Tratto e sintetizzato liberamente da « Il libro nero del
comunismo » ed. Mondadori
– tutti dovremmo possedere un tale lavoro scientifico nelle nostre
librerie.
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INTRODUZIONE: I crimini del
comunismo di Stephane Courtois
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La vita ha
perso contro la morte, ma la memoria vince nella lotta contro il nulla (TZVETAN TODOROV, Les abus de
la vifèmovre)
Si è potuto scrivere che «la storia è la scienza dell'infelicità degli uomini», e la violenza del Novecento sembra confermare questa formula in modo eloquente.
Certo, nei secoli precedenti pochi popoli e pochi paesi sono stati risparmiati dalla violenza di massa. Le principali potenze europee sono state implicate nella tratta dei neri;
la Repubblica francese ha messo in atto una colonizzazione che, nonostante alcuni apporti positivi, è stata caratterizzata sino alla fine da episodi raccapriccianti.
Negli Stati Uniti persiste una cultura della violenza che affonda le proprie radici in due crimini principali: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli indiani.
Rimane, comunque, il fatto che, sotto questo aspetto, il nostro secolo sembra avere superato i precedenti.
Guardandolo retrospettivamente,
non ci si può esimere da una conclusione sconcertante: il Novecento è stato il
secolo delle grandi catastrofi umane. Due guerre mondiali e il nazismo, senza
dimenticare le tragedie più circoscritte dell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e
di tanti altri paesi. L'Impero ottomano ha proceduto, infatti, al genocidio
degli armeni e la Germania a quello degli ebrei e degli zingari. L'Italia di
Mussolini ha massacrato gli etiopi. I cechi ammettono a fatica che la loro
condotta nei confronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, non è stata
delle più irreprensibili. E la stessa piccola Svizzera deve fare i conti con il
proprio passato di depositarla dell'oro rubato dai nazisti agli ebrei
sterminati, anche se il grado di atrocità di tale comportamento non è
assolutamente paragonabile a quello del genocidio. Il comunismo si inserisce
nel medesimo lasso di tempo storico fitto di tragedie è ne costituisce, anzi,
uno dei momenti più intensi e significativi. Il comunismo, fenomeno
fondamentale di questo Novecento, il secolo breve che incomincia nel 1914 e si
conclude a Mosca nel 1991, si trova proprio al centro dello scenario storico.
Un comunismo che preesisteva al fascismo e al nazismo e che è sopravvissuto a
essi, toccando i quattro grandi continenti.
Che cosa intendiamo
esattamente con il termine «comunismo»?
È necessario
stabilire subito una distinzione fra la dottrina e la pratica. Come filosofia
politica, il comunismo esiste da secoli, se non da millenni. Non è stato forse
Platone, nella Repubblica, a esporre per primo l'idea di una città ideale in
cui gli uomini non fossero corrotti dal denaro e dal potere e in cui
comandassero la saggezza, la ragione e la giustizia? Un pensatore e statista
del rango di Tommaso Moro, cancelliere d'Inghilterra nel 1529, autore della
famosa Utopia è morto per mano del boia di Enrico VIII, non è stato forse un
altro precursore di quest'idea di città ideale? L'approccio utopico sembra
perfettamente legittimo come strumento critico della società: esso partecipa
del dibattito ideologico, ossigeno delle democrazie. Ma il comunismo di cui
trattiamo in questa sede non si colloca nel mondo delle idee. È un comunismo
reale, che è esistito in una determinata epoca, in determinati paesi, incarnato
da leader famosi: Lenin Stalin, Mao, Ho Chi Minh, Castro ecc. e, più vicino
alla storia nazionale francese, Maurice Thorez, Jacques Duclos, Georges
Marchais.
Il comunismo reale, in qualunque misura sia stato influenzato nella sua pratica dalla dottrina comunista anteriore al 1917 - problema su cui ritorneremo -, ha comunque messo in atto una repressione sistematica, al punto da eleggere, nei momenti di parossismo, il terrore a sistema di governo. L'ideologia è, dunque, innocente? I nostalgici e coloro che ragionano con una mentalità scolastica potranno sempre sostenere che questo comunismo reale non aveva niente a che vedere con il comunismo ideale. E sarebbe evidentemente assurdo imputare a teorie elaborate prima di Cristo, durante il Rinascimento o ancora nell'Ottocento, eventi prodottisi nel XX secolo.
Ma, come
osservò Ignazio Silone, le rivoluzioni come gli alberi si riconoscono dai loro
frutti. Non a caso i socialdemocratici russi, meglio noti come «bolscevichi»,
nel novembre del 1917 hanno deciso di chiamarsi «comunisti». Non a caso,
ancora, hanno eretto ai piedi del Cremlino un monumento in onore di coloro che:
consideravano i loro precursori: Moro e Campanella. Al di là dei crimini
individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi
comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un
autentico sistema di governo. È vero che in un arco di tempo variabile - che va
da pochi anni nell'Europa dell'Est a parecchi decenni nell'URSS e in Cina - il
terrore si è affievolito e i regimi si sono stabilizzati su una gestione della
repressione nel quotidiano, mediante la censura di tutti i mezzi di
comunicazione, il controllo delle frontiere, l'espulsione dei dissidenti. Ma la
«memoria del terrore» ha continuato ad assicurare la credibilità, e quindi
l'efficacia, della minaccia repressiva. Nessuna delle esperienze comuniste che
hanno conosciuto una certa popolarità in Occidente è sfuggita a questa legge:
ne la Cina del Grande timoniere ne la Corea di Kim II Sung ne il Vietnam del
«gentile zio Ho» o la Cuba del pirotecnico Fidel, affiancato da Che Guevara il
puro, senza dimenticare l'Etiopia di Menghistu, l'Angola di Neto e
l'Afghanistan di Najibullah.
I crimini del comunismo non sono mai stati sottoposti a una valutazione legittima e consueta ne dal punto di vista storico ne da quello morale.
Questo è,
forse, uno dei primi tentativi di accostarsi al comunismo, interrogandosi sulla
dimensione criminale come questione fondamentale e globale al tempo stesso
politica.
