Tobin tax, una richiesta di giustizia

Come e perché il gioco d'azzardo dei mercati finanziari sottrae credito ai poveri e allo sviluppo

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INDICE:

Introduzione: C'è un limite ?

1. Dai tulipani all'oro

2. Dall'oro al dollaro

3. Dal dollaro ai futures

4. Euforia e panico: le crisi finanziarie

5. Le conseguenze sociali della finanza globale e le proposte alternative

 

PICCOLO GLOSSARIO RAGIONATO


 C'è un limite

"Oggi un contadino ha acquistato un singolo bulbo del raro tulipano chiamato Vicerè pagando per esso: otto maiali grassi, quattro buoi grassi, dodici pecore grasse, ventiquattro tonnellate di grano, quarantotto tonnellate di segale, due botti di vino, quattro barili di birra, due tonnellate di burro, mille libbre di formaggio, una coppa d'argento, un abito e un letto completo, per un totale di 2.500 fiorini", una cifra equivalente al reddito annuo dei più ricchi mercanti dell'epoca. Questa astronomica quotazione di un bulbo di tulipano risale al gennaio 1637. Siamo in Olanda - le "Province Unite" - che si stava affermando in quegli anni come il centro della nuova economia-mondo capitalistica. E siamo al culmine della "febbre dei tulipani", la prima grande speculazione finanziaria della nuova economia.

Status-symbol dell'oligarchia olandese, i tulipani erano richiesti e acquistati a prezzi sempre più elevati a partire dal 1635. All'inizio si scambiavano i bulbi, ma da un certo punto in poi cominciarono ad essere contrattati titoli di proprietà per bulbi "futuri". E i protagonisti del mercato furono sempre meno coltivatori e proprietari di giardini e sempre più operatori che compravano e vendevano solo per ottenere un guadagno finanziario, senza alcun interesse al tulipano in sé. Infine, il primo martedì di febbraio del 1637, una partita di tulipani messa in vendita a un prezzo accettabile non trovò acquirenti. Fu il segnale del crollo delle quotazioni. Alcuni, usciti in tempo dalla "tulipomania", si erano arricchiti. Altri - i più - si ritrovarono in mano bulbi, e pezzi di carta, acquistati a prezzi altissimi e ora senza valore.

La "febbre dei tulipani" è stata solo la prima di numerose vicende di speculazione finanziaria sui prodotti o sui titoli i più diversi, con la classica sequenza di euforia e panico, che hanno caratterizzato la dinamica dell'economia e della finanza moderne. Su di esse le opinioni sono sempre state controverse: chi le ha valutate come un grave elemento di disordine e di instabilità e chi le ha considerate un eccesso inevitabile, o un meccanismo di "pulizia", nel sistema di mercato. Prevale comunque l'idea che siano vicende "a somma zero": qualcuno - i più furbi - ne esce bene, qualcun altro - gli incauti - ne esce male, o anche malissimo. Ma nel complesso "quel che si toglie da una parte si aggiunge dall'altra".

Invece non è così. In queste pagine cercheremo di spiegarvi perché, quando la speculazione finanziaria acquisisce un ruolo dominante nell'economia, le conseguenze sulle attività reali, sia nei momenti di "euforia" che in quelli di "panico", sono estese e pesanti. Non solo sul piano quantitativo. Pensiamo al fatto che, nelle febbri speculative, gli acquisti cominciano ad essere fatti a credito, poiché il denaro a prestito a breve termine costa meno dei guadagni previsti nella fase di rialzo. E a quanto ciò sia lontano dal significato originario della parola "credito" - "credere", "aver fiducia" - che allude ad una valutazione del progetto di investimento da finanziare. Una valutazione economica ma anche, perché no, sociale ed etica.

Oggi, nella "nuova economia" di internet e delle borse, i capitali lanciati nelle corse speculative sono diventati enormi, ed enormi sono diventati i guadagni e le perdite. Ventidue anni fa il Premio Nobel per l'economia James Tobin lanciò una proposta sicuramente provocatoria: i mercati finanziari sono "troppo perfetti", occorre "gettare una manciata di sabbia negli ingranaggi della speculazione", sotto forma di un'imposta, per renderne meno disastrosi gli effetti di instabilità. Ma la "tassa Tobin" è, simbolicamente, qualcosa di più: è la proposta di mettere un limite all'accumulazione per l'accumulazione, alla ricerca sfrenata di ricchezza, che all'altro estremo produce miseria. Per questo la prendiamo a bandiera di una campagna di opinione. Non è solo una misura ragionevole per limitare la possibilità che un bulbo di tulipano venga quotato "otto maiali, quattro buoi e dodici pecore". È soprattutto una richiesta di giustizia.


 1. Dai tulipani all'oro

Un sistema finanziario internazionale è l'insieme delle regole, delle abitudini, degli strumenti, delle strutture e delle organizzazioni in base ai quali vengono effettuati tutti i pagamenti e le transazioni internazionali. Tra gli economisti si sostiene che un sistema finanziario può dirsi efficiente se massimizza il flusso internazionale del commercio e degli investimenti e porta a una distribuzione "equa" dei vantaggi del commercio internazionale tra i diversi paesi. Ma l'interpretazione di questi obiettivi è quanto meno controversa.

Alla metà del secolo scorso la Gran Bretagna era l'"officina del mondo". Il processo di industrializzazione avviato nell'isola - la "rivoluzione industriale" - aveva dato al Regno Unito un enorme vantaggio competitivo, che faceva dei britannici i maggiori sostenitori del libero scambio. E "l'imperialismo del libero scambio", così come la regolazione del mercato del lavoro interno, richiedevano la parità aurea per la sterlina.

Il sistema monetario internazionale tra la metà dell'800 e la Prima Guerra Mondiale si chiamava, appunto, gold standard (base aurea). Nel regime di "gold standard" ogni paese fissava la propria valuta ad una determinata quantità di oro, e poiché tale rapporto doveva essere mantenuto invariato restavano invariati anche i tassi di cambio tra le monete.

Di fatto, la sterlina inglese era la sola valuta realmente rilevante e Londra era di gran lunga il principale centro finanziario internazionale. Speculazione sulle valute ve ne era poca: non si manifestavano crisi di fiducia nella sterlina e spostamenti verso altre monete o altri mercati. I paesi lasciavano che gli obiettivi interni (crescita economica e occupazione) restassero subordinati all'obiettivo dell'equilibrio esterno (parità dei cambi). Ciò era possibile grazie ad una flessibilità dei prezzi maggiore di quella attuale, per cui, se si faceva fatica a mantenere l'equilibrio dei conti con l'estero, "il cambio non cambiava" e invece scendevano i prezzi, e quindi i salari, per essere più competitivi. Ammesso che si potesse competere con "l'officina del mondo". Per far scendere i già modesti salari poteva essere utile aumentare la disoccupazione, in modo da indebolire la posizione degli occupati. Questo poteva significare una maggiore povertà di ampie fasce di popolazione. L'oro, "barbarico relitto", richiedeva indirettamente le sue vittime.

Il periodo del "gold standard" è tuttora circondato da un'aura di nostalgia come periodo di stabilità. La speculazione però non era assente. Semplicemente si esercitava su altri campi: le nascenti borse o il debito estero (già allora). Ed era dominata dalla haute finance, la finanza delle grandi famiglie di banchieri.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale il sistema di "gold standard" ebbe fine. Fino alla metà degli anni '20 i tassi di cambio fluttuarono ampiamente e, anche se questo clima di instabilità e incertezza portò a desiderare il ritorno alla stabilità aurea, cause profonde portarono al definitivo abbandono del meccanismo della parità con l'oro. In primo luogo la Grande Depressione.

"Con il suo sostegno alla base aurea internazionale, la comunità finanziaria di New York incoraggiò e sostenne i tentativi, in fin dei conti vani, di Londra di rimanere al centro della finanza mondiale. New York non fu la sola nel sostenere questo tentativo londinese di far ritorno al mondo del 1913. Nel corso di tutti gli anni venti la maggior parte dei governi occidentali condivideva il convincimento che solo la ricostituzione del sistema monetario precedente al 1914, "questa volta su solide basi", avrebbe potuto ristabilire la pace e la prosperità. Quale che fosse il loro orientamento ideologico, i governi nazionali adattarono le loro politiche fiscali e monetarie alla salvaguardia della moneta... Per ironia della sorte, tuttavia, questo sforzo concertato, invece di riportare in vita il sistema monetario mondiale prebellico, ne affrettò la crisi finale. Allo scopo di stabilizzare le proprie monete, i governi fecero ricorso a quote di importazione, moratorie e accordi di congelamento, sistemi di compensazione e trattati commerciali bilaterali, accordi di scambio, divieti di esportazioni di capitale, controlli sul commercio estero e fondi di stabilizzazione dei cambi: tutte misure che in realtà tendevano a limitare il commercio e i pagamenti esteri... La ricerca di monete stabili sotto la pressione della "fuga di capitali" trasformò infine la stagnazione del commercio e della produzione mondiali degli anni venti nella crisi degli anni trenta".

(Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1996, pp. 357-358)

Tornare all'oro avrebbe voluto dire tornare al libero scambio ad egemonia britannica. Ma le condizioni erano cambiate. A partire dai crediti di guerra, gli Stati Uniti avevano soppiantato la Gran Bretagna come maggiore operatore finanziario mondiale. Erano cresciuti i "capitali vaganti" e i loro movimenti tra centri finanziari mondiali alla ricerca di un investimento a breve termine o di profitti speculativi. Questi capitali esercitavano pericolose pressioni sul valore delle monete e sulle riserve - auree e valutarie - dei diversi paesi. Al tempo stesso nel commercio internazionale la concorrenza era aumentata, ed erano aumentate le misure protezionistiche per evitare deficit dei conti con l'estero. In queste circostanze, l'obiettivo di tornare alla parità aurea poteva portare solo ad una depressione internazionale.

A far precipitare la crisi fu l'euforia speculativa nel mercato finanziario statunitense. Il credito, generosamente elargito, garantiva l'ossigeno al meccanismo speculativo.

La prima manifestazione di atmosfera euforica, che diede il via alla bolla speculativa, non ebbe luogo a New York, centro delle contrattazioni e degli affari, ma in Florida. Negli anni venti il clima e il mare della regione generarono una folle corsa all'investimento edilizio, un vero e prorio boom immobiliare. Ogni domanda di acquisti giustificava se stessa e stimolava la successiva. Fantastici lotti di terreno definiti "sul lungomare" potevano trovarsi dai 10 ai 15 km dall'acqua. Nel 1926 il crollo fu determinato dalla riduzione dell'afflusso dei compratori necessario a sostenere la spinta ascensionale, che si tramutò in volontà immediata di realizzo. Tuttavia le attese speculative si trasferirono nello scenario - certamente meno amabile - di Manhattan, dove i corsi azionari stavano salendo costantemente dal 1924, sino a perdere il contatto con la realtà nel 1928-29: le quotazioni azionarie non rispecchiavano più il valore reale delle imprese collocate nel mercato borsistico.

Il crollo si verificò nell'ottobre del 1929, quando cominciarono a sentirsi gli effetti di un rialzo dei tassi di interesse e le banche cominciarono a rientrare dalle posizioni di prestito interne ed estere. Martedì 29 ottobre, il "martedì nero", alla borsa di Wall Street si scatenò un'ondata di panico. Da quel momento la crisi finanziaria si intrecciò con la depressione economica. Nelle settimane che seguirono la domanda per una ampia gamma di prodotti di consumo registrò una flessione, la fiducia delle imprese fu scossa, gli investimenti caddero e aumentò il numero di fallimenti per l'eccessiva esposizione finanziarie. Nell'inverno del 1933 il sistema economico-finanziario degli Stati Uniti si fermò. La crisi intanto si era diffusa in Europa con deflazione dei prezzi, crolli bancari, disoccupazione crescente.

Quando il 21 settembre 1931 la sterlina abbandonò il "gold standard", l'epoca della parità aurea, e dell'egemonia economica della Gran Bretagna, volse alla fine. Seguì, tra il 1931 e il 1936, un periodo di forte instabilità e di svalutazioni competitive attraverso le quali i vari paesi tentavano di "esportare" la propria disoccupazione. Nel tentativo di stimolare le proprie esportazioni, nel 1933-1934 anche gli Stati Uniti arrivarono a svalutare il dollaro, aumentando il prezzo in dollari dell'oro da 20,67 a 35 dollari l'oncia, nonostante il surplus della loro bilancia dei pagamenti. In questo periodo i paesi imposero forti dazi e altre serie restrizioni alle importazioni, così che il volume complessivo del commercio internazionale risultò praticamente dimezzato. La "rottura del filo aureo" (Karl Polanyi) era il segnale di una "rivoluzione" con la scomparsa della haute finance dalla politica mondiale, il crollo della Società delle Nazioni a vantaggio degli imperi autarchici, l'ascesa del nazismo in Germania, i piani quinquennali sovietici e il lancio del New Deal negli Stati Uniti.

