Nato
ad Arpino (Lazio meridionale) nel gennaio del 106 a.C. da famiglia di ordine
equestre, Cicerone ricevette a Roma un’educazione accurata: fu allievo degli
oratori Marco Antonio e Licinio Crasso, dei giuristi Q. Muzio Scevola e P. Muzio
Scevola, del poeta Licinio Archia, dei filosofi Fedro (epicureo), Diodoto
(stoico), di Filone di Larissa, scolarca dell’Accademia nuova. Ascoltò anche
le lezioni dell’oratore e retore Molone di Rodi e trasse profitto dalla
conoscenza di uno dei principali oratori del tempo, cioè Ortensio Ortalo. Agli
anni giovanili risale una produzione poetica di tipo preneoterico e enniano,
rifiutata poi in età adulta. Nell’80, a soli venticinque anni, sostenne la
difesa di Sesto Roscio di Ameria ( Pro Sexto Roscio Amerino ), che era stato
accusato di parricidio da Crisogono, un liberto di Silla. Ebbe successo e si
guadagnò la stima di quelli che odiavano Silla, specialmente popolari e
cavalieri. Nel biennio 79-77 fece un viaggio d’istruzione in Grecia e in Asia
minore, in compagnia del fratello Quinto. Ad Atene frequentò le lezioni di
Antioco di Ascalona, un filosofo eclettico che aveva ereditato da Filone di
Larissa la guida dell’Accademia; a Rodi ascoltò Apollonio Molone (già
conosciuto a Roma), un retore famoso, il quale aveva assunto una posizione
equidistante tra asianesimo e atticismo. Tornato a Roma nel 78, sposò Terenzia,
dalla quale ebbe due figli, Tullia e Marco. Dopo trent’anni divorziò. Lo
stesso esito ebbe il matrimonio con la seconda moglie, Publilia. Nel 75 Cicerone
fu eletto questore e ottenne il governo della Sicilia occidentale. In memoria
della correttezza della sua amministrazione i Siciliani si rivolsero a lui per
mettere sotto accusa il sillano Verre che, in veste di pretore, aveva compiuto
una serie di illegalità. Inoltre, Verre era difeso da Quinto Ortensio Ortalo
che, come si è detto, era l’oratore più famoso di Roma: Cicerone ebbe la
meglio e Verre andò in esilio prima che il processo fosse concluso. Le Verrine
(complessivamente sette orazioni) costituiscono un documento eccezionale
dell’abilità di Cicerone in veste di avvocato. Ancora un successo fu
l’orazione pronunciata a favore dell’assegnazione a Pompeo delle operazioni
militari contro Mitridate (Pro lege Manilia o De imperio Cn. Pompei). Era il 66,
anno in cui Cicerone ottenne la pretura. Nel 64 Cicerone si presentò candidato
al consolato: tra i suoi rivali c’era Catilina, che l’anno precedente aveva
tentato senza successo un colpo di Stato, progettando di far uccidere i due
nuovi consoli. A sostegno della propria elezione, Cicerone pronunciò il
discorso in toga candida, del quale restano frammenti; anche il fratello Quinto
si adoperò per l’elezione di Cicerone, componendo il Commentariolum
petitionis, una specie di manuale di suggerimenti per la campagna elettorale.
Console nel 63, si oppose con
tutte le forze a Catilina, che intanto aveva dato corso al suo progetto
rivoluzionario. Cicerone pronunciò contro di lui le celebri Catilinarie e
propose la pena di morte per i congiurati. Ebbe la meglio, ma proprio la
condanna di cinque sostenitori di Catilina (con una procedura illegale) gli costò
l’esilio, poiché la lex Clodia de capite civis Romani prevedeva l’esilio
per chiunque avesse condannato un cittadino romano senza la possibilità che si
appellasse al popolo. L’esilio durò dal marzo del 58 all’agosto del 57; nel
settembre dello stesso anno Cicerone tornò a Roma e pronunciò due discorsi di
ringraziamento al senato e al popolo (Post reditum in senatu, Ad Quirites
). Nel 57 difese un amico, P. Sestio, e il discorso (Pro Sestio) si
trasformò nell’esposizione del suo programma politico, basato sulla
emarginazione dei demagoghi e dei violenti a vantaggio del gruppo conservatore.