Si potrà
ribattere che la maggior parte dei crimini rispondeva a una «legalità» di cui
erano garanti le istituzioni dei regimi in vigore, riconosciuti sul piano
internazionale e i cui capi venivano ricevuti con il massimo degli onori dai
nostri stessi politici. Ma con il nazismo non è, forse, accaduto lo stesso? I
crimini di cui parleremo in questo libro si definiscono come tali in rapporto
al codice non scritto dei diritti naturali dell'uomo e non alla giurisdizione
dei regimi comunisti. La storia dei regimi e dei partiti comunisti, della loro
politica, dei loro rapporti con le rispettive società nazionali e con la
comunità internazionale non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una
dimensione di terrore e di repressione. Nell'URSS e nelle «democrazie popolari»
dopo la morte di Stalin, in Cina dopo quella di Mao, il terrore si è attenuato,
la società ha cominciato a uscire dall'appiattimento, la coesistenza pacifica -
anche se era «una continuazione della lotta di classe sotto altre forme» - è
diventata una costante nei rapporti internazionali. Tuttavia, gli archivi e le
abbondanti testimonianze dimostrano che il terrore è stato fin dall'origine una
delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno. Bisogna abbandonare l'idea
che la tal fucilazione di ostaggi, il tal massacro di operai insorti, la tal
ecatombe di contadini morti di fame siano stati semplici «incidenti di
percorso» propri di questa o quell'epoca. Il nostro approccio va al di là del
singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie
del sistema comunista nel suo insieme, nell'intero arco della sua esistenza. Di
che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi
moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la
cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire
decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest
per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e
larghissimi viali; Pol Fot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale
di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la
Rivoluzione culturale maoista le Guardie rosse hanno distrutto e bruciato
tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine
queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità
intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne
e bambini?
Abbiamo,
quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che
costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a
uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una
particolare pratica: l'esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione,
impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno
o incidente automobilistico); l'annientamento per fame (carestie indotte e/o
non soccorse); la deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il
trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di
lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Più complicato è il caso
dei periodi detti di «guerra civile»; non sempre, infatti, è facile distinguere
ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro
della popolazione civile.
Possiamo,
tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre che, pur essendo ancora largamente
approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare
un'idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravita:
- URSS, 20
milioni di morti
- Cina, 65
milioni di morti,
- Vietnam, 1
milione di morti,
- Corea del
Nord, 2 milioni di morti,
- Cambogia, 2
milioni di morti,
- Europa
dell'Est/1 milione di morti,
-America
Latina/150.000 morti,
-Africa, 1
milione 700.000 morti,
-Afghanistan,
1 milione 500.000 morti,
- movimento
comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.
Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.
Questo elenco
di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la
palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Poi Pot, in tre anni e mezzo, è
riuscito a uccidere nel modo più atroce — carestia generalizzata e tortura -
circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per
l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare
il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato,
logico, politico.
Questo approccio elementare non pretende di esaurire il problema, che
merita, invece, un approfondimento qualitativo, basato su una definizione di
crimine precisa e fondata su criteri obiettivi e giuridici. La questione del
crimine di Stato è stata affrontata per la prima volta da un punto di vista
giuridico nel 1945, dal tribunale di Norimberga istituito dagli Alleati proprio
per i crimini nazisti. La natura di questi ultimi è stata definita
nell'articolo 6 dello statuto del tribunale, che indica tre crimini
fondamentali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro
l'umanità. Ora, un esame dell'insieme dei crimini commessi durante il regime
leninista-stalinista, quindi nel mondo comunista in generale, porta a
riconoscervi ciascuna di queste tre categorie.
I crimini contro la pace sono definiti dall'articolo 6a e riguardano
«la direzione, la preparazione, l'inizio e la continuazione di una guerra
d'aggressione, o di una guerra di violazione dei trattati, degli accordi o dei
patti internazionali, o la partecipazione a un piano concertato o a un
complotto per la realizzazione di uno qualsiasi degli atti di cui sopra».
Stalin ha innegabilmente commesso questo tipo di crimine, non foss'altro che
per avere negoziato segretamente con Hitler la spartizione della Polonia e
l'annessione all’URSS degli Stati baltici, della Bucovina del Nord e della
Bessarabia, con i due trattati del 23 agosto e del 28 settembre 1939. Il
trattato del 23 agosto, liberando la Germania dal pericolo di uno scontro sui
due fronti, fu la causa diretta dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Stalin ha perpetrato un altro crimine contro la pace aggredendo la Finlandia il
30 novembre 1939. L'attacco inopinato della Corea del Nord contro la Corea del
Sud il 25 giugno 1950 e l'intervento massiccio dell'esercito della Cina
comunista appartengono alla stessa categoria di crimini. Anche i metodi sovversivi,
ripresi talora dai partiti comunisti finanziati da Mosca, potrebbero essere
assimilati ai crimini contro la pace, perché il loro impiego ha spesso portato
alla guerra: un colpo di Stato comunista in Afghanistan il 27 dicembre 1979,
per esempio, provocò un massiccio intervento militare dell'URSS, dando inizio a
una guerra che non si è ancora conclusa.
I crimini di guerra vengono definiti, all'articolo 6b, «violazioni
delle leggi e dei costumi della guerra. Queste violazioni comprendono, senza limitarvisi,
l'assassinio, i maltrattamenti o la deportazione ai lavori forzati o ad altro
scopo di popolazioni civili nei territori occupati, l'assassinio o i
maltrattamenti dei prigionieri di guerra o delle persone in mare, l'esecuzione
capitale degli ostaggi, il saccheggio dei beni pubblici e privati, la
distruzione senza motivo di città e paesi o la devastazione non giustificata da
esigenze militari». Le leggi e i costumi della guerra sono descritti nelle
convenzioni, la più nota delle quali è quella dell'Aja del 1907, che
stabilisce: «In tempo di guerra, per la popolazione civile e per i
belligeranti, rimangono in vigore i principi del diritto dei popoli quali
risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civilizzate, dalle leggi
dell'umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica».
Stalin ha ordinato e autorizzato numerosi crimini di guerra. Il più
impressionante rimane l'eliminazione di quasi tutti gli ufficiali polacchi
fatti prigionieri nel 1939, nell'ambito della quale lo sterminio di 4500
persone a Katyn' è soltanto un episodio. Ma altri crimini di portata assai
maggiore sono passati inosservati, come l'assassinio o la messa a morte nei
gulag di centinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionieri fra il
1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri in massa delle donne tedesche
perpetrati dai soldati dell'Armata rossa nella Germania occupata. Per non
parlare del saccheggio sistematico delle strutture industriali dei paesi
occupati dall'Armata. Rientrano sempre nell'articolo 6b l'imprigionamento e la
fucilazione o la deportazione di militanti di gruppi organizzati che
combattevano apertamente contro il potere comunista: per esempio, i militari
dell'organizzazione polacca di resistenza antinazista (AK), i mèmbri delle
organizzazioni di partigiani armati baltici e ucraini, i partigiani afgani ecc.
