro mercati di schiavi e giumenti; tutto quello che toccavo cresceva come un favo di miele. Quando presi a possedere io più di quanto tutta la mia patria messa insieme possiede, passai la mano: mi ritirai dal commercio ed iniziai a fare prestiti ai liberti.

 

Testo originale

Nemini tamen nihil satis est. Concupiui negotiari. Ne multis uos morer, quinque naues aedificaui, oneraui uinum - et tunc erat contra aurum - misi Romam. Putares me hoc iussisse: omnes naues naufragarunt. Factum, non fabula. Vno die Nepturnus trecenties sestertium deuorauit. Putatis me defecisse? Non mehercules mi haec iactura gusti fuit, tanquam nihil facti. Altera feci maiores et meliores et feliciores, ut nemo non me uirum fortem diceret. Scis, magna nauis magnam fortitudinem habet. Oneraui rursus uinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia. Hoc loco Fortunata rem piam fecit: omne enim aurum suum, omnia uestimenta uendidit et mi centum aureos in manu posuit. Hoc fuit peculii mei fermentum. Cito fit quod di uolunt. Vno cursu centies sestertium corrotundaui. Statim redemi fundos omnes, qui patroni mei fuerant. Aedifico domum, uenalicia coemo, iumenta; quicquid tangebam, crescebat tanquam fauus. Postquam coepi plus habere quam tota patria mea habet, manum de tabula: sustuli me de negotiatione et coepi libertos fenerare.

 

 

Sat. XXXVIII

Un liberto decaduto alla tavola di Trimalcione

 Lo vedi quello, seduto fra i liberti? Come se l’è passata bene ! Non lo rimprovero. Si è visto il suo bel milioncino di sesterzi, ma è andato in rovina. Penso che nemmeno i capelli gli rimangano senza ipoteca. E non è per Ercole colpa sua; non c’è infatti uomo migliore di lui: ma sono stati i liberti scellerati che si sono portati via tutto. E ricordati: la pentola degli amici bolle male, e quando gli affari vanno male, gli amici si tolgono di torno. E che mestiere onesto esercitò, così come lo vedi: era impresario di pompe funebri. Era dunque solito cenare come un re: cinghiali ricoperti di pelo, capolavori di pasticceria, uccelli, cuochi, fornai. Si versava più vino sotto la sua mensa di quanto qualcuno ne abbia in cantina. Era una fantasmagoria, non un uomo. Quando anche gli affari presero una brutta piega, perché aveva paura che i creditori pensassero che fosse nei guai, pubblicò un avviso d’asta con queste parole: C. Giulio Proculo mette all’asta il superfluo dei suoi beni.       

 

Testo originale         

Quid ille qui libertini loco iacet? Quam bene se habuit! Non impropero illi. Sestertium suum uidit decies, sed male uacillauit. Non puto illum capillos liberos habere. Nec mehercules sua culpa; ipso enim homo melior non est; sed liberti scelerati, qui omnia ad se fecerunt. Scito autem: sociorum olla male feruet, et ubi semel res inclinata est, amici de medio. Et quam honestam negotiationem exercuit, quod illum sic uides! Libitinarius fuit. Solebat sic cenare, quomodo rex: apros gausapatos, opera pistoria, auis, cocos, pistores. Plus uini sub mensa effundebatur, quam aliquis in cella habet. Phantasia, non homo. Inclinatis quoque rebus suis, cum timeret ne creditores illum conturbare existimarent, hoc titulo auctionem proscripsit: "C. Iulius Proculus auctionem faciet rerum superuacuarum".

 

 

Sat. XLVI

Agamennone: come ... educare un figlio

Mi sembra che tu dica, Agamennone: “cosa parla a fare questo scocciatore?”. Perché tu, che puoi parlare, non parli. Non sei del nostro livello, e dunque deridi le parole di noi poveri. Sappiamo che tu sei innamorato della letteratura. Cosa credi? Un giorno o l’altro, riuscirò a convincerti a venire alla mia casa di campagna a vedere la mia casetta. Troveremo qualcosa da mettere sotto i denti, un pollo, delle uova: non sarà male! Troveremo dunque qualcosa per riempirci la pancia. E ormai il tuo piccolo discepolo sta crescendo, il mio monello. Ormai dice le quattro parti dell’orazione; se campa, avrai un servetto al tuo fianco. Infatti, ogni momento libero che trova, non toglie lo sguardo dalle sue tavolette. E’ ingegnoso e di buon carattere, anche se ha una fissa per gli uccelli. O gli ho già ucciso tre cardellini, e gli ho detto che glieli ha mangiati una faina. Si è tuttavia inventato degli altri giochetti, e dipinge benissimo. Del resto prende già a calci le lettere greche, e non ha imparato male quelle latine, anche se il suo maestro si fa i comodi suoi: e non si ferma su un solo argomento, ma viene raramente; conosce però le lettere, ma non vuole darsi da fare. Ce n’è anche un altro, non veramente istruito, ma volenteroso, che insegna  più di quanto sappia. Così nei giorni di festa è solito venire a casa nostra, e come compenso si accontenta di qualunque cosa tu gli abbia dato. Ho comprato dunque al mio bambino alcuni libri di diritto, perché voglio che per la gestione della casa si faccia un’infarinatura di diritto. Questo vale come il pane. Sulla letteratura, infatti, è abbastanza confuso! E se lo abbandonerà l’ho destinato ad impararsi un mestiere, parrucchiere o banditore d’aste, o certamente avvocato, qualcosa che solo l’Orco gli possa togliere. Perciò tutti i giorni gli dico: “figlio mio, credimi: tutto quello che impari lo impari per te! Guarda l’avvocato Filerone: se non avesse imparato, oggi non terrebbe la fame lontano dalle sue labbra! Poco fa sul suo collo portava in giro pesi a pagamento: oggi si può confrontare anche con Norbano. Le lettere sono un tesoro, ed un mestiere non muore mai.