Nel 1939 la depressione cedette il passo ad una nuova fase: la guerra.


2. Dall'oro al dollaro

Nel 1944 a Bretton Woods, cittadina dello Stato del New Hampshire (Usa), si incontrarono i delegati di Stati Uniti, Regno Unito e altri 42 paesi per decidere quale sistema monetario internazionale instaurare dopo la guerra. Il sistema progettato, che fu poi conosciuto come Sistema di Bretton Woods, prevedeva l'istituzione di due organismi finanziari internazionali: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM).

In particolare al Fondo Monetario internazionale erano affidati i seguenti compiti:

  1. controllare che i paesi si attenessero all'insieme di regole concordate in ambito commerciale e finanziario;

  2. concedere prestiti ai paesi che presentassero rilevanti deficit di bilancia dei pagamenti.

Il sistema di Bretton Woods rifletteva il progetto della delegazione americana, guidata da Harry D. White, piuttosto che quello proposto da John Maynard Keynes, che guidava la delegazione britannica. Il progetto di Keynes prevedeva l'istituzione di un ente, la Clearing Union, in grado di creare liquidità internazionale sulla base di una nuova moneta internazionale, chiamata bancor, allo stesso modo in cui la Banca Centrale di ogni paese è in grado di creare moneta interna.

Il Fondo Monetario Internazionale iniziò a funzionare il 1° marzo 1947, con l'adesione di trenta paesi. Con l'ammissione delle repubbliche dell'ex Unione Sovietica e di altri paesi all'inizio degli anni Novanta, i membri hanno raggiunto il numero di 181. Oggi ne restano fuori solo pochi paesi, come Cuba, Corea del Nord e Vietnam.

Il sistema di Bretton Woods era un sistema di gold exchange standard: gli Stati Uniti si impegnavano a mantenere fisso il prezzo dell'oro, al livello di 35 dollari l'oncia, e ad assicurare la convertibilità in oro a quel prezzo di tutti i dollari esistenti sul mercato internazionale. In altre parole qualsiasi cittadino detentore di una qualsiasi quantità di dollari poteva - almeno in teoria -bussare alle porte della Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti) e richiedere l'equivalente in oro.

Gli altri paesi membri si impegnavano a fissare il prezzo della propria moneta in termini di dollari - e quindi, implicitamente, in termini di oro - e ogni variazione non poteva oltrepassare limiti stabiliti, ovvero una banda di oscillazione di un punto percentuale. All'interno dei margini di oscillazione consentiti, i tassi di cambio tra le valute erano determinati dalle forze della domanda e dell'offerta ed erano mantenuti stabili da interventi monetari delle Banche Centrali attraverso la compravendita di valuta.

In sostanza si tornava ad una forma attenuata di cambi fissi e ad una forma più articolata di "parità aurea attraverso il dollaro". Era il sanzionamento della nuova posizione dominante degli Stati Uniti tra le potenze economiche occidentali.

Dopo una fase di transizione dal 1944 al 1947, i paesi membri dovettero progressivamente eliminare tutti gli ostacoli alla convertibilità delle proprie valute in altre valute e in dollari statunitensi. Inoltre si impegnarono a non imporre restrizioni aggiuntive al commercio internazionale - altrimenti la convertibilità delle valute non avrebbe avuto molto senso - e le restrizioni esistenti dovevano essere via via eliminate attraverso negoziati multilaterali sotto la supervisione del GATT, General Agreement on Tariffs and Trade, quello che oggi è diventato l'Organizzazione Mondiale del Commercio, World Trade Organisation, WTO. Erano invece consentite restrizioni ai flussi internazionali di capitali liquidi, per permettere ai paesi di proteggere le proprie valute da ampi flussi internazionali di moneta speculativa destabilizzante, la cosidetta "hot money" ("denaro caldo", nel senso di molto mobile).

La possibilità di chiedere prestiti al Fondo Monetario era limitata alla copertura di deficit temporanei della bilancia dei pagamenti, e i prestiti dovevano essere rimborsati nell'arco di tre o cinque anni affinché che le riserve del Fondo non restassero vincolate in prestiti a lunga scadenza.

Benché il sistema prevedesse e consentisse oscillazioni dei cambi in casi di squilibrio, nella realtà i paesi industrializzati tendevano a non modificare le loro parità se non nei casi in cui ciò fosse palesemente necessario e praticamente imposto da forti pressioni speculative destabilizzanti (speculazione destabilizzante). I paesi in deficit erano riluttanti a svalutare le proprie monete, perché questo era un segno di debolezza dell'economia nazionale. Allo stesso modo, i paesi in attivo tendevano a non rivalutare le proprie monete, preferendo al contrario, continuare ad accumulare riserve di valuta internazionale.

Tra il 1950 e l'agosto del 1971 la Gran Bretagna svalutò solo nel 1967, la Francia solo nel 1957 e nel 1969, e il Giappone mai. Il Canada invece, sfidando le regole del FMI, mantenne tassi di cambio fluttuanti dal 1950 al 1962 e istituì di nuovo questa flessibilità nel 1970. I paesi in via di sviluppo, viceversa, svalutarono fin troppo spesso.

La riluttanza dei paesi industrializzati ad adottare come misura di politica economica la modifica delle parità anche in situazioni di squilibrio ebbe due importanti effetti: in primo luogo, privò il sistema di Bretton Woods di gran parte della sua flessibilità e del meccanismo di aggiustamento degli squilibri di bilancia dei pagamenti; in secondo luogo, quella riluttanza diede origine a enormi e destabilizzanti movimenti internazionali di capitali, in quanto lasciava ampio spazio a redditizie manovre speculative a senso unico, con rischi contenuti per gli speculatori. Un esempio è dato dal caso della Gran Bretagna negli anni '60.

"Finché la sterlina ha goduto di un indiscusso prestigio, è stata accumulata senza alcun timore dai paesi e dagli operatori creditori del Regno Unito. Quanto per contro, a seguito dei persistenti deficit della bilancia dei pagamenti britannica durante gli anni sessanta, si è diffusa la convinzione che gli inglesi stavano vivendo ad uno standard non più loro consentito e che di conseguenza le autorità monetarie trovavano difficoltà nell'assicurare la conversione della loro moneta nel dollaro, ingenti quantità di sterline sono affluite a Londra per essere trasformate in valuta americana".

(Sergio Bortolani, L'evoluzione del sistema monetario internazionale, Il Mulino, Bologna 1977, p. 31)

"Lo sforzo condotto tra il 1964 e il 1967 dal governo laburista inglese per mantenere la parità della sterlina al livello di 2,80 dollari per una sterlina assunse (agli occhi del governo) le dimensioni di una "eroica battaglia". La difesa del cambio divenne una questione di prestigio nazionale poiché, sia da parte del governo che della Banca d'Inghilterra, si riteneva che la svalutazione avrebbe significato, oltre che un danno economico, finanziario e morale, un vero e proprio disastro per il paese... Vi erano anche altri e più fondati motivi per i quali il governo britannico temeva le conseguenze di una svalutazione sul tasso di crescita del livello generale di vita. Per migliorare il saldo della bilancia dei pagamenti del Regno Unito era necessario, infatti, trasferire risorse dal consumo interno verso le esportazioni. Affinché questa manovra avesse successo, per un certo periodo di tempo i salari reali dovettero crescere a ritmi sensibilmente più contenuti...

Nel 1967 il governo del Regno Unito, pur avendo già deciso di svalutare, tenne aperti i mercati dei cambi venerdì 17 novembre, poiché l'approvazione formale del FMI non poteva essere accordata prima del sabato successivo. Questo ossequio alle regole del gioco costò alla Gran Bretagna una perdita di riserve internazionali pari a oltre 1.100 milioni di dollari in un solo giorno".

(Geoffrey Bell, Mercato dell'eurodollaro e sistema finanziario internazionale, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 154-155)

Enormi flussi di capitali liquidi si muovevano attorno alla sterlina, spinti dall'aspettativa della svalutazione. Anche perché gli speculatori correvano pochissimi rischi. Vendevano sterline a 2,80 dollari: se l'"eroica battaglia" della Banca d'Inghilterra avesse avuto successo, le avrebbero dovute ricomprare allo stesso prezzo (al massimo avrebbero dovuto pagare gli interessi se era valuta presa a prestito); se invece, come accadde, la diga cedeva, le avrebbero ricomprate a 2,40 dollari, tenendosi 40 centesimi di dollaro per ogni sterlina scambiata.

La svalutazione della sterlina nel 1967 si rivelò la prima grande falla nel sistema di Bretton Woods. Il colpo decisivo arrivò nel cuore del sistema, negli Stati Uniti.

 2.1 Il crollo del sistema di Bretton Woods

Il "gold exchange standard" si fondava sulla disponibilità di dollari, moneta chiave di cui veniva garantita la convertibilità in oro. Perché i dollari circolassero nel mondo come moneta internazionale, occorreva che gli Stati Uniti acquistassero molti prodotti dall'estero oppure muovessero capitali - sotto forma di crediti o di investimenti - verso gli altri paesi. Gli Usa dovevano quindi svolgere il ruolo di "banchiere mondiale".

Dal 1945 al 1949 gli Stati Uniti presentarono forti avanzi di bilancia dei pagamenti nei confronti dei paesi europei. Questa posizione non consentiva di far circolare dollari: erano più quelli che entravano in Usa che quelli che uscivano. Anche per questo fu avviato il Piano Marshall, cioè aiuti statunitensi a fondo perduto per sostenere la ricostruzione e permettere agli europei di pagare i loro deficit. Una volta avviata la ripresa in Europa, la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti iniziò a presentare dei deficit, fino al 1957 piuttosto contenuti - in media un miliardo di dollari l'anno - e poi più consistenti - in media 3 miliardi di dollari l'anno. L'aumento del deficit della bilancia dei conti con l'estero Usa era dovuto essenzialmente a consistenti deflussi di capitali soprattutto verso l'Europa, mentre la bilancia commerciale restava in avanzo. La situazione era considerata "sana": il paese del dollaro stava finanziando il resto del mondo, come è giusto che faccia un banchiere. Ma per quanto tempo?

E soprattutto: che succede se il disavanzo diviene anche commerciale? È quello che accadde alla fine degli anni '60, quando la locomotiva Usa cominciò a perdere colpi e competitività, a causa soprattutto degli enormi programmi di spesa pubblica (militare) legati alla guerra del Vietnam, e alle conseguenti pressioni inflazionistiche e di aumento delle importazioni. Con il deficit commerciale, il banchiere perde l'immagine di solidità. In effetti le riserve auree degli Stati Uniti si stavano contraendo e l'ammontare di dollari detenuto all'estero era cresciuto al punto da superare, nei primi anni Sessanta, l'ammontare delle riserve, fino a raggiungere, nel 1970, un valore quadruplo. Il rapporto dollaro/oro era saltato.

Il 15 agosto 1971 il presidente americano Richard Nixon annunciò pubblicamente la fine del sistema di convertibilità del dollaro, in pratica la svalutazione del dollaro rispetto all'oro. I mercati dei cambi del mondo occidentale furono immediatamente chiusi, e quando riaprirono, due settimane più tardi, le principali valute cominciarono a "fluttuare" liberamente. Iniziava l'epoca dei cambi flessibili.


 

  3. Dal dollaro ai futures

La fine del sistema di Bretton Woods avrebbe dovuto sottrarre agli Stati Uniti il loro ruolo di unico "banchiere del mondo", privilegio "esorbitante" secondo l'espressione usata dal presidente francese Charles de Gaulle. L'ironia della vicenda è che il dollaro, anche dopo il crollo del sistema, rimase una moneta internazionale e anzi, negli anni successivi al 1971, l'ammontare di dollari detenuto dagli operatori stranieri è andato aumentando drasticamente.

Dall'agosto 1971 - salvo qualche tentativo, sostanzialmente infruttuoso, di tornare ad un sistema di parità fisse - i cambi delle valute hanno iniziato a fluttuare liberamente e l'economia è entrata in una nuova fase caratterizzata da forti apprezzamenti e deprezzamenti nel valore delle varie monete. Una delle conseguenze di questo nuovo sistema è stata la grande espansione delle opportunità di scommettere sui movimenti incessanti delle valute.

E dalle valute si è passati a molti altri prodotti finanziari. Il regime di cambi flessibili è stato solo una delle condizioni che ha portato all'esplosione dei mercati finanziari e ad una loro sostanziale autonomizzazione dall'economia reale.