L'espressione «crimine contro l'umanità» è comparsa per la prima volta
il 18 maggio 1915 in una dichiarazione di Francia, Inghilterra e Russia contro
la Turchia, in occasione del massacro degli armeni, definito «nuovo crimine
della Turchia contro l'umanità e la civiltà». Le atrocità naziste hanno indotto
il tribunale di Norimberga a ridefinire la nozione nell'articolo 6c:
«L'assassinio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione e ogni altro atto inumano
commesso contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra o, ancora,
le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, qualora questi atti
o persecuzioni, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto
interno del paese in cui sono stati perpetrati, siano stati commessi in seguito
a qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale o siano in
rapporto con detto crimine». Nella sua requisitoria a Norimberga Francois de
Menthon, procuratore generale francese, sottolineava la portata ideologica di
questi crimini:
Mi propongo di dimostrarvi che qualsiasi forma di crimine organizzato
e di massa deriva da ciò che oserei definire un crimine contro lo spirito, e
cioè da una dottrina che, negando tutti i valori spirituali, razionali o morali
sui quali i popoli hanno tentato da millenni di far progredire la condizione
umana, mira a respingere l'umanità nella barbarie, non più nella barbarie
naturale e spontanea dei popoli primitivi, ma in una barbarie demoniaca in
quanto cosciente di sé e in grado di utilizzare ai suoi fini tutti i mezzi
materiali che la scienza contemporanea mette a disposizione dell'uomo. In
questo attentato allo spirito consiste il peccato originale del
nazionalsocialismo da cui derivano tutti i crimini. Tale mostruosa dottrina è
l'ideologia del razzismo.... Che si tratti del crimine contro la pace o dei
crimini di guerra, non ci troviamo comunque di fronte a una criminalità
accidentale, occasionale, che gli eventi potrebbero, non dico giustificare, ma
perlomeno spiegare: ci troviamo di fronte a una criminalità sistematica, che
deriva direttamente e necessariamente da una dottrina mostruosa, favorita con
deliberata volontà dai dirigenti della Germania nazista.
Francois de Menthon precisava, inoltre, che le deportazioni destinate
a fornire manodopera supplementare alla macchina bellica tedesca e quelle volte
all'eliminazione degli oppositori del regime erano soltanto «una conseguenza
naturale della dottrina nazionalsocialista per la quale l'uomo non ha nessun
valore in sé quando non è al servizio della razza tedesca». Tutte le
dichiarazioni del tribunale di Norimberga insistevano su una delle principali
caratteristiche del crimine contro l'umanità: il fatto che la potenza dello
Stato fosse messa al servizio di una politica e di una pratica criminali. Ma la
competenza del tribunale era limitata ai crimini commessi durante la seconda
guerra mondiale. Era, quindi, indispensabile estendere la nozione giuridica a
situazioni che non rientrassero in quella casistica. Il nuovo Codice penale
francese, entrato in vigore il 23 luglio 1992, definisce così il crimine contro
l'umanità: «La deportazione, la schiavitù o la pratica massiccia e sistematica
di esecuzioni capitali sommarie, di sequestri seguiti dalla scomparsa della
persona rapita, della tortura o di atti disumani ispirati a motivazioni
politiche, filosofiche, razziali o religiose, e organizzati in esecuzione di un
piano concertato contro un gruppo di popolazione civile».
Ora, queste definizioni, in particolare quella francese recente, si
attagliano a numerosi crimini commessi sotto Lenin, e specialmente sotto
Stalin, e poi in tutti i paesi comunisti eccetto (con beneficio di inventario)
Cuba e il Nicaragua dei sandinisti. Il presupposto sembra inconfutabile: i regimi
comunisti hanno operato «in nome di uno Stato che praticava una politica di
egemonia ideologica». E proprio in nome di una dottrina, fondamento logico e
necessario del sistema, vennero massacrate decine di milioni di persone
innocenti a cui non si poteva rimproverare nessun atto particolare, a meno che
non si riconosca come crimine il fatto di essere nobile, borghese, kulak,
ucraino e persino operaio o... membro del Partito comunista. L'intolleranza
attiva faceva parte del programma messo in atto. Non è stato forse il massimo
dirigente sovietico, Tomskij, a dichiarare il 13 novembre 1927, su «Trud»: «Nel
nostro paese possono esistere anche altri partiti. Ma un principio fondamentale
ci distingue dall'Occidente; si immagini una simile situazione: un partito
comanda e tutti gli altri sono in prigione».
La nozione di crimine contro l'umanità è complessa e comprende crimini
ben definiti. Uno dei più specifici è il genocidio. In seguito a quello degli
ebrei perpetrato dai nazisti, e allo scopo di precisare l'articolo 6c del
tribunale di Norimberga, la nozione è stata definita da una convenzione delle
Nazioni Unite del 9 dicembre 1948:
Per genocidio si intende uno qualunque dei seguenti atti, commessi con
l'intenzione di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale,
etnico, razziale o
religioso in
quanto tale: a) assassinio di membri del gruppo; b) grave attentato
all'incolumità fisica o mentale di membri del gruppo; e) imposizione
intenzionale al gruppo di condizioni di vita destinate a provocarne la
distruzione fisica totale o parziale;
d) misure
volte a ostacolare le nascite all'interno del gruppo; e) trasferimenti coatti
dei figli di un gruppo a un altro.
Il nuovo Codice penale francese da del genocidio una definizione
ancora più ampia: «II fatto, in esecuzione di un piano concertato tendente alla
distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso, o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio
arbitrario [corsivo dell'Autore]». Questa definizione giuridica non contraddice
l'approccio più filosofico di Andre Frossard, secondo il quale «si commette un
crimine contro l'umanità quando si uccide qualcuno con il pretesto che è nato».