Ancora più valida l’occasione che gli si presentò nel 56 quando, per
difendere M. Celio Rufo, mise sotto accusa Clodia, la sorella del noto capo
popolare, probabilmente la Lesbia di Catullo. Il processo si svolse l’anno in
cui i triumviri rinsaldarono il loro accordo nel convegno di Lucca, con il quale
si apriva una nuova fase politica, difficile per Cicerone, stretto tra le
opposte esigenze di contrastare i popolari e di corrispondere alle richieste di
Pompeo. La morte di Crasso (53) scatenò a Roma le ostilità fra le bande armate
di Clodio e di Milone: Clodio fu ucciso e Cicerone assunse la difesa di Milone,
pronunciando un’orazione (Pro Milone), che è considerata una delle meglio
riuscite; in realtà noi possediamo una versione redatta successivamente dallo
stesso Cicerone in vista della pubblicazione: l’oratore – riferiscono le
fonti – tremava mentre pronunciava l’orazione originale dai rostri, dopo
esservi stato scortato in una portantina con le tende tirate per nascondersi
dalla folla che rumoreggiava. Dopo il proconsolato di Cicerone in Cilicia (51),
si aprì la fase più convulsa dello scontro tra Cesare e Pompeo: il passaggio
del Rubicone, la battaglia a Farsalo, la morte di Pompeo, a favore del quale
Cicerone si era schierato. Nonostante la sua posizione politica, Cesare non si
comportò con ostilità verso Cicerone e non lo umiliò: questo può spiegare la
ragione della accettazione, in qualche modo, dello stato di fatto e la
composizione di discorsi, come quello in difesa di Marcello, che segnano un
avvicinamento a Cesare. Tuttavia, anche alcune vicissitudini familiari si
aggiunsero all’amarezza per il corso degli eventi politici: il divorzio da
Terenzia, la morte della figlia Tulliola; questo fu il periodo in cui compose la
maggior parte delle opere filosofiche. L’uccisione di Cesare fece balenare
l’idea di un ristabilimento del vecchio ordine politico, della “libertà”
repubblicana: Cicerone si scagliò contro l’erede politico di Cesare, Antonio,
pronunciando le Filippiche, e cercò l’appoggio del giovane Ottaviano (nipote
di Cesare). Il secondo triumvirato mise fine ad ogni progetto: Antonio ottenne
che Cicerone fosse incluso nel numero delle persone da eliminare e i sicari lo
raggiunsero a Formia nel dicembre del 43; all’assassinio si aggiunse lo
scempio del cadavere, poiché la testa e le mani furono recise ed appese ai
“rostri”, cioè sul palco dal quale aveva pronunciato le sue orazioni. Gli
inizi dell’attività letteraria di Cicerone furono in poesia, con la
composizione di poemetti mitologici di tipo didascalico e di gusto neoterico
alessandrineggiante. Di questa prima produzione non rimangono che scarsi
frammenti e alcuni titoli (Glaucus, Limon, Nilus, Alcyones, Uxorius, Talamasta).
Cicerone non nomina nessuno di questi testi, come fa invece per la traduzione da
Arato di Soli e per le successive opere in versi. Gli Aratea furono composti in
due tempi: probabilmente intorno all’80 risale la traduzione dei Fenomeni di
Arato; forse al 60 quella dei Pronostica dello stesso autore. Rimangono ampi
estratti di questa traduzione in esametri. Cicerone fu il primo ad esporre una
teoria del tradurre (poi ripresa da altri, specialmente da Girolamo )
consistente nel restituire non verba sed vim (“non le parole ma il vigore”)
dei testi originali. Nei frammenti della versione del poema di Arato avvertiamo
la liberà che egli si prendeva di amplificare e di arricchire con ornamenti
retorici il testo greco, a costo di travisare il significato delle parti
specificatamente scientifiche e tecniche. Dopo gli Aratea, Cicerone si dedicò
alla composizione di poemi epici, il Marius, una celebrazione del campione dei
populares, proveniente dalla comune patria Arpino, il De consulatu meo, il De
temporibus meis. Oltre agli Aratea, Cicerone tradusse diverse opere di autori
greci: l’orazione Sulla corona di Demostene, l’orazione Contro Ctesifonte di
Eschine, l’Economico di Senofonte, il Protagora e il Timeo di Platone
(quest’ultima conservata parzialmente). A parte la perdita di numerose
orazioni, vanno aggiunti altri testi, sia in versi che in prosa, dei quali
conosciamo solo il titolo, come Admiranda, De consiliis suis, Laus Catonis,