 

  3.1 Mercati finanziari: le decisioni chiave (sconosciute ai più) che hanno consentito il boom

26 giugno 1974: fallimento della banca tedesca Herstatt. Problema del "credito di ultima istanza" (di salvataggio): nel settembre di quell'anno viene creata, in sede BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali, l'istituto di coordinamento tra le banche centrali) la Commissione di Basilea sulla Supervisione Bancaria; nel 1975 e nel 1988 vengono stipulati Concordati che fissano le regole sulla responsabilità in materia e sull'adeguatezza patrimoniale delle banche in relazione ai rischi. Nel 1996 la BRI afferma che le norme sull'adeguatezza patrimoniale sono imprecise e quindi inutilizzabili.

6 ottobre 1979: il nuovo presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, cambia la politica monetaria della banca centrale Usa. La priorità diventa ridurre la quantità di moneta per sgonfiare l'inflazione. I tassi di interesse balzano alle stelle e resteranno elevati per anni, spingendo ingenti capitali verso l'investimento finanziario.

30 marzo 1983: al New York Merchantile Exchange viene introdotto il contratto "future" per il petrolio. Le grandi compagnie petrolifere si trasformano in società di trading. I paesi produttori dell'Opec perdono la possibilità di fissare il prezzo in regime di quasi-monopolio. Finisce l'unica eccezione alla dipendenza delle materie prime dai mercati finanziari.

27 ottobre 1986: a Londra, sulla scia di quello che è avvenuto a Wall Street, sono abolite le commissioni fisse sul mercato azionario, eliminate le restrizioni alle transazioni e avviate le operazioni elettroniche. È il cosiddetto "big bang" dei mercati finanziari.

Dunque, minori vincoli sugli operatori, deregolamentazione, liberalizzazione dei movimenti di capitale, limitazione o fine dei controlli. E l'impatto delle innovazioni finanziarie (nuovi tipi di contratti e di operazioni) e tecnologiche (mercato telematico). Così si creano le condizioni per l'impennata dei mercati finanziari.

 

 

  3.2 Le cifre del boom

Economia reale ed economia finanziaria alla svolta del secolo

prodotto lordo mondiale

30.000 miliardi di dollari circa

commercio internazionale di beni e servizi

6.500 miliardi di dollari circa

(5.200 miliardi di beni, 1.300 miliardi di servizi)

valore delle attività finanziarie mondiali

53.000 miliardi di dollari circa

crediti complessivi erogati nel mondo

13.000 miliardi di dollari circa

La dimensione delle Borse valori

(capitalizzazione, ossia valore complessivo delle azioni quotate - dati a fine '99)

Nyse (Wall Street, New York)

11.160 miliardi di dollari

Nasdaq (tecnologici, New York)

5.036 miliardi di dollari

Tokio

4.325 miliardi di dollari

IX (Londra + Francoforte)

4.258 miliardi di dollari

Euronext (Parigi + Amsterdam + Bruxelles)

2.405 miliardi di dollari

Milano (Piazza Affari)

706 miliardi di dollari

Zurigo

657 miliardi di dollari

Madrid

417 miliardi di dollari

Taiwan

362 miliardi di dollari

Seul

296 miliardi di dollari

 

Valore dei prodotti finanziari "derivati" 1999

80.000 miliardi di dollari circa

di cui

 

Sui tassi di interesse

50.000 miliardi di dollari circa

sui cambi

18.000 miliardi di dollari circa

sulle azioni e gli indici di borsa

1.500 miliardi di dollari circa

sulle materie prime

500 miliardi di dollari circa

altri

10.000 miliardi di dollari circa

(fonte: BRI)

Come si distribuiscono la ricchezza e le opportunità

Il 20% più ricco della popolazione mondiale ha: l'82,7% del prodotto mondiale, l'81,2% del commercio, l'80,6% del risparmio, l'80,5% degli investimenti e il 94,6% del credito

(fonte: UNDP)

"Ogni giorno sui mercati delle valute vengono effettuati scambi per 1.500 miliardi di dollari, più del valore del prodotto annuo latinoamericano, poco meno del prodotto asiatico, il doppio del prodotto di tutti i paesi dell'Est europeo, l'equivalente di un anno di produzione di un paese come la Francia".

(Antonio Pollio Salimbeni, Il grande mercato, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 17)

 

  3.3 Le caratteristiche dei nuovi mercati finanziari globali

Nei mercati finanziari si effettua lo scambio di attività finanziarie - in ultima istanza di denaro - con lo scopo di redistribuire la ricchezza prodotta da chi ne ha in eccesso rispetto al consumo (i risparmiatori) a chi ne necessita per effettuare investimenti (imprese, enti pubblici, privati). Una funzione assolutamente indispensabile per qualsiasi economia. Oggi però i mercati finanziari si presentano fuori dal controllo di qualsiasi autorità, nazionale o sovranazionale, e anche di qualsiasi legge economica, esclusa la massimizzazione del profitto nel suo più stretto (e cinico) significato. E si tratta di mercati ormai internazionalizzati: la finanza globale opera 24 ore su 24 sulle diverse piazze che via via aprono e chiudono le attività ai quattro angoli del mondo.

L'internazionalizzazione, o globalizzazione, è caratterizzata da due principali elementi:

La velocità dei mercati, e quindi dello scambio di capitali, si è enormemente accelerata. Esistono dei contratti di prestito sul mercato internazionale aventi durata talmente breve da porre in discussione, paradossalmente, la possibilità di dimostrare la loro esistenza: ad esempio, un contratto come l'overnight, che prevede prestiti attivati nel pomeriggio con rimborso nel giorno lavorativo seguente e contestuale liquidazione degli interessi. I fusi orari differenti rendono tali operazioni praticamente continue. Come si può facilmente immaginare, questi contratti, con la loro estrema velocità di esecuzione, ben difficilmente possono riguardare investimenti aventi ad oggetto attività reali.

L'altra caratteristica cruciale è la profonda, e rapidissima, innovazione finanziaria. L'attività tipicamente finanziaria (raccolta di risparmio e suo impiego ad opera delle banche, compravendita di titoli azionari e obbligazionari) rappresenta oggi una parte minoritaria delle contrattazioni. La maggior parte delle operazioni si svolge in relazione ai cosiddetti "prodotti derivati" (futures, options, swaps) che hanno la caratteristica di non essere direttamente connessi con il bene reale sottostante alla contrattazione stessa.

Qual è la logica prevalente su questo tipo di mercati? A parte le occasioni di accesso ai mercati per reperire finanziamenti o per investire nel controllo di un'azienda (offerte pubbliche di acquisto e scambio, di sottoscrizione, emissione di titoli), la stragrande maggioranza delle operazioni che vengono eseguite quotidianamente sulla rete delle borse internazionali da banche, fondi comuni, società di intermediazione mobiliare, aziende e anche semplici risparmiatori (magari on line da casa, come è possibile fare ora), ha come molla decisionale le opportunità di guadagno a breve termine. È questa l'essenza di ciò che si definisce "attività speculativa": gli operatori intervengono comprando e vendendo sulla base delle oscillazioni delle quotazioni, indipendentemente dall'oggetto dell'operazione, un'azione piuttosto che un contratto su una materia prima o una valuta straniera. Anzi si arriva ad eseguire molteplici operazioni sullo stesso oggetto nell'arco della medesima giornata e, talora, di pochi minuti.

Attraverso soprattutto i fondi comuni di investimento, oggi anche i piccoli risparmiatori hanno accesso alle borse. I gestori dei fondi sono incentivati a massimizzare l'incremento di valore del denaro gestito per conto terzi a breve termine, indipendentemente dalla composizione del portafoglio, della quale probabilmente nessuno mai chiederà conto. Ecco quindi le necessità di operare alacremente sui mercati alla ricerca della minima variazione, in modo da poter comunicare al risparmiatore quotidianamente un qualche incremento di valore del suo investimento.

Secondo dati attendibili, le attività meramente speculative rappresentano oggi oltre il 90% delle contrattazioni effettuate a livello internazionale.

 

  3.4 Cosa sono i "prodotti finanziari derivati"?

I "derivati" sono un sistema sofisticato di gestione del rischio. Questo concetto non è nuovo. Già nel Medioevo alcuni mercanti stipulavano contratti anticipati per la consegna futura di raccolti o altre merci. I "futures" - contratti che prevedono la vendita o l'acquisto di qualcosa in data futura a un prezzo già concordato - erano già utilizzati in Olanda e in Giappone nel XVII secolo, e contratti anticipati in valute estere esistevano già nel XIX secolo. Tuttavia, fino a non molto tempo fa, il commercio di "futures" era associato alle transizioni di merci, prodotti agricoli o minerali, soggetti ad imprevedibili variazioni di prezzo, mentre i contratti relativi a valute estere o azioni erano poco diffusi.

Lo sviluppo di questi contratti si è avuto negli anni settanta, con il rapido aumento della volatilità e dell'incertezza dei prezzi e dei tassi di cambio internazionali. Il commercio dei derivati ha offerto alle banche e alle imprese transnazionali la possibilità di coprirsi, a costi relativamente bassi, dal rischio di subire perdite in seguito a variazioni dei cambi, dei prezzi del petrolio o di altre merci o a cambiamenti imprevisti dei tassi di interesse. Su questi prodotti però, sempre più, si opera con scopi speculativi, piuttosto che di copertura.

Il grosso delle operazioni (vedi tabella) si svolge su tassi di interesse e cambi.

I prodotti finanziari derivati si dividono in due categorie principali: i contratti del tipo options ed i contratti del tipo forward.

- Le options danno agli acquirenti il diritto (non l'obbligo) di comprare o di vendere un bene (asset) reale o finanziario, ad un prezzo stabilito nell'arco di un determinato lasso temporale. Il prezzo dell'option è una percentuale del valore del bene trattato, che viene persa se non si esercita il diritto. Chi ha acquisito il diritto a comprare, aspetterà che il valore di mercato dei beni sia superiore a quello pattuito, per beneficiare della differenza. Concretamente si tratta di scommettere sulla tendenza dei corsi azionari o dei mercati in genere.

- I contratti del tipo forward comprendono i forwards, i futures e gli swaps.

I forwards impegnano sia l'acquirente che il venditore a scambiare una quantità stabilita di un determinato asset ad un prezzo e per una data futura concordati.

I futures sono accordi forward standardizzati relativi all'acquisto o alla vendita di una quantità stabilita di un asset trattato in borsa.

Gli swaps sono accordi che comportano uno scambio di flussi di pagamenti in un certo arco di tempo, secondo i termini concordati. Il tipo più comune è sui tassi di interesse.

Esempio 1: copertura sul cambio

L'esportatore italiano vende auto negli Stati Uniti con consegna differita a tre mesi. Fra tre mesi incasserà 100.000 dollari che, con un cambio pari a 1.700 lire per un dollaro, sono pari a 170 milioni di lire. Se fra tre mesi la lira si sarà apprezzata, passando a 1.600 lire per un dollaro, l'esportatore, incassando 100.000 dollari, otterrà al cambio 160 milioni di lire. Si ritroverà, rispetto alla cifra preventivata e ai costi sostenuti, una perdita di 10 milioni, indipendente dalla sua attività commerciale.

Operazione di copertura: stipula di un contratto future sulle valute. L'esportatore vende 100.000 dollari a tre mesi, al "prezzo" attuale di 1.700 lire per un dollaro. Fra tre mesi, quando incasserà i 100.000 dollari della vendita delle auto, eseguirà il contratto future, cioè li venderà ottenendo le lire preventivate: 170 milioni.

Con la nascita dell'euro, questi rischi di cambio non ci sono più tra i paesi europei della moneta unica. Il cambio lira/dollaro viene calcolato a partire dal cambio euro/dollaro (che varia sul mercato) e dal cambio fissato lira/euro: 1.936,27 lire per 1 euro.

Esempio 2: copertura sul prezzo

L'esportatore di caffè vende una partita a sei mesi. Il prezzo del caffè è oggi di 100 dollari per 100 libbre (poco meno di mezzo quintale), ma lui verrà pagato al prezzo corrente fra sei mesi. Se esso sarà di 90 dollari per 100 libbre, l'esportatore venderà ad un prezzo inferiore a quello sulla base del quale aveva prodotto, e dunque avrà una perdita, che non è direttamente derivata dall'attività produttiva o commerciale.

Operazione di copertura: stipula di due contratti future sul caffè. L'esportatore acquista una partita uguale di caffè a sei mesi, che pagherà al prezzo che ci sarà fra sei mesi, e vende una partita uguale di caffè a sei mesi, al prezzo attuale (100 dollari per 100 libbre). Fra sei mesi incasserà i proventi della vendita, al prezzo di 90 dollari, ed eseguirà i contratti future, acquistando una uguale partita a 90 dollari e vendendola a 100 dollari. Il saldo finale è che avrà venduto il suo caffè a 100 dollari, come previsto.