E nel suo breve e magnifico racconto intitolato Tutto scorre, Vasilij Grossman
dice del suo personaggio, Ivan Grigorievic, di ritorno dal campo di
concentramento: «E rimasto quello che era alla nascita, un uomo». Ed è
esattamente questa la ragione per cui era stato perseguitato. La definizione
francese permette anche di sottolineare che il genocidio non è sempre dello
stesso tipo - razziale, come nel caso degli ebrei - ma può colpire anche gruppi
sociali. In un libro pubblicato a Berlino nel 1924, intitolato: “La Terreur
rouge en Russie, lo storico russo, e socialista, Sergej Mel'gunov, citava
Lacis, uno dei primi capi della Ceka (la polizia politica sovietica) che, il 1°
novembre 1918, diede queste direttive ai suoi sgherri:
Noi non facciamo la guerra contro singole persone. Noi sterminiamo la
borghesia come classe. Nelle indagini non cercate documenti e prove su ciò che
l'accusato ha avuto, in atti e parole, contro l'autorità sovietica. Chiedetegli
subito a che classe appartiene, quali sono le sue origini, la sua educazione,
la sua istruzione e la sua professione.
Fin dal principio Lenin e i suoi compagni si sono inquadrati in una
guerra di classe spietata, in cui l'avversario politico e ideologico e persino
la popolazione renitente erano considerati, e trattati, alla stregua di nemici
e dovevano essere sterminati. I bolscevichi hanno deciso di eliminare, sia
legalmente sia fisicamente, qualsiasi opposizione o resistenza, anche passiva,
al loro potere egemonico, non soltanto quando quest'ultima era prerogativa di
gruppi di oppositori politici, ma anche quando era guidata da gruppi sociali in
quanto tali - la nobiltà, la borghesia, l'intellighenzia, la Chiesa ecc., e
categorie professionali (gli ufficiali, le guardie...), e questa eliminazione
ha spesso assunto la dimensione del genocidio. Fin dal 1920 la
«decosacchizzazione» corrisponde ampiamente alla definizione di genocidio:
un'intera popolazione a forte base territoriale, i cosacchi, veniva sterminata
in quanto tale, gli uomini venivano fucilati, le donne, i vecchi e i bambini deportati,
i paesi rasi al suolo o consegnati a nuovi occupanti non cosacchi. Lenin
assimilava i cosacchi alla Vandea durante la Rivoluzione francese e proponeva
di applicare al loro caso il trattamento che Gracchus Babeuf, l'«inventore» del
comunismo moderno, aveva definito fin dal 1795 «popolicidio».
La «dekulakizzazione» del 1930-1932 fu la ripresa su ampia scala della
decosacchizzazione: questa volta, però, fu rivendicata da Stalin, la cui parola
d'ordine ufficiale, strombazzata dalla propaganda di regime, era «sterminare i
kulak in quanto classe». I kulak che resistevano alla collettivizzazione furono
fucilati, gli altri deportati con donne, vecchi e bambini. Certo non furono
tutti eliminati direttamente, ma il lavoro forzato al quale vennero sottoposti,
in zone non dissodate della Siberia e del Grande Nord, lasciò loro poche
possibilità di sopravvivenza. Centinaia di migliaia di persone persero la vita,
ma il numero esatto delle vittime non si conosce ancora. La grande carestia
ucraina del 1932-1933, legata alla resistenza delle popolazioni rurali alla
collettivizzazione forzata, provocò in pochi mesi la morte di 6 milioni di
persone. In questo caso, il genocidio «di classe» si confonde con il genocidio
«di razza»: la morte per stenti del bambino di un kulak ucraino deliberatamente
ridotto alla fame dal regime stalinista «vale» la morte per stenti di un
bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime nazista.
Questa constatazione non rimette affatto in discussione la singolarità di
Auschwitz: la mobilitazione delle risorse tecniche più moderne e l'attuazione
di un vero e proprio processo industriale (la costruzione di una «fabbrica di
sterminio»), l'uso dei gas e dei forni cromatori, ma sottolinea una
particolarità di molti regimi comunisti: l'uso sistematico dell'arma della
fame. Il regime tende a controllare completamente le riserve alimentari e, con
un sistema di razionamento talvolta molto sofisticato, le ridistribuisce in
funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può
provocare immani carestie. Facciamo notare che, dopo il 1918, soltanto i paesi
comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di
migliaia, se non" di milioni, di uomini. Ancora nell'ultimo decennio due
dei paesi dell'Africa che si rifacevano al marxismoleninismo, l'Etiopia e il
Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie.
È possibile
fare un primo bilancio globale di questi crimini:
- fucilazione
di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate
I CRIMINI DEL COMUNISMO
Senza essere
state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di
contadini insorti fra il 1918 e il 1922;
- carestia del
1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;
- deportazione
ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;
- assassinio
di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il
1930;
- eliminazione
di quasi 690.000 persone durante la Grande purga del 1937-1938;
- deportazione
di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;
- sterminio di
6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa; ,
- deportazione
di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel
1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;
- deportazione
dei tedeschi del Volga nel 1941;
-
deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943;
-
deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;
-
deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;
-
deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e
il 1978;
- lento
sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 ecc.
La lista dei
crimini del leninismo e dello stalinismo, spesso riprodotti in modo quasi
identico dai regimi di Mao Zedong, Kim II Sung e Poi Pot, potrebbe essere
estesa all'infinito.
Rimane una
delicata questione epistemologica: lo storico, nel delineare e interpretare i
fatti, è autorizzato a ricorrere a nozioni quali «crimine contro l'umanità» e
«genocidio» che, come abbiamo visto, appartengono alla sfera giuridica? Queste
nozioni non sono forse troppo legate a imperativi contingenti - la condanna del
nazismo a Norimberga - per essere inserite in una riflessione storica che miri
a impostare, sul medio periodo, un'analisi valida?
D'altro canto,
queste nozioni non sono troppo cariche di valori suscettibili di falsare l'obiettività
dell'analisi storica? Per quanto riguarda il primo punto, la storia di questo
secolo ha rivelato che la pratica dello sterminio di massa da parte dello Stato
o di partiti-Stato non è stata un'esclusiva nazista. La Bosnia e il Ruanda
dimostrano che tali pratiche perdurano e che probabilmente costituiranno una
delle principali caratteristiche del nostro secolo.