 

Testo originale

XLVI. Videris mihi, Agamemnon, dicere: "Quid iste argutat molestus?" Quia tu, qui potes loquere, non loquis. Non es nostrae fasciae, et ideo pauperorum uerba derides. Scimus te prae litteras fatuum esse. Quid ergo est? Aliqua die te persuadem, ut ad uillam uenias et uideas casulas nostras. Inueniemus quod manducemus, pullum, oua: belle erit, etiam si omnia hoc anno tempestas dispare pallauit. Inueniemus ergo unde saturi fiamus. Et iam tibi discipulus crescit cicaro meus. Iam quattuor partis dicit; si uixerit, habebis ad latus seruulum. Nam quicquid illi uacat, caput de tabula non tollit. Ingeniosus est et bono filo, etiam si in aues morbosus est. Ego illi iam tres cardeles occidi, et dixi quia mustella comedit. Inuenit tamen alias nenias, et libentissime pingit. Ceterum iam Graeculis calcem impingit et Latinas coepit non male appetere, etiam si magister eius sibi placens sit. Nec uno loco consistit, sed uenit ... dem litteras, sed non uult laborare. Est et alter non quidem doctus, sed curiosus, qui plus docet quam scit. Itaque feriatis diebus solet domum uenire, et quicquid dederis, contentus est. Emi ergo nunc puero aliquot libra rubricata, quia uolo illum ad domusionem aliquid de iure gustare. Habet haec res panem. Nam litteris satis inquinatus est. Quod si resilierit, destinaui illum artificii docere, aut tonstreinum aut praeconem aut certe causidicum, quod illi auferre non possit nisi Orcus. Ideo illi cotidie clamo: "Primigeni, crede mihi, quicquid discis, tibi discis. Vides Phileronem causidicum: si non didicisset, hodie famem a labris non abigeret. Modo, modo, collo suo cicumferebat onera uenalia; nunc etiam aduersus Norbanum se extendit. Litterae thesaurum est, et artificium nunquam moritur".

 

 

 

Sat. CXIV

Una tempesta in alto mare

 Mentre parlavamo di queste cose, il mare divenne livido, e le nubi, radunatesi da ogni parte, avvolsero la luce con le tenebre. I marinai corrono pieni di paura ai loro posti,  e rimuovono la le vele in previsione della tempesta. Ma il vento gonfiava flutti che cambiavano ad ogni momento, ed il timoniere non sapeva dove dirigere la rotta. Ora il vento ci spingeva verso la Sicilia, molto spesso l’aquilone che dominava faceva virare la fragile nave da una parte e dall’altra verso il litorale italiano e, fatto ben più pericoloso di tutte le tempeste, delle tenebre tanto fitte avevano improvvisamente soppresso la luce che il timoniere non riusciva a vedere nemmeno la prua per intero. Così, quando il pericolo giunse chiaramente al suo culmine, Lica tremando mi rivolge le mani giunte ed esclama: “tu, Encolpio, aiuta noi che siamo in pericolo e rendi alla nave la veste divina ed il sistro. In nome degli dei, abbi pietà, come appunto sei solito fare”. Il vento lo scaraventò in mare mentre urlava, e la tempesta, quando tornò a galla, lo circondò e lo inghiottì con un gorgo tremendo. Trifena stava per fare la stessa fine … la afferrarono i servi fedelissimi, e postala su una scialuppa con la maggior parte dei bagagli, la sottrassero ad una morte sicura.