L'importatore farà le operazioni opposte. Con queste operazioni non si hanno perdite impreviste, ma non si hanno neanche guadagni inattesi in caso di eventuale aumento del prezzo. Viceversa le operazioni sui futures di tipo speculativo, che oggi sono la stragrande maggioranza, puntano proprio ai "guadagni inattesi".

Fare un'operazione di copertura, tuttavia, non è alla portata di tutti. Il problema è che, anche se un contratto future prevede il pagamento alla scadenza, prevede anche un "deposito di garanzia" iniziale. E prevede che vi siano correzioni a questo deposito in più o in meno sulla base dell'andamento del mercato (valute o caffè) durante i tre o i sei mesi. In sostanza, per fare queste operazioni occorrono risorse finanziarie che i produttori diretti di materie prime in genere non hanno.

 

  3.5 La fine della Banca

"Le banche così come le conoscevamo, dai tempi dei Medici e dei Fugger alle varie First National, hanno fatto il loro tempo. I banchieri continuano a esistere, ma non sono più quelli di una volta. L'intermediazione - la gestione dei depositi e la concessione dei prestiti - che rappresentava la loro funzione tradizionale, ha perso la sua centralità. Le banche commerciali sono diventate banche di investimento e sono sempre più inclini a entrare in prima persona nel gioco - ossia a investire nel casinò i loro stessi capitali. Tale tendenza si può spiegare con l'internazionalizzazione della finanza e con il conseguente collasso dei "negozi chiusi" - quella serie di eleganti e comodi cartelli per pochi intimi, tollerati se non addirittura creati direttamente dai governi, che rappresentavano il prezzo dell'accesso al creditore nazionale di ultima istanza. L'aumento della concorrenza ha permesso l'ingresso nel settore anche di non-banche come le assicurazioni, ma allo stesso tempo ha ridotto drasticamente i margini di profitto delle banche tradizionali".

(Susan Strange, Denaro impazzito, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 16)

 

 

 

  3.6 E in Italia?

Il mercato finanziario di casa nostra è stato per molto tempo marginale rispetto al panorama internazionale, che lo considerava poco appetibile e anche eccessivamente rischioso per le sue dimensioni limitate. La ragione di questa situazione era legata anche alle abitudini finanziarie dei cittadini italiani che, tradizionalmente, hanno preferito gli investimenti "a basso rischio" e con una remunerazione adeguata al livello dell'inflazione, come depositi bancari e soprattutto titoli di stato.

Le tappe che hanno determinato il notevole cambiamento che si registra oggi nel nostro paese sotto questo profilo sono principalmente due:

- la nascita anche in Italia, nei primi anni ottanta, dei fondi comuni di investimento, grazie alla legge istitutiva del 1983 che è intervenuta soprattutto a sanare alcune situazioni verificatesi in precedenza, quando questi strumenti esistevano ma erano annoverati nella categoria dei "titoli atipici", cioè senza alcuna regolamentazione. La legge ha contribuito allo sviluppo dei fondi, che hanno interessato in un primo momento soprattutto quella categoria di risparmiatori propensi a rischiare pur di guadagnare molto. Negli anni '80, in cui tra i risparmiatori prevaleva il "popolo dei Bot", gli investitori nei fondi ebbero molte soddisfazioni, con rendimenti di gran lunga superiori ai titoli di stato;

- il secondo e decisivo cambiamento è legato alle manovre di risanamento della finanza pubblica italiana, a partire da quelle del governo Amato del 1992. Quella manovra, così come le successive fino al governo Prodi, aveva come obiettivo la riduzione dell'indebitamento pubblico allo scopo di poter rientrare nei parametri di Maastricht, decisi nel 1991, e quindi nell'Unione Monetaria Europea e nell'euro. Per ridurre l'indebitamento i governi cercarono di ridurre le spese correnti, con particolare riferimento a quelle socio-assistenziali da un lato e agli interessi passivi sui titoli del debito pubblico dall'altro. Ne è conseguito, negli anni, un calo sostanzioso del rendimento dei titoli di stato, che hanno indotto anche i risparmiatori più tradizionalisti e meno propensi al rischio ad indirizzare i propri risparmi verso attività finanziarie maggiormente redditizie.

Le alternative erano sostanzialmente due: il canale bancario con i suoi vari strumenti e la Borsa con i maggiori rischi che comportava e comporta tuttora. Contemporaneamente, però, il settore bancario italiano veniva interessato da una profonda rivoluzione indotta dalla liberalizzazione dovuta alle direttive europee, che ha portato, da un lato, ad un processo di privatizzazione e, dall'altro, ad un notevole incremento di concorrenza tra le banche, italiane o estere, presenti nel nostro paese. In particolare l'accresciuta concorrenza ha determinato, negli ultimi anni, un sostanziale mutamento nell'attività delle banche che hanno ridotto il tradizionale lavoro di intermediazione creditizia, motivo per cui storicamente erano sorte, privilegiando le attività di servizio, operativo e soprattutto finanziario, alla clientela. In sostanza le banche hanno concentrato le proprie attenzioni su quel segmento della propria attività che si avvicinava di più alle esigenze dei clienti ma che soprattutto garantiva maggiori margini di guadagno e minori rischi.

In tal modo è venuta parzialmente meno una delle possibili alternative ai titoli di stato, in quanto gli strumenti di risparmio bancario (depositi, conti correnti, certificati di deposito) divennero progressivamente poco redditizi. Ne è conseguita, agli occhi del risparmiatore, la necessità di convogliare il proprio denaro verso l'unico strumento appetibile, vale a dire la Borsa. La stessa cosa, in realtà, hanno fatto le banche: poiché prestare alle imprese risultava essere sempre più rischioso e sempre meno redditizio, la maggior parte del denaro raccolto e gestito veniva convogliata verso le attività speculative di borsa che, da un lato, garantivano prospettive di redditività elevata e, dall'altro, mantenevano un livello di liquidabilità superiore rispetto al finanziamento di attività economiche produttive.

Certo, al risparmiatore comune la borsa appariva ad un tempo allettante e sconosciuta, per cui la maggior parte dei cittadini ha deciso di non agire direttamente, ma di avvalersi di intermediari abilitati e competenti come le banche ed i fondi comuni di investimento. Il cosiddetto risparmio gestito (gestioni patrimoniali delle banche e fondi comuni) ha così avuto in questi ultimi anni uno sviluppo enorme in termini di numero di aderenti e di capitali investiti. Il progressivo avvicinamento degli italiani al mondo della Borsa è stato incentivato anche dalla decisione del governo di procedere alle privatizzazioni e quindi alla vendita di molte aziende di proprietà pubblica - Telecom, Enel, Eni, Autostrade e molte banche, solo per citare le vendite più importanti. La sottoscrizione delle azioni delle aziende pubbliche ha ottenuto un enorme successo tra i risparmiatori, indipendentemente dalla classe socio-economica di appartenenza. Un ulteriore passo in questa direzione è legato allo sviluppo della previdenza integrativa e complementare, i fondi pensione insomma, che porteranno nuovi ingenti risparmi verso i mercati finanziari.

Questo processo, che ci ha portato ad avere un mercato finanziario in linea con gli altri paesi occidentali, è però portatore anche di problemi per la società italiana. In particolare ve ne sono due che occorre sottolineare:


 

  4. Euforia e panico: le crisi finanziarie

Nell'ultimo quarto di secolo, dal 1975 ad oggi - nell'epoca dei cambi fluttuanti e del big bang dei mercati finanziari - si sono susseguite 158 crisi dovute a pressioni sul cambio e 54 crisi bancarie. Il calcolo è del Fondo Monetario Internazionale, che precisa che dopo il 1987 sono risultate più frequenti le crisi bancarie, in relazione "alla liberalizzazione finanziaria che ha preso piede proprio in quegli anni". E solo il 40% delle crisi scoppiate sul mercato dei cambi e il 20% delle crisi bancarie non hanno comportato significative perdite di produzione reale.

La domanda non è più "Potrebbe ripetersi?", bensì "A chi toccherà la prossima volta?".

(International Monetary Fund, World Economic Outlook, Washington 1998; Hyman P. Minsky, Potrebbe ripetersi?, Einaudi, Torino 1984; Antonio Pollio Salimbeni, Il grande mercato, Bruno Mondadori, Milano 1999)

"Ottobre. Questo è un mese particolarmente pericoloso per speculare in Borsa. Gli altri sono luglio, gennaio, settembre, aprile, novembre, maggio, marzo, giugno, dicembre, agosto e febbraio"

(Mark Twain)

"Sa perché amo Chicago? Perché a Chicago uno speculatore è un professionista rispettato. I mercati sono fatti per persone che vengono a rischiare, e se hanno visto giusto guadagnano. La speculazione è un'ottima cosa, perché determina il valore"

(Jon Peabody, banchiere statunitense)

  1987: il crollo pilotato

Quando i traders in cambi di tutto il mondo trattengono il fiato in attesa di un intervento da parte delle banche centrali, il 15 ottobre 1987 il ministro del Tesoro Usa James Baker rilascia la prima delle sue sconcertanti dichiarazioni: "L'accordo del Louvre, sottoscritto dai rappresentanti delle principali economie internazionali, potrebbe implicare ulteriori aggiustamenti del dollaro". Baker subito dopo questo messaggio inquietante si rifiuta di aggiungere qualsiasi chiarimento, ma lascia capire di voler sottolineare come il valore del dollaro potrebbe scendere sotto i livelli minimi di quel giorno senza che gli Stati Uniti si sentano responsabili di avere violato gli accordi raggiunti durante la riunione del Gruppo dei Sette, accordo attraverso il quale le banche centrali erano riuscite ad arrestare un calo della moneta Usa durato circa due anni. Nella stessa occasione Baker accusa direttamente il governo tedesco per la decisione di applicare una tassa sui redditi di interesse. "In questo paese non ce ne staremo seduti tranquilli a guardare i paesi in surplus che spediscono in alto i loro tassi di interesse e schiacciano la crescita dell'economia nel mondo intero, nell'attesa che gli Stati Uniti in qualche modo li seguano"...

Di fronte a queste pressioni, le Borse degli Stati Uniti cedevano contemporaneamente. Alla fine della giornata di lunedì 19 ottobre i resoconti delle contrattazioni avevano il taglio e il sapore dei bollettini di guerra. L'indice Dow Jones aveva perso 508 punti, cioè il 22,62%. Il calo ridicolizzava in termini percentuali quello del 28 ottobre 1929, pari al 12,82%, che aveva dato il via al terribile periodo della Grande Depressione. Il resto del mondo condivide le stesse sensazioni di panico e di incertezza. A Londra l'indice "Financial Times" delle cento maggiori azioni ha segnato la perdita record di 249,6 punti (meno 10%). Cadute record sono state registrate anche ad Amsterdam, 13%; Bruxelles, 10%; Francoforte, 7%. A Parigi l'indice ha perso il 4,65%...A Milano il listino di Piazza Affari ha chiuso con una perdita del 6,1%. Quella notte la Borsa di Tokyo perse il 14,90%...

Jacques Delors è un uomo di temperamento. La sera del 29 ottobre 1987 il temperamento ha prevalso. A dieci giorni di distanza dal caos delle Borse internazionali, provocato dalle dichiarazioni di James Baker, Delors, presidente francese della Commissione Cee, di fronte ai deputati del Parlamento europeo di Strasburgo si dice convinto che le autorità americane avrebbero lasciato cadere il dollaro al livello di 1,60 marchi. "Per quanto riguarda le monete - dichiara testualmente Delors - gli accordi del Louvre soffriranno molto nei prossimi giorni. Perché? Perché gli Stati Uniti, a meno di non ottenere impegni per un'aumentata crescita in Europa, faranno pressioni per un calo del dollaro. L'accordo del Louvre prevede che il dollaro non possa scendere sotto il livello di 1,80 marchi. Oggi è sul filo di 1,75. Non fatevi illusioni, gli Stati Uniti sono pronti a farlo scendere fino a 1,60 marchi". Subito dopo questa dichiarazione, il dollaro scende sui mercati americani a quota 1,73 marchi.