Laudatio Porciae ed altri ancora. Da diversi accenni emerge l’importanza che
Cicerone ha assegnato alla poesia, per esempio dall’elogio del poeta Archia
(Pro Archia) e dai diversi riferimenti al poeta “nazionale” romano, cioè ad
Ennio. Gli stessi legami con il "circolo" degli Scipioni testimoniano
un’adesione alla raffinatezza della cultura greca. L’opposizione ai modi
della poesia dei poetae novi, che Cicerone definì con disprezzo, si potrebbe
spiegare più con motivazioni di tipo politico che artistico-culturale, vale a
dire come presa di distanza dalla superficialità e dal disimpegno di poeti come
Catullo. Comunque, le espressioni usate contro i neòteroi non sono per nulla
benevole, come quando, dopo aver detto di Ennio, aggiunge (Tusculanae
disputationes III, 45): o poetam egregium! Quamquam ab his cantoribus
Euphorionis contemnitur, “che grande poeta! Anche se è disprezzato da questi
imitatori di Euforione” (al poeta greco Euforione, vissuto nel III secolo
a.C., si ispirarono i poeti ai quali si rivolge Cicerone). L’epistolario
ciceroniano è costituito da un corpo di circa 900 lettere scritte tra il 68 e
il 43 a.C., raccolte in 37 libri distribuiti nelle seguenti raccolte: - 16 libri
di lettere
Ad Atticum , scritte tra il 68 e il 44; - 16 libri
Ad familiares , scritte dal 62 al 43; - 3 libri Ad Quintum fratrem : 27
lettere scritte tra il 60
ed il 54; - un libro
Ad Marcum Brutum : 26 lettere risalenti al periodo marzo-luglio del 43.
Il corpus, che comprende anche le risposte dei diversi corrispondenti,
costituisce un documento d’eccezionale valore per la ricostruzione delle
vicende personali di Cicerone ed è anche un insostituibile documento storico,
perché accompagna o commenta i fatti politici più importanti di quella
turbinosa età, oppure ci ragguaglia su usi e costumi romani che altrimenti,
dalle storie ufficiali, noi non conosceremmo. La pubblicazione
dell’epistolario fu curata da amici e parenti: Attico, Cornelio Nepote, Tirone,
il figlio Marco Cicerone. La sua diffusione deve essere stata immediata, dato
che Nepote parla dei sedici libri di lettere ad Attico. Conviene riportare la
testimonianza di Nepote, anche perché in essa viene sottolineata l’enorme
utilità del corpus per la conoscenza del periodo storico al quale si
riferiscono le lettere. Prova dell’affetto profondo fra Cicerone e Attico -
scrive Nepote nella sua biografia di Attico (16, 3-4) - sono sedecim volumina
epistularum, ab consulatu eius usque ad extremum tempus ad Atticum missarum:
quae qui legat, non multum desideret historiam contextam eorum temporum. Sic
enim omnia de studiis principum, vitiis ducum, mutationibus rei publicae
perscripta sunt, ut nihil in eis non appareat et facile existimari possit,
prudentiam quodam modo esse divinationem, “sedici volumi di lettere
indirizzate ad Attico dal consolato fino alla morte. Chi le legge non potrebbe
desiderare un racconto storico continuato di quei tempi. Con tanta precisione è
stato trascritto tutto sugli esponenti politici, sugli errori dei comandanti,
sulle vicende dello Stato, che ogni fatto risulta evidente in essi e si può
facilmente considerare che la sagacia di Cicerone sia stata come una
predizione”. Gli argomenti variano dal pubblico al privato, ma quest’ultimo
caso è il più frequente e, tutto sommato, il più interessante, visto che
offre un’immagine completamente autentica dell’“uomo” Cicerone,
dell’amico leale, del marito premuroso e del padre affettuoso, specialmente
nei confronti della figlia prediletta Tulliola. Cicerone non aveva scritto le
lettere con l’intenzione di pubblicarle, fatto che le rende di
un’immediatezza senza confronti rispetto ad altre raccolte dell’antichità e
quindi di un estremo interesse per noi, interesse ben diverso da quello che provò
il Petrarca quando la prima volta posò gli occhi sul codice da lui scoperto
nella Biblioteca Capitolare di Verona, nel 1345. “Vecchio Cicerone - così lui
si rivolse il poeta di Laura - eternamente tormentato e preoccupato, quanto
meglio sarebbe stato per te occuparti non di questa breve vita terrena ma della
vita eterna, senza brigare per gli uffici, per i trionfi, senza sacrificare la
pace per nessun Catilina di questo mondo!”. A sua volta il moderno critico J.