 

Testo originale

CXIV. Dum haec taliaque iactamus, inhorruit mare, nubesque undique adductae obruere tenebris diem. Discurrunt nautae ad officia trepidantes, uelaque tempestati subducunt. Sed nec certos fluctus uentus impulerat, nec quo destinaret cursum gubernator sciebat. Siciliam modo uentus dabat,
saepissime in oram Italici litoris aquilo possessor conuertebat huc illuc obnoxiam ratem, et quod omnibus procellis periculosius erat, tam spissae repente tenebrae lucem suppresserant, ut ne proram quidem totam gubernator uideret. Itaque +hercules+ postquam manifesta* conualuit, Lichas trepidans ad me supinas porrigit manus et: "Tu, inquit, Encolpi, succurre periclitantibus, et uestem illam diuinam sistrumque redde nauigio. Per fidem, miserere, quemadmodum quidem soles". Et illum quidem uociferantem in mare uentus excussit, repetitumque infesto gurgite procella circumegit atque hausit. Tryphaenam autem prope iam ... fidelissimi rapuerunt serui, scaphaeque impositam cum maxima sarcinarum parte abduxere certissimae morti.

 

 

Sat. CXVI

L'arrivo a Crotone

 Dopo aver volentieri compiuto quest’incombenza [ il funerale di Lica ], ci mettiamo in cammino per la destinazione prefissata, e dopo poco siamo sulla sommità del monte tutti sudati, da dove scorgiamo non distante una città dominata da un’alta rocca. E, dato che giravamo senza meta, non sapevamo cosa fosse, finchè da un contadino apprendemmo che si trattava di Crotone, città antichissima ed un tempo prima in Italia. Poiché dunque cercavamo di sapere minuziosamente che genere di uomini abitassero quella nobile terra e a quale genere di commercio si dedicassero principalmente, dopo aver perso le ricchezze a causa delle continue guerre, disse: “miei forestieri, se siete mercanti, cambiate programma e cercatevi un altro mestiere. Se invece, da uomini più raffinati, sapete mentire in continuazione, correte dritti alla ricchezza. In questa città, infatti, non si celebrano gli studi letterari, l’eloquenza non ha importanza, la frugalità ed i costumi morigerati non portano in compenso alcuna lode, anzi sappiate che tutti gli uomini che vedrete in questa città sono divisi in due categorie. Infatti sono imbrogliati o imbrogliano.

 

Testo originale

CXVI. Hoc peracto libenter officio destinatum carpimus iter, ac momento temporis in montem sudantes conscendimus, ex quo haud procul impositum arce sublimi oppidum cernimus. Nec quid esset sciebamus errantes, donec a uilico quodam Crotona esse cognouimus, urbem antiquissimam et aliquando Italiae primam. Cum deinde diligentius exploraremus qui homines inhabitarent nobile solum, quodue genus negotiationis praecipue probarent post attritas bellis frequentibus opes: "O mi, inquit, hospites, si negotiatores estis, mutate propositum aliudque uitae praesidium quaerite. Sin autem urbanioris notae homines sustinetis semper mentiri, recta ad lucrum curritis. In hac enim urbe non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum perueniunt, sed quoscunque homines in hac urbe uideritis, scitole in duas partes esse diuisos. Nam aut captantur aut captant.

 

 

 

Sat. XXXVII

Fortunata, la moglie di Trimalcione


A questo punto persi completamente l'appetito, ma, voltatomi verso il commensale dal quale potevo ricavare il maggior numero di informazioni, presi a farmi raccontare pettegolezzi ed a chiedergli chi mai fosse quella donna che si vedeva passare di qua e di là. Quella - mi disse - è al moglie di Trimalcione, si chiama Fortunata, e misura le monete a palate. E poco fa cos'era ? Mi perdoni il tuo genio, ma non avresti voluto pernder dalle sue mani neppure un pezzo di pane. Ora, non chiedermi come, è salita fino al cielo ed è il tuttofare di Trimalcione. Per farti un esempio, se a mezzogiorno in punto gli dicesse che è notte, lui le crederebbe. Lui non sa nemmeno quanto possiese, tanto è ricco sfondato; ma questa arpia bada a tutto, e persino dove non penseresti. E' parca, sobria e sempre piena di buoni consigli: vale tanto oro quanto pesa. Ma ha una linguaccia, ed è una vera gazza (?). Chia ama, ama; ma se non ti ama, non ti ama. Lo stesso Trimalcione ha possedimenti che si estendono per quanto è lungo il volo dei nibbi: e soldi a palate. C'è più argenteria nella casupola del suo portiere di quanta ve ne possa essere nel patrimonio di qualcuno. E i servi, poi, cavolo ! Per Ercole, credo che nemmeno un decimo di loro conosca il padrone. Per farla breve, tutti questi cretini spacconi al suo confronto possono andare a nascondersi. 

 

Testo originale

XXXVII. Non potui amplius quicquam gustare, sed conuersus ad eum, ut quam plurima exiperem, longe accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa, quae atque illuc discurreret. Vxor, inquit, Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria prouidet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri uides. Est tamen malae linguae, pica puluinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet, quantum milui uolant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia uero - babae babae! non mehercules puto decumam partem esse quae dominum suum nouerit. Ad summam, quemuis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.