Le reazioni dei rappresentanti politici internazionali sono immediate. Delors viene additato come un incosciente che si parla addosso. Tra le reazioni più violente c'è quella del ministero delle Finanze di Parigi (retto da Edouard Balladur), che rilascia addirittura un comunicato ufficiale nel quale dice che "la dichiarazione del signor Delors non riflette in nulla la posizione delle autorità monetarie francesi, né quella degli altri partecipanti agli accordi del Louvre". Il Governatore della Banca del Giappone, i cui interventi vengono centellinati con tale attenzione da rappresentare di per sé dei fatti eccezionali, denuncia con tono secco "l'infondatezza delle voci attribuite al signor Delors". Ancora più decise le reazioni del portavoce del governo tedesco occidentale: le dichiarazioni del presidente Delors "hanno dato un'immagine completamente falsa della cooperazione tra ministri delle Finanze e Governatori delle Banche centrali dei grandi paesi industrializzati. Il governo della Repubblica federale tedesca auspica che le personalità che non partecipano a queste discussioni si astengano da prese di posizione pubbliche improvvisate e fuorvianti". Dall'Amministrazione Usa, invece, neanche una parola.

L'episodio mette a rumore il mondo politico internazionale, ma viene liquidato come un'imperdonabile gaffe di un esponente politico di livello mondiale, stimato sia dai compagni di barricata che dagli avversari politici, ma evidentemente linguacciuto. Tutto lì? Può essere stato così avventato Jaques Delors da aver rilasciato, senza esserne profondamente convinto, una dichiarazione davanti al Parlamento europeo in cui accusava a cuor leggero il segretario del Tesoro degli Stati Uniti di aver volontariamente programmato la discesa del dollaro a quota 1,60 marchi? Delors stava sostenendo una tesi che egli condivide ormai da molti anni con ardore: stava cioè ribadendo la necessità di un Sistema Monetario Europeo economicamente e politicamente più forte di quello attuale. Delors batteva con forza sulla necessità di un sistema con politiche economiche nazionali maggiormente integrate e uno Sme in cui l'ecu possa essere pienamente utilizzato come moneta legale.

(da Carlo Bastasin e Osvaldo De Paolini, Crack in Borsa, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano 1987)

 

  1992: scacco all'ecu, l'antenato dell'euro

Finché il Sistema Monetario Europeo (Sme) avesse tenuto le valute europee strettamente legate alla moneta tedesca, gli investitori avrebbero goduto di alti tassi di interesse sui loro capitali. Di solito le remunerazioni elevate comportavano forti rischi di svalutazione, ma dal momento che i governi europei avevano promesso di fare il necessario per prevenire tale eventualità pareva che gli investitori potessero realizzare una remunerazione senza rischi. Una specie di pranzo gratis.

"Vedersi offrire da mangiare senza pagare è molto allettante", dice David Williams, presidente del gruppo di fondi di investimento Alliance di New York. Gli operatori più vigili avevano scoperto questa opportunità di "operazioni di convergenza" fin dal 1980, un anno dopo l'istituzione dello SME. Furono chiamate "operazioni di convergenza" perché erano legate all'impegno dei governi europei di far "convergere" le loro monete in un solo gruppo, per giungere infine alla moneta unica europea. Nel 1989 Williams approvò una proposta per far sì che un'opportunità analoga fosse messa a disposizione di numerosi investitori americani attraverso un fondo comune di investimento. Nel primo anno esso attrasse 350 milioni di dollari, per lo più da piccoli investitori. Il successo conseguito da Alliance con questa iniziativa indusse Merrill Lynch, Kemper e altri istituti finanziari di Wall Street a lanciare dei fondi che erano delle semplici imitazioni di questo.

Nel 1989 cadde il Muro di Berlino. La Germania Occidentale e Orientale si sarebbero riunificate. Di fronte alla prospettiva di assorbire una popolazione impoverita, inefficiente e largamente inutilizzabile, il governo di Bonn scelse di spendere una fortuna in servizi sociali. Creando il denaro necessario a coprire queste spese, la Bundesbank avrebbe provocato certamente l'inflazione. Ma in Germania i ricordi dell'inflazione del periodo di Weimar sono ancora vivi: in nessun altro paese vi è una sensibilità popolare così forte su tale tema. Ciò che più conta, il solo vero ruolo della Bundesbank è di garantire la solidità del marco. Così invece di stampare nuovi soldi, la banca centrale tedesca alzò i tassi di interesse per attrarre capitali dall'estero. La riunificazione della Germania sarebbe stata, di fatto, il più grande "leveraged buyout" della storia.

I paesi che avevano legato le loro monete al marco tedesco nei termini previsti dal meccanismo dei tassi di cambio avevano due possibilità, e nessuna particolarmente allettante. Da una parte potevano mantenere le loro valute allineate con il marco. Ciò avrebbe significato prevedere tassi di interesse pari o maggiori di quelli tedeschi. Portarli allo stesso livello dei tassi d'interesse della Germania non sarebbe stato logico. Nessuno di questi paesi era impegnato ad assorbire un ex stato socialista. La lievitazione dei tassi di interesse allo stesso piano di quelli tedeschi, o addirittura a un livello ancora più alto, avrebbe potuto sconvolgere le loro economie.

La seconda possibilità consisteva nello svalutare le loro monete. ma sarebbe stato imbarazzante. Dal momento che la svalutazione di una moneta corrisponde a una perdita in termini di potere d'acquisto, svalutare significa confessare che il paese è diventato economicamente più debole e nessun politico vuole essere incolpato di avere attentato alla ricchezza e alla potenza di una nazione. Secondo le scadenze previste per l'Unione Monetaria, i paesi dello Sme avrebbero dovuto assicurare uno stretto collegamento fra le rispettive monete, e soprattutto con il marco tedesco. Le popolazioni di paesi come la Francia si stavano già abituando all'idea che certe difficoltà di natura economica fossero necessarie per realizzare l'unione monetaria. Ma sembrava politicamente sbagliato, proprio nel momento in cui la gente stava cominciando a rassegnarsi a questi sacrifici, dire che la svalutazione era diventata improvvisamente accettabile e persino necessaria.

La Germania fece una proposta ufficiosa che avrebbe potuto eliminare il problema, che venne però respinta dai partner europei per ragioni politiche e di orgoglio nazionale. I tedeschi si erano dichiarati disposti a rivalutare il marco: invece di obbligare Francia e Belgio, Olanda e Gran Bretagna ad ammettere l'indebolimento delle loro monete, questi paesi acconsentivano ad annunciare che era stato il marco a rafforzarsi. Per le altre valute europee non vi sarebbe stata alcuna perdita di prestigio, quantunque dal punto di vista economico rivalutare il marco o svalutare il franco sia perfettamente lo stesso. La struttura dello Sme avrebbe potuto essere conservata e i paesi europei non avrebbero dovuto soffocare le loro economie con alti tassi di interesse. Si sarebbe potuta spiegare la rivalutazione come una conseguenza delle circostanze storiche particolari della Germania, legate soprattutto alla sua esigenza di finanziare la ricostruzione dell'Est.

A mano a mano che la Germania aumentava i tassi di interesse, il marco si rafforzava. Per conservare stretti rapporti con la moneta tedesca, gli altri paesi alzarono i loro tassi a livelli persino maggiori. L'aumento progressivo dei tassi di interesse faceva sembrare sempre più allettanti agli investitori internazionali le prospettive delle operazioni di convergenza. Paradossalmente però gli stessi tassi di interesse elevati che rendevano appetibili le operazioni di convergenza erano il segno che il meccanismo europeo dei cambi stava diventando sempre più fragile. Molti paesi europei avevano bisogno di tassi più bassi per promuovere la crescita economica.

Il 2 giugno 1992 i danesi respinsero in un referendum il progetto di unificazione europea noto come "Trattato di Maastricht". Il giorno dopo il presidente francese annunciò che la Francia avrebbe tenuto un referendum in settembre. Di fronte a questo futuro incerto i mercati cominciarono a tentennare. Le società cominciarono a prendere precauzioni nell'eventualità di un crollo dello Sme. Kodak e Intel, due grandi corporation americane con significativi interessi in Europa, smisero di trattare le monete europee come se fossero stata una valuta unica. Alcune società europee come la Ciba Geigy fecero lo stesso. All'improvviso le maggiori società del mondo presero a vendere le monete europee più deboli.

Ma se gli investitori vendevano, chi comprava? In ultima analisi le banche centrali, che dovevano sostenere la loro valuta. Gli investitori avevano 300 miliardi di dollari in valute deboli. Ora stavano cercando di riprenderseli. Ma le banche centrali non avevano nei loro depositi quella somma in valute forti. Più la gente voleva vendere le monete a rischio, più il prezzo di mercato tendeva a calare. Questa diminuzione progressiva aumentava le preoccupazioni degli investitori. E quanto più aumentavano queste preoccupazioni, tanto più vendevano.

Avevano perso la fiducia nella capacità delle autorità monetarie di assicurare la solidità dello Sme. Quasi tutti gli investitori pensavano la stessa cosa: per prudenza, per sicurezza, era saggio vendere parte di quelle monete dubbie - lire e sterline - finché si era ancora in tempo per farlo. A questo punto subentrarono gli speculatori, e quella che era cominciata come una ritirata ordinata finì per diventare una disfatta senza controllo.

(da Gregory J. Millman, Finanza barbara, Garzanti, Milano 1996)

 

 

  1995: bufera sul Messico

Nel 1988, anno dell'insediamento alla presidenza messicana di Carlos Salinas de Gortari, i conti con l'estero del Messico presentavano una bilancia commerciale in attivo, soprattutto grazie alle esportazioni di petrolio, ma una bilancia dei pagamenti complessiva (saldo complessivo di merci, servizi e capitali) in deficit, soprattutto a causa dello squilibrio nei movimenti di capitale, provocato dall'elevato indebitamento estero e dalle difficoltà nel pagamento degli interessi e delle rate del debito, difficoltà esplose fin dal 1982.

A partire dal 1989 la situazione dei conti messicani con l'estero cambia drasticamente. Il saldo commerciale diventa rapidamente negativo e, con il persistente saldo negativo degli scambi di servizi e delle "partite invisibili", che comprendono i pagamenti degli interessi sul debito, contribuisce ad un netto deficit della parte corrente della bilancia dei pagamenti. Ma la bilancia complessiva diventa attiva grazie ad un consistente afflusso di capitali che rovescia il segno negativo degli anni precedenti. Nel 1993 il Messico ha un avanzo di bilancia dei pagamenti di oltre 7 miliardi di dollari, derivante dalla differenza tra un saldo positivo dei movimenti di capitale di 30 miliardi e mezzo di dollari e un saldo negativo di parte corrente di 23 miliardi 400 milioni di dollari.

Questo risultato è il frutto della politica della presidenza Salinas, che vira in senso liberista seguendo le ricette dell'"aggiustamento strutturale" promosse dal Fondo Monetario Internazionale. Stretta creditizia, taglio della spesa pubblica, privatizzazioni, abbattimento delle barriere doganali sono le componenti standard di queste ricette. L'obiettivo è liberare il sistema economico da una presenza eccessiva dello stato e migliorare la capacità di competere sui mercati internazionali. L'effetto invece è ormai altrettanto tipico in paesi poveri: l'inflazione diminuisce rapidamente, al prezzo però di una caduta del reddito e anche dei profitti interni. Il settore produttivo si indebolisce, e con esso la capacità di esportare, in contraddizione proprio con uno degli obiettivi dell'"aggiustamento strutturale", mentre la liberalizzazione doganale apre le porte ai prodotti esteri.

Il deficit di bilancia commerciale che ne consegue può però essere più che compensato da un afflusso di capitali dall'estero attirati dagli alti tassi di interesse che caratterizzano la stretta creditizia, e dunque dagli alti rendimenti delle attività finanziarie del paese. Perché questo effetto funzioni bisogna tuttavia che la moneta non si svaluti, o non si svaluti troppo, altrimenti si perde la convenienza degli elevati rendimenti finanziari.

Proprio questo è riuscito per un po' al governo messicano, che ha legato il peso, la moneta del paese, al dollaro. Il coronamento logico di questa politica è stata l'adesione del Messico al Nafta, North American Free Trade Agreement, il nuovo mercato comune con Stati Uniti e Canada, nonché, fatto meno noto, all'Apec, l'organismo di cooperazione economica dell'area del Pacifico. La vera dote che il Messico ha portato al Nafta non è stato però il suo comportamento da "allievo modello" del Fondo Monetario Internazionale. È stata piuttosto la sua manodopera a buon mercato - il costo del lavoro è circa un settimo di quello statunitense - soprattutto quella "esportata" negli Stati Uniti. Mentre in casa, secondo uno studio pubblicato alla fine del 1993 dalla Facoltà di economia dell'Università autonoma di Città del Messico, il numero delle persone in condizione di estrema povertà passava in sei anni da 13 milioni a più di 25 milioni, su 92 milioni di abitanti.