In merito al
secondo punto, è evidente che non si può tornare all'impostazione del XIX
secolo, quando lo storico cercava di giudicare più che di capire. Ma di fronte
alle immense tragedie umane, direttamente provocate da determinate concezioni
ideologiche e politiche, egli può forse abbandonare ogni riferimento a una
mentalità umanistica - legata alla nostra civiltà giudaico-cristiana e alla nostra
cultura democratica - che si fonda, per esempio, sul rispetto della persona
umana? Molti storici famosi non esitano a usare l'espressione «crimine contro
l'umanità», per definire i crimini nazisti, come Jean-Pierre Azema nella 12
vote su Auschwitz o Pierre Vidal-Naquet a proposito del processo Touvier. Ci
sembra, quindi, che il ricorso a queste nozioni per caratterizzare alcuni
crimini commessi dai regimi comunisti non sia illegittimo.
Oltre alla
questione della responsabilità diretta dei comunisti al potere si pone anche
quella della complicità. Il Codice penale canadese, rimaneggiato nel 1987,
all'articolo 7 (3.77) considera che si incorre nel crimine contro l'umanità nei
casi di tentativo, complicità, consiglio, aiuto, incoraggiamento o complicità di
fatto. Sono parimenti assimilati agli atti di crimine contro l'umanità -
articolo 7 (3.76) - «il tentativo, il complotto, la complicità dopo il fatto
[corsivo dell'Autore], il consiglio, l'aiuto o l'incoraggiamento riguardante il
fatto stesso». Ora, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, i comunisti di tutto
il mondo e molte altre persone hanno applaudito la politica di Lenin e poi
quella di Stalin. Centinaia di migliaia di uomini si sono arruolate nelle file
dell'Internazionale comunista delle sezioni locali del «partito mondiale della
rivoluzione». Negli anni Cinquanta - Settanta altre centinaia di migliaia di
uomini hanno incensato il Grande timoniere della Rivoluzione cinese e hanno
tessuto le lodi del Grande balzo in avanti della Rivoluzione culturale. Per
giungere a tempi ancora più recenti, l'ascesa al potere di Pol Fot è stata
salutata da un diffuso entusiasmo. Molti risponderanno che «non sapevano». Ed è
vero che non era sempre facile sapere, poiché i regimi comunisti avevano fatto
del segreto uno dei loro mezzi di difesa preferiti. Ma, spesso, quest'ignoranza
era solo il risultato di una cecità dovuta alla fede militante: fin dagli anni
Quaranta e Cinquanta, infatti, molti accadimenti erano noti e inconfutabili. E
se molti di questi incensatori hanno oggi abbandonato i loro idoli di ieri, lo
hanno fatto nel silenzio e nella discrezione. Ma che cosa si deve pensare
dell'amoralismo innato di chi abbandona nel segreto del proprio animo un
impegno pubblico senza trame la debita lezione?
Nel 1969 uno
dei pionieri dello studio del terrore comunista, Robert Conquest, scriveva:
II fatto che
tante persone abbiano effettivamente «mandato giù» [la Grande purga] fu
probabilmente uno dei fattori che resero possibile l'intera purga. I processi,
in particolare, avrebbero riscosso scarso interesse se non fossero stati
convalidati da alcuni commentatori stranieri, e dunque «indipendenti». Questi
ultimi devono essere considerati corresponsabili, almeno in piccola parte, di
tali omicidi politici o, in ogni caso, del fatto che essi si siano rinnovati
dopo che la prima operazione, il processo Zi nov'ev [nel 193,6}, ebbe
beneficiato di un credito ingiustificato. Se si giudica con questo metro la
complicità morale e intellettuale di un certo numero di non comunisti, che cosa
si dovrebbe dire della complicità dei comunisti? Non si ricorda che Louis
Aragon si sia pubblicamente pentito di avere auspicato, in una poesia del 1931,
la creazione di una polizia politica comunista in Francia, anche se a tratti è
sembrato che criticasse il periodo stalinista. Joseph Berger, un ex dirigente
del Comintern che è stato «purgato» e ha conosciuto il campo di concentramento,
cita la lettera scrittagli da una ex deportata in un gulag, che rimase membro
del Partito dopo avere riconquistato la libertà:
I comunisti
della mia generazione hanno accettato l'autorità di Stalin. Hanno approvato i
suoi crimini. Ciò è vero non soltanto per i comunisti sovietici ma anche per
quelli del resto del mondo e questa macchia ci bolla individualmente e collettivamente.
Possiamo cancellarla soltanto facendo in modo che non accada mai più nulla di
simile. Che cosa è successo? Avevamo perso il senno o adesso siamo dei
traditori del comunismo? La verità è che tutti, compresi quanti erano più
vicini a Stalin abbiamo fatto dei crimini il contrario di quello che erano. Li
abbiamo cioè considerati importanti contributi alla vittoria del socialismo.
Abbiamo creduto che tutto ciò che consolidava la potenza politica del Partito
comunista in Unione Sovietica e nel mondo fosse una vittoria per il socialismo.
Non abbiamo mai considerato che all'interno del comunismo potesse esserci
conflitto fra la politica e l'etica.
Berger, dal
canto suo, attenua l'affermazione:
Ritengo che se
si può condannare il comportamento di quanti hanno accettato la politica di
Stalin, il che non fu il caso di tutti i comunisti, è più difficile
rimproverare loro di non avere impedito questi stessi crimini. Credere che
uomini, pur appartenenti alle alte sfere del potere, potessero contrastare i
suoi piani significa non avere capito nulla del suo dispotismo bizantino.
Ma Berger ha
la scusante di essersi trovato nell'URSS e di essere stato, quindi, afferrato
dalla macchina infernale a cui non poté sfuggire. Ma perché i comunisti
dell'Europa occidentale, che non dovettero subire direttamente l'NKVD (una
sorta di ministero sovietico che aveva alle dipendenze la polizia politica),
hanno continuato a tessere le lodi del sistema e del suo capo? Doveva essere
ben potente il filtro magico che li condizionava! Martin Malia, nel suo bel
libro sulla Rivoluzione russa La tragèdie soviétique, svela in parte il mistero
parlando del «paradosso di un grande ideale sfociato in un grande crimine».
Annie Kriegel, un'altra famosa studiosa del comunismo, insisteva su quest'articolazione
quasi necessaria delle sue due facce: una luminosa e l'altra oscura.