Carcopino ha utilizzato l'epistolario per disegnarci un impietoso ritratto di
Cicerone, colto nelle sue debolezze private e pubbliche. Dal punto di vista
della lingua e dello stile l’epistolario ciceroniano mostra aspetti di
eccezionale interesse. L'espressione è semplice e chiara, vicina ai modi del
parlato, spesso ricca di allusioni ironiche e persino di facezie, soprattutto
varia, conformata allo stato d'animo del momento, all'occasione. Così avviene
che il lessico è molto più vario, la sintassi più articolata (se il
destinatario è personaggio di rango e fornito di cultura, lo stile può
attingere i livelli di quello oratorio), le forme paratattiche più frequenti
che non siano nelle opere di impegno ove è perseguita con scrupolo e rigore la
norma della concinnitas
(eleganza), le parole e le locuzioni greche, quando il destinatario è
dotto o non v'è corrispondente nella lingua latina, sono adoperate senza la
preoccupazione di doverle spiegare e giustificare. Se nel Brutus
e, soprattutto, nel De oratore. Cicerone si lamenta della crisi che nel
suo tempo sta soffrendo la pura latinità; se nelle opere filosofiche e nelle
orazioni evita le espressioni scorrette o semplicemente sgradevoli all'orecchio
e persegue l’urbanitas contro la rusticitas
dell'eloquio, nelle lettere, specie in quelle dirette agli amici e ai
familiari, mutua le forme della conversazione. Cicerone visse in un'età di
sommo interesse per l'oratoria. Si distinguevano allora gli oratori Marco
Antonio e Licinio Crasso, tutti e due maestri di Cicerone, ma più incisivamente
il secondo alla cui dottrina l'Arpinate aderì accogliendo soprattutto i1
principio che il perfetto oratore è frutto sia delle doti naturali sia della
cultura. Tuttavia, quando Cicerone cominciò la sua carriera, il principe del
foro era Q. Ortensio Ortalo seguace dell'indirizzo detto asiano che voleva uno
stile ridondante, fiorito di metafore, ampolloso, accompagnato ad un modo di
gestire caricato e teatrale. Cicerone preferì adottare un indirizzo che fu
detto rodiese perché proposto dalla scuola di Rodi che insegnava uno stile più
misurato, più decoroso, più o meno ricercato a seconda delle circostanze,
stile che si poneva come medio tra il citato “asiano” e il suo opposto detto
attico, semplice, sobrio fino alla sciatteria, costruito sul modello
dell'ateniese Lisia. Alcune orazioni sono già state ricordate nel riassumere le
vicende della vita di Cicerone, visto il legame profondo che c’è stato tra
biografia e attività forense. Le orazioni conservate sono 58 (delle oltre cento
originarie); ne diamo l’elenco in ordine cronologico, dividendole in tre
gruppi - preconsolari, consolari e postconsolari: 1) \i Pro P. Quinctio (81);
Pro Sex. Roscio Amerino
(80);
Pro Roscio comoedo
(77 ca); Divinatio in Q. Caecilium (70); In C. Verrem (70); Pro Tullio
(69); Pro Fonteio (69); Pro Caecina (69); Pro Cluentio (66); De imperio
Cn. Pompei (66); 2) De lege agraria (63); Pro Rabirio perduellionis reo (63);
Pro Murena (63); In Catilinam (63); Pro Sulla
(62); Pro Archia poeta (62); Pro Flacco (59); Cum senatui gratias egit
(57); Cum populo gratias egit (57); De domo sua (57); Pro Sestio
(57); De haruspicum responso (56); In Vatinium (56); Pro Caelio (56); De
provinciis consularibus (56); Pro Balbo (56); In Pisonem (55); Pro Plancio (54);
Pro Scauro (54); Pro Rabirio Postumo (54); Pro Milone (52); Pro Marcello (46);
Pro Ligario (46); Pro rege Deiotaro (45); Philippicae I-XIV (44-43).