Dunque il Messico esporta manodopera e importa capitali, soprattutto statunitensi, che però sono prevalentemente capitali speculativi, investimenti a breve termine. Il 1° gennaio 1994 i media internazionali annunciavano che un "Esercito zapatista di liberazione nazionale", forte di alcune migliaia di guerriglieri indios, aveva occupato San Cristobal de las Casas e altre cittadine dello stato del Chiapas. Il 23 marzo 1994 viene assassinato Luis Donaldo Colosio, candidato alla presidenza del partito di regime. Crisi sociale e scontro tra i potentati fanno saltare il precario equilibrio tardo-monetarista, mentre si inverte la direzione dei movimenti di capitale. Il 1994 si chiude con il consueto, e accresciuto, deficit di parte corrente della bilancia con l'estero, ma con un afflusso di capitali insufficiente a compensarlo, e dunque con un disavanzo complessivo della bilancia dei pagamenti per quasi 18 miliardi di dollari.

A fine anno la situazione precipita e il nuovo presidente Ernesto Zedillo decide di lasciar fluttuare liberamente il cambio del peso. La moneta si svaluta di oltre il 40% in termini reali, i capitali esteri sono in fuga. Il crollo viene tamponato da un eccezionale intervento statunitense e delle istituzioni finanziarie internazionali: quasi 50 miliardi di dollari di sostegno al cambio e alla bilancia dei pagamenti, garantiti dalle entrate delle esportazioni messicane di petrolio. Non si tratta però di predilezione per l'"allievo modello", ma più prosaicamente delle preoccupazioni di Washington, dove si temono, a causa dell'esposizione finanziaria statunitense in Messico e della prevedibile crisi del Nafta, effetti a catena sul dollaro, già indebolito nella guerra valutaria con marco e yen.

(da Francesco Terreri, "I sommersi e i salvati nella tempesta valutaria", Altrafinanza n. 3, aprile 1995)

 

 

  1997: fuga da Hong Kong

Dall'inizio dell'estate 1997 una tempesta valutaria e borsistica scuote le "tigri dell'Asia", le economie dell'Estremo Oriente che sembravano i soggetti emergenti dell'economia mondiale. La crisi è partita dalla Thailandia e si è propagata rapidamente nell'area, fino a sconvolgere, attraverso l'ormai noto "effetto domino" dei mercati finanziari globalizzati, le borse statunitensi ed europee. Come si è arrivati a ciò?

Nel 1996 il commercio mondiale è complessivamente cresciuto del 4,6%, segnando una brusca frenata rispetto alla crescita a due cifre degli anni precedenti. Ma la dinamica delle esportazioni è stata differenziata tra aree e paesi. Nel mondo industrializzato chi ha retto maggiormente è stato il Nord America, gli Stati Uniti in primo luogo, il cui export è cresciuto del 5,7% sull'anno precedente. Meno bene gli europei, con un +4%, e fiacco il Giappone, con un aumento di appena lo 0,8% sul 1995. Ma è tra le aree in via di sviluppo che troviamo il ribaltone. L'Asia meridionale e orientale, nel '94 e nel '95 leader indiscussa della crescita delle esportazioni nel mondo, nel 1996 si ritrova in coda, pur con un incremento del 5,8%, a fronte di un +9,3% dell'America Latina, di un +8,1% dell'Africa e di un +7,3% dell'Asia occidentale (Medio Oriente).

I dati dei singoli paesi dell'Estremo Oriente confermano la frenata. L'export della Corea del Sud è cresciuto nel '96 del 4,1%, contro il +31,5% del '95; quello della Cina dell'1,5% (+24,9% nel '95 e ancor più nel '94); le esportazioni della Malaysia segnano un +4%, come quelle di Hong Kong, ora "territorio speciale" cinese. L'export di Singapore cresce del 6,7%, quello dell'Indonesia dell' 8,8%, mentre quello della Thailandia è praticamente fermo (+0,1%), a fronte di tassi di crescita a due cifre fino all'anno precedente. Le esportazioni di questi paesi erano ormai da tempo prevalentemente industriali, e la crescita degli anni passati era fondata sul basso costo dei due principali fattori di produzione dell'industria: il capitale e il lavoro. La forza lavoro dell'Asia orientale costa poco e lavora molto, tanto che l'area è la principale destinataria dei flussi di investimenti diretti delle grandi imprese multinazionali occidentali e giapponesi. Di conseguenza il capitale era relativamente abbondante e a buon mercato, in un contesto in cui, oltretutto, le valute erano agganciate al dollaro, e quindi non si rischiava neanche sul cambio.

Ma la concorrenza sui bassi salari gioca brutti scherzi. La Corea già non è più da tempo il paradiso degli investitori industriali. I lavoratori sono più organizzati e, nonostante i tentativi del governo (l'ultimo nel dicembre '96) di limitarne i diritti sindacali, riescono a strappare condizioni migliori. Ma anche in Thailandia e in Malaysia le cose non sono più quelle di una volta. I salari industriali in Malaysia viaggiavano nel 1980 su livelli pari al 7-10% della retribuzione media di un operaio statunitense. Nel 1993 erano arrivati al 17-19%. Così gli investitori hanno cominciato a scegliere piuttosto la Cina o il Vietnam, dove il regime di controllo repressivo sul lavoro, a dispetto della qualifica di repubbliche "popolari", è ancora saldo, e quindi il costo del lavoro ancora molto compresso. E le esportazioni industriali delle "tigri" hanno subito una frenata.

Corea, Malaysia o Thailandia potrebbero tuttavia puntare ad un salto di qualità nelle produzioni, e quindi nell'export: industrie che possono pagare salari più alti perché si spostano su produzioni a maggiore valore aggiunto. Ma - e questo è un punto cruciale - non sono loro i maggiori detentori del capitale necessario per operare questa conversione. I detentori dei capitali nei mercati globali, i "creditori" in senso lato, come li chiama il professor Jean-Paul Fitoussi, l'economista più ascoltato dal governo Jospin in Francia, preferiscono cercare buoni rendimenti attraverso soluzioni meno "faticose". Intanto continuare a far produrre scarpe in laboratori con lavoro semi-forzato, spostandosi in altri paesi. Ma soprattutto tornando ai rendimenti dell'"economia di carta".

I buchi aperti nei progetti di investimento dalle minori esportazioni dei paesi asiatici vengono coperti dalle imprese indebitandosi, dato che è facile procurarsi il denaro. In generale, una valanga di dollari si rovescia sulle borse dei "mercati emergenti", investendo in titoli a breve termine i più svariati. Uno dei settori più beneficiati è quello immobiliare, sostenuto anche dai lavori pubblici per opere di prestigio del tipo "l'edificio più alto del mondo" in Malaysia. Il debito estero, soprattutto a breve termine, di questi paesi cresce. Si parla di 80-90 miliardi di dollari per la sola Indonesia, quasi tutti con scadenza pochi mesi. Insomma si è formata quella che viene definita una "bolla speculativa". Ad un certo punto i soliti "insider", quelli che vendono in tempo prima che la bolla si sgonfi, si sono tirati fuori. A quel punto è cominciata la fuga di capitali che ha costretto la Thailandia a svalutare, e via via ha allargato la crisi finanziaria a tutta l'area.

Ma nella catena delle cause della crisi vanno innestati altri dati, che forse aiutano a capire la partita economico-politica che si gioca attorno alle oscillazioni degli indici di borsa. In primo luogo la composizione per valute del mercato internazionale dei capitali. Tra il 1990 e il 1996 le operazioni sui mercati finanziari mondiali denominate in dollari sono cresciute, passando dal 44,6% al 54,7% del totale e riportando la valuta statunitense a coprire più della metà del mercato complessivo. Il dollaro aveva conquistato un primato ben più consistente negli anni '80, nell'era di Reagan e degli alti tassi di interesse. Poi però lo stava perdendo, mentre cresceva il peso dello yen, della sterlina, che è una valuta più importante del solo mercato britannico (basti pensare che la banca più grande del mondo per capitale proprio, la Hsbc Holding, ha sede a Londra ma è una banca "dell'ex impero britannico"), del marco e dell'ecu, l'embrione di moneta europea. L'ecu è stato ridimensionato con la crisi del 1992. Yen e sterlina hanno diminuito la loro quota, tra il 1990 e il 1996, passando rispettivamente dal 9% al 7,4% e dall'11,9% all'8,3% del mercato totale. Il sistema economico giapponese dà segni di debolezza, con grandi banche e grandi imprese in crisi. La debolezza della valuta e i bassi tassi di interesse spingono i capitali finanziari giapponesi a investire dove guadagnano di più, cioè negli Stati Uniti.

Viceversa la Cina diventa un partner importante degli stessi Stati Uniti. Nella crisi in corso, i cosiddetti "red chips", i titoli delle imprese cinesi quotate alla borsa di Hong Kong, non sono crollati come il resto del mercato. Non c'era bisogno dell'incontro tra Clinton e Jiang Zemin per capire che gli Usa si stanno muovendo in Asia badando soprattutto ad una cosa: che i paesi dell'area non si coalizzino, economicamente e politicamente, tra di loro. A Washington aleggia lo spettro, evocato qualche anno fa dal decano dei politologi statunitensi Samuel P. Huntington, dello "scontro tra civiltà", dell'alleanza "confuciana", o "confuciano-islamica", pronta a portare una nuova minaccia globale agli Stati Uniti. Così si lavora per tenere opportunamente divisi i possibili alleati: si appoggia ora la Cina, ora il Giappone; si sostengono i fondamentalisti taliban in Afghanistan contro il fondamentalista Iran. E si pensa a nuove frontiere di investimento. Un dato, citato dal quindicinale sui fatti africani "La Lettre du Continent", può essere illuminante: il tasso di profitto medio sugli investimenti statunitensi in Africa è pari al 33%, contro l'11% in Europa, il 12% in America Latina e il 14% in Asia. A quali condizioni per i contadini africani? Che importa, dicono i "creditori", intanto sfruttiamo l'occasione.

Mercato internazionale dei capitali

Composizione percentuale per valuta

1985

1990

1996

Dollaro Usa

68,8%

44,6%

54,7%

Yen giapponese

7,1%

9,0%

7,4%

Marco tedesco

4,7%

7,2%

10,8%

Sterlina britannica

3,5%

11,9%

8,3%

Franco francese

0,6%

3,0%

5,9%

Ecu

3,7%

7,8%

0,5%

Altre

11,6%

16,5%

12,4%

Totale

100,0%

100,0%

100,0%

(fonte: OCSE)

 

  Il segreto degli hedge fund

Intervista ad Andrea Conti, dell'Ufficio Studi della Deutsche Bank, sulla speculazione e la recessione in Russia e in Brasile nel 1998

"Ormai il 40% dell'economia mondiale è in recessione, e la parte restante non può certo pensare di crescere a livelli sostenuti". L'allarme sull'"effetto domino" della crisi finanziaria viene da Andrea Conti, dell'Ufficio studi di Deutsche Bank spa, la banca italiana, con sede a Milano, del colosso creditizio tedesco. Il gruppo bancario Deutsche Bank è tra i primi dieci nel mondo e il secondo in Europa per patrimonio, dopo il francese Crédit Agricole, nell'annuale classifica pubblicata a luglio da The Banker, il mensile del Financial Times.

"La crisi è partita in Asia e si è estesa in Russia" dice Conti "ma il trend al ribasso dei prezzi delle materie prime era ancora precedente. La crisi si stava preparando. Sono anni che in Giappone sono in atto spinte deflazioniste" cioè al ribasso dei prezzi. "La Russia già non era in una buona situazione economico-finanziaria. Nel momento in cui il prezzo del petrolio è sceso sotto il break-even point (il punto in cui i costi dell'estrazione pareggiano i ricavi di vendita) la Russia si è trovata a vendere in perdita. Il punto di pareggio per la Russia era a 14 dollari al barile: sopra questo livello era conveniente produrre ed esportare, sotto no. Questo è stato il fattore scatenante del crollo valutario ed economico". Come si riflette questa situazione sui mercati finanziari? "Se guardiamo la Borsa italiana, abbiamo un massimo nelle quotazioni ad aprile. Le altre Borse occidentali invece hanno raggiunto massimi assoluti tra il 17 e il 20 luglio. Poi hanno cominciato a scendere".

Bancarotta russa

"La crisi si riflette sui paesi del centro del sistema. Anche perché, nel caso russo, non c'è stata la consueta operazione di salvataggio. La Russia ha dichiarato bancarotta, caso raro. Il Messico nel 1995 era praticamente al fallimento, ma è stato salvato, i suoi debiti sono stati ristrutturati. Non è andata così per la Russia". Ma i debiti a brevissimo termine sono stati ristrutturati. "Sì, a 3-5 anni" precisa Conti. Come dire: in pratica, per un pezzo, non verranno pagati. "La sostanziale bancarotta russa ha creato momenti di panico" prosegue l'economista. "Vi sono paesi in situazioni simili, quelli dell'America Latina ad esempio, esportatori di prodotti i cui prezzi stanno scendendo. Per certi versi abbiamo assistito ad un inizio di "corsa agli sportelli", di panico dei risparmiatori quando sembra che la banca non possa più restituire i depositi".