Una prima risposta a questo
paradosso viene da Tzvetan Todorov:
Chi vive in
una democrazia occidentale vorrebbe credere che il totalitarismo sia
interamente estraneo alle normali aspirazioni umane. Ma, se così fosse, non si
sarebbe mantenuto tanto a lungo, attirando tanti individui nella sua orbita. Al
contrario, esso è una macchina di temibile efficacia. L'ideologia comunista
propone l'immagine di una società migliore e ci incita ad aspirarvi: il
desiderio di trasformare il mondo in nome di un ideale non è forse parte
integrante dell'identità umana? ... Per di più, la società comunista priva
l'individuo delle sue responsabilità: sono sempre «loro» a decidere. E la
responsabilità è un fardello spesso pesante da portare.... L'attrazione per il
sistema totalitario, inconsciamente provata da moltissimi individui, deriva da
una certa paura della libertà e della responsabilità; il che spiega la
popolarità di tutti i regimi autoritari (è la tesi di Erich Fromm in Fuga dalla
libertà); esiste una «servitù volontaria», diceva già La Boétie.
La complicità di coloro che si sono abbandonati alla servitù
volontaria non è stata e non è sempre astratta e teorica. Il semplice fatto di
accettare e/o riprendere una propaganda destinata a nascondere la verità
sfiorava e sfiora comunque la complicità attiva. Perché la pubblicità è l'unico
modo – anche se non sempre efficace, come ha recentemente dimostrato la
tragedia del Ruanda - di combattere i crimini di massa commessi in segreto,
lontano da sguardi indiscreti.
L'analisi di questa realtà fondamentale del fenomeno comunista al
potere - dittatura e terrore - non è facile. Jean Ellenstein ha definito il
fenomeno stalinista un misto di tirannide greca e di dispotismo orientale. La
formula è seducente, ma non rende il carattere moderno di quest'esperienza e la
sua portata totalitaria, diversa dalle precedenti forme storiche di dittatura.
Un rapido esame comparativo permetterà di comprenderne meglio la natura.
Si potrebbe incominciare ricordando la tradizione russa
dell'oppressione. I bolscevichi combattevano il regime terrorista dello zar,
che però impallidisce di fronte agli orrori del bolscevismo al potere. I
prigionieri politici dello zar avevano diritto a un vero e proprio sistema
giudiziario, dove la difesa poteva esprimersi al pari, se non meglio,
dell'accusa, prendendo a testimone l'opinione pubblica nazionale, inesistente
nel regime comunista, e soprattutto quella internazionale. I prigionieri e i
condannati godevano di un regolamento carcerario e le condizioni di reclusione
e persino di deportazione erano relativamente leggere. I deportati potevano
partire con la famiglia, leggere e scrivere ciò che desideravano, andare a
caccia e a pesca e incontrarsi liberamente con i compagni di sventura. Lenin e
Stalin l'avevano sperimentato di persona. Perfino le Memorie da una casa di
morti di Dostoevskij, che tanto colpirono l'opinione pubblica al momento della
pubblicazione, sembrano ben poca cosa in confronto agli orrori del comunismo.
Nella Russia degli anni che vanno dal 1880 al 1914 ci furono indubbiamente
sommosse e insurrezioni duramente represse da un sistema politico arcaico. Ma
dal 1825 al 1917 le persone condannate a morte in Russia per le loro idee o la
loro azione politica sono state 6360, di cui ne sono state giustiziate 3932
-191 dal 1825 al 1905 e 3741 dal 1906 al 1910 -, cifra che nel marzo 1918, dopo
soli quattro mesi di esercizio del potere, i bolscevichi avevano già superato.
Fra il bilancio della repressione zarista e quello del terrore comunista non
c'è, quindi, confronto.
Negli anni Venti-Quaranta il comunismo ha violentemente stigmatizzato
il terrore messo in atto dai regimi fascisti. Un rapido esame delle cifre
mostra che, anche in questo caso, le cose non sono poi così semplici. È vero
che il fascismo italiano, il primo a manifestarsi e a dichiararsi apertamente
«totalitario», ha imprigionato e spesso maltrattato i suoi avversari politici.
Ma raramente è arrivato a uccidere e, a metà degli anni Trenta, l'Italia
contava poche centinaia di prigionieri politici e diverse centinaia di
confinati - in domicilio coatto nelle isole -, ma, in compenso, decine di
migliaia di esiliati politici.
Fino a prima della guerra, il terrore nazista ha preso di mira solo
pochi gruppi. L'opposizione al regime, rappresentata principalmente da
comunisti, socialisti, anarchici e da alcuni sindacalisti, è stata repressa
apertamente: i suoi rappresentanti sono stati incarcerati e soprattutto
internati in campi di concentramento, dove hanno subito terribili angherie. Dal
1933 al 1939 nei campi di concentramento e nelle prigioni sono stati
assassinati in totale circa 20.000 militanti di sinistra, con o senza processo.
A tutto ciò vanno aggiunti i regolamenti di conti interni al nazismo, come la
Notte dei lunghi coltelli nel giugno del 1934. Un'altra categoria di vittime
destinate alla morte era rappresentata dai tedeschi che si riteneva non
corrispondessero ai criteri razziali dell'«ariano alto e biondo»: malati
mentali, handicappati e vecchi. Hitler si è deciso a passare all'azione con lo
scoppio della guerra: tra la fine del 1939 e l'inizio del 1941 sono stati
sterminati in camera a gas 70.000 tedeschi, vittime di un programma di
eutanasia a cui ha posto fine solo la protesta delle Chiese. I metodi di
sterminio con i gas tossici messi a punto in quell'occasione sono stati
utilizzati in seguito per il terzo gruppo di vittime, gli ebrei.
Prima della guerra vigevano misure di segregazione razziale di
carattere generale contro gli ebrei, ma la loro persecuzione toccò il culmine
durante la Notte dei cristalli, che vide parecchie centinaia di morti e 35.000
internamenti nei campi di concentramento. Ma soltanto con la guerra, e
soprattutto con l'attacco all'URSS, si scatenò il terrore nazista, di cui
forniamo un sommario bilancio: 15 milioni di civili uccisi nei paesi occupati;
5 milioni 100.000 ebrei; 3 milioni 300.000 prigionieri di guerra sovietici; 1
milione 100.000 deportati morti nei campi di concentramento; parecchie
centinaia di migliaia di zingari. A queste vittime vanno aggiunti 8 milioni di
persone utilizzate per i lavori forzati e 1 milione 600.000 persone detenute
nei campi di concentramento non decedute.
Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzitutto
perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito
alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i
suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali.
Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per
il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la
radicalità del crimine.
Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra
aritmetica comparativa, ne tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o
stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano
che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di
persone, contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo. Questa semplice
constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il
regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e
un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale,
e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori
in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente
riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno
abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro
coinvolgimento nel fenomeno del Terrore.
I metodi adoperati da Lenin e sistematizzati da Stalin e dai loro
seguaci non soltanto ricordano quelli nazisti, ma molto spesso ne sono il
precorrimento. A questo proposito Rudolf Hòss, incaricato di creare il campo di
Auschwitz, che sarebbe poi stato chiamato a dirigere, ricorda
significativamente che la direzione della Sicurezza aveva fatto pervenire ai
comandanti dei campi una documentazione dettagliata sui campi di concentramento
russi, in cui, sulla base delle testimonianze degli evasi, erano descritte nei
minimi particolari le condizioni che vi vigevano, ed emergeva come i russi
annientassero intere popolazioni impiegandole nei lavori forzati. Il fatto che
il grado e le tecniche di violenza di massa fossero state inaugurate dai
comunisti e che i nazisti abbiano potuto trarne ispirazione non implica
comunque, a nostro avviso, che si possa stabilire un rapporto diretto di causa
ed effetto fra l'ascesa al potere dei bolscevichi e la comparsa del nazismo.
Già alla fine degli anni Venti la GPU (nuovo nome della Ceka) inaugurò
il metodo delle quote: ogni regione, ogni distretto doveva arrestare, deportare
o fucilare una determinata percentuale di persone appartenenti a classi sociali
nemiche. Queste percentuali erano fissate dalla direziono centrale del Partito.
La follia pianificatrice e la mania statistica non si sono limitate
all'economia, ma hanno imperversato anche nell'ambito del terrore. Fin dal
1920, con la vittoria dell'Armata rossa su quella bianca, in Crimea, si
adottano metodi statistici, e addirittura sociologici: le vittime vengono
selezionate secondo criteri precisi, stabiliti sulla base di questionari ai quali
nessuno può sottrarsi. Gli stessi metodi sociologici saranno utilizzati dai
sovietici per organizzare le deportazioni e le eliminazioni di massa negli
Stati baltici e nella Polonia occupata nel 1939-1941. Il trasporto dei
deportati sui carri bestiame ha dato luogo ad aberrazioni del tutto analoghe a
quelle naziste: nel 1943-1944, in piena guerra, Stalin ha distolto dal fronte
migliaia di vagoni e centinaia di migliaia di uomini dalle truppe speciali
dell'NKVD per provvedere alla deportazione delle popolazioni del Caucaso nel
giro di pochissimi giorni. Questa logica genocida - che, per riprendere il
Codice penale francese, consiste nella «distruzione totale o parziale di un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, o di un gruppo determinato
sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario» - applicata dal potere
comunista a gruppi individuati come nemici a porzioni della sua stessa società,
è stata portata al parossismo da Poi Fot e dai suoi khmer rossi.
Il confronto fra nazismo e comunismo per quanto riguarda i rispettivi
stermini può risultare sconvolgente. Eppure, Vasilij Grossman - figlio di una
donna uccisa dai nazisti nel ghetto di Berdicev, autore del primo testo su
Trebiinka e coordinatore, insieme con altri, del Libro nero sullo sterminio degli
ebrei in Unione Sovietica - nel racconto - Tutto scorre - fa dire a uno dei
suoi personaggi a proposito della fame in Ucraina: «... lo scrivevano gli
scrittori, e Stalin in persona: tutti a darci sotto su un punto solo: i kulak,
i parassiti, bruciano il grano ammazzano i bambini. E annunciarono apertamente
che bisognava sollevare il furore delle masse contro di loro, annientarli tutti
come classe, i maledetti ».
E aggiunge:
«Per ammazzarli bisognava annunciare: i kulak non sono esseri umani. Proprio come
dicevano i tedeschi: gli ebrei non sono esseri umani. Così per Lenin e Stalin:
i kulak non sono esseri umani». E Grossman conclude a proposito dei figli dei
kulak: «Sì, proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini degli ebrei con
il gas, perché loro non avevano il diritto di vivere, loro erano ebrei». Ogni
volta si colpiscono non tanto degli individui, quanto dei gruppi. Il terrore ha
lo scopo di sterminare un gruppo individuato come nemico che se è vero che
costituisce soltanto una porzione della società, viene comunque colpito in
quanto tale da una logica genocida. I meccanismi di segregazione e di
esclusione del totalitarismo di classe presentano, quindi, una straordinaria
somiglianza con quelli del totalitarismo di razza. La futura società nazista
doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista
attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La
ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se
i criteri di esclusione non furono gli stessi. È, quindi, un errore sostenere
che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha
una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di
esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto
che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e
territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali. I misfatti
leninisti, stalinisti, maoisti e l'esperienza cambogiana pongono, quindi, all'umanità,
oltre che ai giuristi e agli storici, un nuovo quesito: come definire il
crimine che consiste nello sterminio, per ragioni politico-ideologiche, non più
di individui o di gruppi limitati di oppositori, ma di massicce porzioni della
società? Bisogna limitarsi, come fanno i giuristi cechi, a definire i crimini
commessi durante il regime comunista semplicemente «crimini comunisti»? O
bisogna inventare una nuova denominazione? Alcuni autori anglosassoni la
pensano in questo modo e hanno coniato il termine «politicidio».
Che cosa si sapeva dei crimini del comunismo? Che cosa si voleva
saperne? Perché si è dovuta aspettare la fine del secolo affinché questo tema
potesse diventare oggetto di un'indagine scientifica? È, infatti, evidente che
lo studio del terrore stalinista e comunista in generale, paragonato allo
studio dei crimini nazisti, ha un enorme ritardo da colmare, anche se nell'Est
le ricerche si fanno sempre più numerose.