La tesi più diffusa però è: i mercati finanziari non colpiscono a caso, bensì chi "se lo merita". Com'è la situazione degli indicatori "fondamentali" dei paesi latino-americani? "In effetti i paesi dell'America Latina, nonostante i progressi, hanno ancora deficit dei bilanci pubblici che si aggirano sul 7-8% del prodotto interno lordo (pil); disavanzi della parte corrente della bilancia dei pagamenti (scambi con l'estero di beni e servizi) pari al 3-4% del pil; finanziamento di questi disavanzi attraverso debito a breve termine. Tuttavia occorre ricordare che anche gli Stati Uniti hanno un elevato deficit commerciale, ma non per questo i mercati li "puniscono", anche perché il dollaro è la valuta internazionale di riferimento". Qual è l'anello debole della catena in Sudamerica? "Il Brasile" afferma Conti "i cui deficit sono finanziati a brevissimo termine e sono quindi molto esposti alle oscillazioni dei tassi di interesse. Il governo ha tentato una svalutazione controllata del real (la moneta brasiliana), ma questo ha comunque comportato il rialzo dei tassi da parte della Banca Centrale, che è proprio la misura che rende più probabile quello che i mercati finanziari sostengono". È il circolo vizioso dell'indebitamento a breve. "Tuttavia al momento la speculazione non è riuscita a far crollare il Brasile. Le elezioni vinte dal presidente uscente Cardoso sono state un elemento di stabilità politica, che consente di varare un pacchetto di tagli al deficit e di ottenere aiuti dal Fondo Monetario Internazionale". Insomma ci hanno provato, ma per ora non ci sono riusciti. "Le dico una cosa: se non fosse crollata la Russia, l'America Latina non l'avrebbe guardata nessuno". È la crisi stessa che offre occasioni di scorribande agli speculatori.

Finanziatori top-secret

"Anche gli speculatori però sono stati colpiti dalla crisi" ricorda Conti. "Basti pensare al crack di alcuni hedge fund come il Ltcm, Long Term Capital Management". Gli hedge fund sono fondi comuni di investimento, di solito statunitensi, che hanno alcune particolarità rispetto agli altri fondi. "In primo luogo sono fondi chiusi" spiega l'esponente dell'Ufficio studi di Deutsche Bank "cioè non aperti alla sottoscrizione di chiunque. In genere sono formati da 99 investitori, perché 100 è la soglia sotto la quale, negli Usa, vi sono agevolazioni fiscali. In secondo luogo investono nei mercati dei prodotti derivati, futures, options, swaps, dove operano con un grosso "effetto leva"". I prodotti derivati dovrebbero servire a ridurre il rischio ("hedge" - letteralmente "siepe" - significa anche "protezione"), e invece vengono preferiti per l'"effetto leva", in quanto per acquistarli non occorre sborsare l'intero valore del contratto, ma solo un margine di garanzia, in genere piuttosto basso. "Inoltre gli hedge fund operano con fondi presi a prestito dalle banche, più che con capitali propri. Infine, e soprattutto, non hanno regole, non vi è trasparenza sugli investimenti effettuati".

Investimenti ad alto rendimento e ad alto rischio. Perché stavolta hanno perso la scommessa? "In un certo senso perché avevano puntato su un recupero dei mercati emergenti" dice Conti. "All'inizio della crisi la Russia, per difendersi, aveva alzato i tassi di interesse. Per un breve periodo i titoli di quel paese hanno pagato rendimenti folli. Basandosi sul postulato che non si sarebbe lasciata fallire la Russia, come non si era lasciato fallire il Messico, l'Indonesia o la Corea, gli hedge fund hanno acquistato titoli russi a prezzi di carta straccia, ma con rendimenti elevatissimi. Si sono finanziati dove i tassi erano più bassi, in Occidente, e hanno comprato dove i tassi erano alti. Ma, a sorpresa, la Russia ha fatto bancarotta, il salvataggio non c'è stato e i fondi si sono ritrovati con carta straccia in mano". Ci sono diversi hedge fund in situazioni simili al Lctm, che ha perso il 92% del proprio capitale. Ma quali banche hanno finanziato queste operazioni? "Non lo so, perché questa è una delle informazioni più riservate del momento. Oggi c'è quasi la paura, anche tra banche di un certo nome, a operare l'una con l'altra, non sapendo quanto ciascuna può essere esposta verso istituzioni finanziarie a rischio come gli hedge fund". In realtà l'operazione di salvataggio messa in piedi dalla Federal Reserve per il Lctm - un maxi-rifinanziamento per 3,7 miliardi di dollari - ha fatto emergere qualche nome, dalla statunitense Merril Lynch alla svizzera Ubs.

Recessione globale?

Quali sono, in questo quadro, le previsioni che fate sull'andamento economico dei principali paesi? "L'anno prossimo ci aspettiamo pesanti ripercussioni della crisi sui paesi industrializzati" risponde Conti. "Il Giappone già quest'anno avrà una crescita molto negativa, e il segno sarà ancora negativo nel '99. Gli Stati Uniti, dopo sette anni di espansione - il ciclo più lungo del dopoguerra -cresceranno l'anno prossimo non più del 2%, un evidente rallentamento. L'Unione Europea è attualmente in una fase di accelerazione della crescita, che subirà nel '99 una battuta d'arresto. Gli 11 paesi dell'Unione Monetaria sono cresciuti dell'1,6% nel '96, del 2,5% nel '97, probabilmente chiuderanno il '98 con una crescita sopra il 2,5%, mentre torneranno verso il 2% il prossimo anno". L'esposizione creditizia e i problemi finanziari possono aggravare questo stato di cose? "In effetti la "bomba" che potrebbe portare ad un aggravamento della crisi è il rischio finanziario. Per questo la risposta delle banche centrali è la diminuzione dei tassi di interesse, che consente al settore creditizio di finanziare le sofferenze, ad esempio quelle verso gli hedge fund, ad un costo inferiore. Ci aspettiamo che anche la nuova Banca Centrale Europea farà lo stesso, per evitare una recessione globale. Intanto" conclude l'esponente della Deutsche Bank "entro il '98 scenderanno i tassi ancora troppo alti di paesi dell'Unione Europea come l'Irlanda, la Spagna, il Portogallo, l'Italia". Pochi giorni dopo questo colloquio, la Banca d'Italia ha portato il tasso di sconto dal 5 al 4%.

 

  Ufficio Italiano Cambi, hedge fund all'italiana

Tra i sottoscrittori nel Ltcm, Long Term Capital Management, l'hedge fund statunitense travolto dalla bufera finanziaria mondiale, c'è anche l'Ufficio Italiano Cambi (Uic), l'organismo di vigilanza valutaria della Banca d'Italia. Nel 1994 l'Uic ha investito 100 milioni di dollari delle riserve valutarie italiane nel Long Term Capital Portfolio, una società a responsabilità limitata costituita nelle Isole Cayman dai soci del Lctm, e successivamente ha concesso al fondo statunitense un prestito a medio termine di 150 milioni di dollari. Alla sorpresa di vedere un'autorità di vigilanza lanciarsi in avventure speculative fuori da ogni controllo, si è aggiunta in questi giorni un'altra sorpresa per il commento della dirigenza dell'Uic sulle perdite che il Ltcm sta provocando ai suoi sottoscrittori: "non c'è problema" ha sostenuto il direttore dell'Ufficio Italiano Cambi Pierantonio Ciampicali "in questi anni abbiamo ottenuto da questo investimento utili complessivamente superiori alla quota capitale sottoscritta". Dal 1° ottobre la Banca d'Italia è subentrata all'Uic come responsabile diretta della gestione delle riserve valutarie. Intervenendo all'Università di Trento il 22 ottobre 1998 alla conferenza "La criminalità economica in Europa", il Direttore generale della Banca d'Italia Vincenzo Desario ha chiesto "un'azione coerente e convinta dei maggiori paesi" per superare situazioni come quelle di alcuni centri off-shore "in cui regole e sistemi di vigilanza non sono in grado di garantire stabilità, trasparenza, correttezza dei comportamenti". Chissà se tra questi centri off-shore ci sono anche le Isole Cayman.

(da AltrEconomia, n. 4, settembre-ottobre 1998)

 

  1999-2000: cacao, futures e contadini

La Nestlè ha festeggiato il voto del Parlamento Europeo che ammette i grassi sostitutivi del burro di cacao nel cioccolato (15 marzo 2000) con un balzo della quotazione alla Borsa di Zurigo da 2.620 a 2.900 franchi svizzeri in due giorni. Ne aveva bisogno, poverina. L'anno scorso andava molto meglio: il titolo della multinazionale di Vevey era arrivato fino a 3.075 franchi svizzeri. La spinta al boom borsistico era venuta dal crollo dei prezzi del cacao, praticamente dimezzato rispetto ai 1.300 dollari la tonnellata di inizio '99. Motivo ufficiale? Brasile e Indonesia, le cui valute si stavano deprezzando, avevano aumentato i volumi delle vendite di cacao per mantenere invariati gli introiti dell'export, provocando così un eccesso di offerta e il crollo dei prezzi. Motivo reale? Il trend ribassista sui mercati dei futures sul cacao, avviato certo dai dati brasiliani e indonesiani, ma che poi si è autoalimentato, come spesso accade nei mercati finanziari.

Il crollo del prezzo aveva fatto perdere il 40% del reddito ai produttori, un milione e mezzo di persone, 11 milioni contando le famiglie, in Africa, Asia e America Latina. Ma aveva fatto la fortuna degli operatori ribassisti, i quali si erano portati a casa, "nella peggiore delle ipotesi" precisavano i giornali finanziari, un rendimento annuo del 30%, mentre la Nestlè vedeva le sue azioni rivalutarsi del 50% nel giro di dodici mesi. Solo che, per guadagnare sul ribasso, bisogna vendere, e vendere allo scoperto. A metà '99 sul mercato di Londra c'erano 10 mila contratti futures di vendita allo scoperto che non corrispondevano a quantità di prodotto effettivamente consegnabile. Il contraccolpo era inevitabile.

Il cacao è risalito a oltre 800 dollari la tonnellata e la Nestlè è scesa. Per i produttori, salvo quelli che il commercio equo e solidale riesce a raggiungere pagando loro lo "scandaloso" prezzo di 1.700 dollari la tonnellata, le cose sono cambate poco: il maggior paese esportatore di cacao, la Costa d'Avorio, vedeva la sua situazione economica deteriorarsi gravemente, fino al colpo di stato militare di dicembre e alla decisione di sospendere i pagamenti del debito estero perché "le casse dello Stato sono vuote". Per la Nestlè invece, grazie al voto europeo, le cose si stanno riaggiustando. Per la verità il titolo Nestlè, ma anche quello della Cadbury Schweppes, o della Philip Morris, erano saliti rapidamente anche nei giorni precedenti il 15 marzo. Sicuramente però è un caso: chi poteva sapere come sarebbe andata a Strasburgo?


  5. Le conseguenze sociali della finanza globale e le proposte alternative

Come mostrano le vicende delle crisi finanziarie, la speculazione non è un "gioco" a somma zero; esistono delle conseguenze anche per chi non entra nel gioco e, ciononostante, ne subisce gli effetti, spesso negativi. Si potrebbero citare, ad esempio, le conseguenze per le imprese esportatrici o importatrici in seguito alle oscillazioni dei cambi. Ma la conseguenza principale è rappresentata dall'instabilità, finanziaria prima ed economica e politica in seguito.

Il fatto che gli operatori finanziari lavorino avendo come riferimento periodi di tempo brevissimi, determina lo spostamento rapido di ingenti capitali da un punto all'altro della terra. Ciò può costituire nel breve periodo un beneficio per il paese che riceve questi investimenti. Il problema è rappresentato dal fatto che quegli ingenti capitali, così come sono venuti, se ne vanno altrettanto rapidamente verso altri lidi qualora il paese che li ha ospitati presenti dei problemi economici o, comunque, sia diventato meno remunerativo di altri.

Il rapido dietro front determina delle conseguenze molto gravi non agli investitori ma a quegli elementi dell'economia locale che si erano serviti dei finanziamenti e che ad un certo punto sono costretti a privarsene senza trovare alternative valide, anche per effetto della velocità e spesso della imprevedibilità del ritiro. È questo ciò che è accaduto ai paesi del Sud-est asiatico nel 1997-98, determinando un notevole impoverimento della popolazione.

Un altro aspetto importante da sottolineare è il fatto che la sovranità incontrastata dei mercati finanziari e delle loro regole sta determinando, a livello fiscale, un calo dell'imposizione sui redditi prodotti in Borsa o in generale da attività finanziarie. Si tratta di una vera e propria concorrenza tra paesi sulla tassazione dei capitali - scatenata anche dall'esistenza dei "paradisi fiscali" - sulla base del principio "altrimenti gli investimenti se ne vanno da qualche altra parte". Ciò pone dei problemi di giustizia fiscale e anche di reperimento di risorse da parte degli Stati, ed è legato alla crisi del welfare state e all'inasprimento della tassazione sul lavoro, autonomo o dipendente.

In generale oggi i governi sono relativamente senza potere di fronte ai mercati finanziari globali e si riscontra con preoccupazione un forte indebolimento della cooperazione internazionale in ambito finanziario. La liberalizzazione dei movimenti di capitale ha portato al sostanziale abbandono dei controlli sui capitali. E anche dove questi controlli esistono ancora, la loro applicazione avviene in maniera molto più blanda.

Un'eccezione è stata la Malaysia. Nella prima settimana di settembre 1998 il governo di Kuala Lumpur adottò una serie di misure di regolamentazione dei mercati finanziari.

Tale pacchetto prevedeva:

  1. di fissare il valore ufficiale del ringgit (la moneta della Malaysia) a 3,8 nei confronti del dollaro, per eliminare o comunque ridurre il ruolo delle forze di mercato nella determinazione quotidiana del corso valutario (il valore rispetto alle altre valute è libro di fluttuare in base ai rispettivi tassi verso il dollaro);

  2. che i pagamenti per le esportazioni vengano effettuati in valuta estera;

  3. misure di regolamentazione e limitazione dei trasferimenti dei fondi su conti esteri;

  4. stretti controlli sui pagamenti dei residenti per investimenti all'estero;

  5. limiti all'ingresso ed all'uscita di valuta locale, nessun limite per l'importazione di valuta straniera. I viaggiatori non residenti possono portare via fino all'ammontare dichiarato all'ingresso. Ad eccezione che per i pagamenti per importazioni di beni e servizi, i residenti possono pagare a non residenti sino ad un limite di 10.000 ringgit;

  6. misure per ridurre il commercio internazionale in ringgit, "riportando" in Malaysia i beni finanziari (assets) denominati in ringgit mediante una dichiarazione di non accettazione e riconoscimento di tali valori dopo un tempo limite di un mese;

  7. al fine di ridurre la speculazione di breve periodo nelle contrattazioni di quote azionarie locali, i proventi delle vendite dei non residenti non possono essere espatriate prima di un anno dalla data dello scambio;

tutte le transazioni di titoli iscritti alla Kuala Lumpur Stock Exchange (KLSE, la Borsa) devono essere effettuate da Borse nazionali riconosciute dalla KLSE stessa.

È da rilevare inoltre il crescente coinvolgimento del crimine organizzato nella finanza internazionale e l'importanza del riciclaggio di denaro sporco come uno dei principali servizi da essa offerti. Uno dei fattori che hanno contribuito è stato lo sviluppo del commercio internazionale di droghe illegali, che ha fornito alle varie mafie fonti enormi di ricchezza.

 

  5.1 La Tobin tax

Appare evidente la necessità di riformare l'attuale sistema monetario internazionale alla luce dei gravi problemi che provoca: eccessiva volatilità dei tassi di cambio, i loro grandi e persistenti disallineamenti, il ripetersi di crisi finanziarie, un'ineguale distribuzione del credito a livello internazionale e la mancanza di coordinamento tra le politiche economiche dei principali paesi industrializzati.

Le categorie di proposte che maggiormente ci interessano sono quelle che si fondano sulla premessa che una delle cause principali degli squilibri vada ricercata negli enormi flussi internazionali di capitali.

È urgente che i governi introducano meccanismi di controllo di fenomeni peoccupanti come la speculazione, promuovano crescita e stabilità economica e distribuiscano in maniera più equa il gettito fiscale. Una misura che può essere considerata come un primo, ma importante passo verso una riforma globale del sistema finanziario internazionale è un'imposta del tipo di quella proposta alla fine degli anni '70 dal Premio Nobel per l'economia James Tobin.

Si tratta di un prelievo limitato, pari allo 0,05-0,01% da applicare a tutte le transazioni valutarie. Un'aliquota così bassa non disincentiverebbe gli investimenti produttivi e di medio-lungo periodo, mentre renderebbe più costosi quelli speculativi e di breve periodo, contribuendo a disincentivarli. Secondo una stima prudente, attraverso questa tassa, si potrebbe raccogliere tra i 90 e i 100 miliardi di dollari l'anno, una cifra che corrisponde al doppio di quanto viene oggi destinato alla cooperazione allo sviluppo. Il gettito sarebbe raccolto a livello nazionale dalle Banche centrali che ne tratterrebbero fino all'80% per attività nazionali (servizi sociali, programmi per l'occupazione), destinando poi il restante 20% per attività internazionali (cooperazione, tutela dell'ambiente, ecc.).

 

  5.2 Vademecum per una finanza più etica

La speculazione sottrae risorse e credito ai poveri. Secondo l'Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il 20% più ricco della popolazione mondiale genera l'80,6% del risparmio mondiale ma ottiene il 94,6% del credito complessivamente erogato nel mondo. Il miliardo e oltre di persone che costituisce il 20% più povero conta invece appena per lo 0,2% nel mercato mondiale del credito, pur producendo l'1% del risparmio globale. I ricchi speculano a credito: al marzo 2000, i debiti degli operatori di Wall Street ammontavano a 278,5 miliardi di dollari, più del debito dei 40 paesi più poveri del mondo.

Per modificare questa situazione occorre in primo luogo intaccare lo squilibrio commerciale - e quindi della bilancia dei pagamenti - tra Nord e Sud del mondo. Ogni anno il valore delle importazioni dei paesi in via di sviluppo supera il valore delle esportazioni (petrolio compreso) di qualche decina di miliardi di dollari, e questo deficit di per sé produce deprezzamento delle monete e nuovo debito con l'estero. Che si esporti caffè o microchips non fa molta differenza: il problema non sta nei prodotti ma nei processi di produzione ed esportazione. Sui processi tenta di intervenire, ormai da una buona trentina d'anni, il movimento del commercio equo e solidale. Nato in Olanda alla fine degli anni '60, oggi ha un giro d'affari su scala internazionale di 600 milioni di euro, di cui 20 milioni di euro in Italia. In valore è ancora poco rispetto ai volumi del commercio globale, ma nel Sud del mondo è coinvolto in questo circuito 1 milione 200 mila produttori tra coltivatori e artigiani, cioè 6-7 milioni di persone considerando le famiglie. Il commercio equo applica nuove regole alle transazioni commerciali: il prezzo dei prodotti deve essere tale da garantire una remunerazione dignitosa ai produttori e le condizioni del mercato devono consentire la crescita delle piccole attività economiche e la produzione di un surplus da investire in progetti sociali. Cruciale in questo contesto è la questione del credito: al contrario del mercato tradizionale, nel mercato equo i produttori ricevono un prefinanziamento - un anticipo sugli incassi della vendita - che consente di rendersi più indipendenti da usurai e intermediari vari. Sono principi che cominciano a diffondersi anche laddove la rete organizzata del fair trade non arriva. In Benin, ad esempio, dove una federazione di 12 mila coltivatori e allevatori, di cui più della metà sono donne, ha avviato un'esperienza di "commercializzazione collettiva" degli anacardi; piuttosto che in Brasile, dove il movimento dei Sem Terra ha promosso relazioni commerciali più eque con l'Angola. Queste azioni migliorano i conti con l'estero dei paesi poveri e consentono loro di difendersi meglio dalle turbolenze finanziarie.

Il punto, più in generale, è contrastare quello che Muhammad Yunus, il fondatore della "banca dei poveri" del Bangladesh, la Grameen Bank, chiama "apartheid finanziario" nei confronti dei poveri. Il motivo per cui in Italia è nata la Banca Popolare Etica, che, insieme a oltre 900 istituzioni di microcredito, è impegnata a perseguire l'obiettivo lanciato dal Microcredit Summit nel febbraio 1997: raggiungere 100 milioni di famiglie tra le più povere del mondo con crediti e altri servizi finanziari e commerciali entro il 2005. Alla metà del '99 - ultimi dati disponibili - erano oltre 22 milioni i poveri nei paesi in via di sviluppo, ma anche all'Est e nelle periferie dei paesi ricchi, raggiunti da programmi di microfinanza. Al giugno '98 erano circa 15 milioni: 7 milioni di nuovi destinatari in un anno.

La microfinanza si è rivelata l'unico sostegno di molti piccoli produttori in una situazione come quella dell'Ecuador, che nel 1999 ha visto una profonda crisi bancaria e valutaria, alimentata anche dalla speculazione internazionale. "La crisi finanziaria in Ecuador, che ha portato alla bancarotta di dieci istituti di credito, spinge le banche sopravvissute a ricalibrare i loro criteri di credito, eliminando i prestiti ai piccoli e medi produttori, soprattutto rurali. I coltivatori su piccola scala, già discriminati dalle banche i cui crediti sono limitati ai settori con basso rischio finanziario, non ricevono più neanche il poco che ottenevano prima. Di conseguenza il credito alternativo gestito da organizzazioni non governative diventa la sola opzione possibile per i produttori rurali. Nei mesi scorsi il numero di prestiti erogati dalle organizzazioni di microfinanza è aumentato del 40%. In Ecuador ci sono 21 organizzazioni che promuovono prestiti alternativi, con un portafoglio complessivo di 6 milioni e mezzo di dollari in crediti per piccolo commercio, artigianato, agricoltura e allevamento, acquisizione della terra e dei mezzi di produzione. Il Fepp, Fondo Ecuadoriano Populorum Progressio, la struttura maggiore, lavora con 900 organizzazioni rurali e il suo portafoglio è di 4 milioni di dollari divisi in circa 1.100 prestiti". (IPS 1999)


 

 PICCOLO GLOSSARIO RAGIONATO

Le operazioni economiche che "attraversano le frontiere" tra un paese e il resto del mondo danno luogo ad una serie di conti chiamati "bilancia dei pagamenti con l'estero", "bilancia commerciale" ecc. Tra queste operazioni ci sono:

- vendite all'estero di beni e servizi prodotti nel paese (esportazioni) e acquisti dall'estero di beni e servizi (importazioni). La differenza tra il valore delle esportazioni e il valore delle importazioni in un certo periodo (in genere un anno) è il "saldo della bilancia commerciale" e può essere positivo (surplus o avanzo della bilancia), negativo (deficit o disavanzo) o zero (pareggio);

- capitali che si muovono verso l'estero (crediti, investimenti ecc. dal paese verso altri paesi) o che entrano nel paese (crediti, investimenti ecc. da soggetti di altri paesi verso il paese considerato). La differenza tra capitali entrati e usciti in un certo periodo (in genere un anno) è il "saldo dei movimenti di capitale" ed è positivo (surplus) quanto i capitali esteri entrati sono superiori ai capitali nazionali usciti e negativo (deficit) nel caso opposto;

- considerando insieme la bilancia commerciale e il conto dei movimenti di capitale si ottiene il "saldo della bilancia dei pagamenti con l'estero". Quando il saldo è positivo (surplus) il paese aumenta le sue riserve internazionali di valuta, detenute dalla Banca centrale; quando è negativo (deficit), esse diminuiscono.

In un regime di cambi "flessibili", il valore di ogni moneta rispetto ad un'altra è determinato dalla maggiore o minore richiesta reciproca (domanda e offerta). Quando la bilancia dei pagamenti di un paese è in surplus - perché esporta più di quanto importi o perché riceve capitali più di quanto ne ceda, o entrambe le condizioni - la valuta del paese è molto richiesta (per pagare esportazioni o per fare investimenti nel paese) e quindi il suo valore rispetto alle altre monete tende a crescere: la moneta si apprezza - l'espressione "si rivaluta" si usa quando il cambio è in qualche modo fissato e la "parità" viene cambiata. Viceversa, se la bilancia dei pagamenti è in deficit, la moneta del paese è poco richiesta rispetto ad altre, che servono a pagare importazioni o a fare investimenti all'estero, e quindi si deprezza - il termine "svalutazione" è usato più correttamente quando il cambio è in qualche modo fissato e la "parità" viene cambiata.


a cura di Marina Ponti e Davide Zanoni (Mani Tese), Marco Piccolo (Banca Popolare Etica), Mameli Biasin e Francesco Terreri (AltrEconomia)


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