A questo proposito non si può non rilevare con un certo stupore un
forte contrasto. I vincitori del 1945 hanno legittimamente fatto del crimine, e
in particolare del genocidio degli ebrei, il fulcro della loro condanna del
nazismo. Numerosi studiosi di tutto il mondo lavorano da decenni su
quest'argomento, a cui sono state dedicate decine di libri e decine di film,
alcuni dei quali famosissimi: su registri alquanto diversi. Notte e nebbia e
Olocausto, La scelta di Sophie e Schindler's List. Raul Hilberg, per fare un solo
nome, ha incentrato la sua opera principale sulla minuziosa descrizione delle
modalità di eliminazione degli ebrei nel Terzo Reich.
Ma sul tema dei crimini comunisti non esistono studi di questo tipo.
Mentre i nomi di Himmler o di Eichmann sono noti in tutto il mondo come simboli
della barbarie contemporanea, quelli di Dzerzinskij, di Jagoda o di Ezov sono
ignorati dai più. E per Lenin, Mao, Ho Chi Minh, e persino per Stalin si
continua ad avere un sorprendente rispetto. La lotteria di Stato francese ha
addirittura commesso la leggerezza di sfruttare l'immagine di Stalin per una
delle sue campagne pubblicitarie! A chi sarebbe mai venuto in mente di usare
Hitler o Goebbeis per una simile operazione?
L'eccezionale attenzione dedicata ai crimini hitleriani è
perfettamente giustificata. Risponde alla volontà dei sopravvissuti di
testimoniare, degli studiosi di comprendere e delle autorità morali e politiche
di confermare i valori democratici. Ma perché le testimonianze sui crimini
comunisti hanno eco così debole nell'opinione pubblica? Perché questo silenzio
imbarazzato dei politici? E, soprattutto, perché questo silenzio accademico
sulla catastrofe comunista che ha toccato, da ottant'anni a questa parte, circa
un terzo e più dell’umanità, distribuito sui quattro continenti? Perché
quest'incapacità di analisi del comunismo un fattore essenziale come il
crimine, il crimine di massa, il crimine sistematico, il crimine contro
l'umanità? E Proprio di fronte all'impossibilità di comprendere o si tratta
piuttosto del volontario rifiuto di sapere, della paura di capire?
Le ragioni di questo occultamento sono molteplici e complesse.
Innanzitutto la classica e costante volontà dei carnefici di far scomparire le
tracce dei loro crimini e di giustificare ciò che non potevano nascondere. Il
«rapporto segreto» di Hruscèv del 1956, che ha costituito la prima ammissione
dei crimini. A parte dei dirigenti comunisti stessi, rimane comunque la
confessione di un carnefice che tenta allo stesso tempo di mascherare e di
coprire i propri crimini - come capo del Partito comunista ucraino al culmine
del terrore -, attribuendoli unicamente a Stalin e giustificandosi con la scusa
dell'obbedienza agli ordini; di occultarne la maggior parte (parla soltanto
delle vittime comuniste, molto meno numerose delle altre); di minimizzarli (li
definisce «abusi commessi durante il regime di Stalin»); e infine di
giustificare la continuità del sistema con gli stessi principi, le stesse
strutture e gli stessi uomini.
1- Hruscèv ne offre una cruda testimonianza, quando riferisce
dell'opposizione che incontrò durante la preparazione del «rapporto segreto»,
in particolare da parte di uno degli uomini di fiducia di Stalin:
Kaganovic era talmente accondiscendente, che avrebbe tagliato la gola
anche a sua madre se Stalin glielo avesse ordinato in nome della, causa, cioè
della causa stalinista.
Intervenne allora Kaganovic opponendosi violentemente a me sulla
stessa linea. La sua posizione non era determinata da un'analisi profonda delle
conseguenze che questo problema avrebbe avuto nel partito, ma soltanto dalla
paura che egli aveva di lasciarvi la pelle. Era mosso soltanto dal desiderio di
sfuggire a ogni responsabilità per questo era avvenuto. Se erano stati commessi
dei crimini, Kaganovic voleva essere convinto che non venissero scoperte le sue
colpe. L'assoluta chiusura degli archivi nei paesi comunisti, il costante
controllo della stampa, dei mass media e di tutte le vie di comunicazione con
l’estero, i propagandati «successi» del regime, tutto questo dispositivo di
blocco dell'informazione mirava in primo luogo a impedire che si facesse
chiarezza sui crimini.
Non contenti di nascondere i loro misfatti, i carnefici hanno
combattuto con tutti i mezzi gli uomini che tentavano di informare l'opinione
pubblica. Diversi osservatori e analisti hanno infatti tentato di aprire gli
occhi ai loro contemporanei. Dopo la seconda guerra mondiale, ciò fu
particolarmente evidente in due occasioni in Francia. Dal gennaio all'aprile
del 1949 si tenne a Parigi il processo che oppose Viktor Kravcenko - ex alto
funzionario sovietico che aveva scritto “Ho scelto la libertà”, in cui
descriveva la dittatura stalinista - al giornale comunista diretto da Louis
Aragon, «Les lettres francaises», che lo copriva di insulti. Dal novembre del
1950 al gennaio del 1951 si tenne sempre a Parigi, un altro processo fra «Les
lettres francaises» e David Rousset, un intellettuale ex trotzkista, che era
stato deportato in Germania dai nazisti e che, nel 1946, aveva ricevuto il
premio Renaudot per il libro “L'univers concentrationnaire”. Il 12 novembre
1949 Rousset aveva rivolto un appello a tutti gli ex deportati dei campi
nazisti perché formassero una commissione d'inchiesta sui campi sovietici ed
era stato violentemente attaccato dalla stampa comunista, che ne negava
l'esistenza. In seguito all'appello di Rousset, il 25 febbraio 1950, in un
articolo sul «Figaro littéraire» intitolato Pourì l'encfuète sur les camps
soviétiques. Qui est pire, Satan ou Belzébuth?, Margaref Buber Neumann
raccontava della sua duplice esperienza di deportata nei campi nazisti e
sovietici.
Contro tutte
queste persone che lavoravano per illuminare le coscienze i carnefici hanno
messo in campo, in un combattimento a tappeto, tutto l'arsenale dei grandi
Stati moderni, in grado di intervenire nell'intero mondo. Hanno tentato di
squalificarli, di screditarli, di intimidirli. Aleksandr Solzenicyn, Vladimir
Bukovskij, Aleksandr Zinov'ev, Leonid Pijusc vennero espulsi dal paese; Andrej
Saharov, esiliato a Gor'kij; il generale Pèrr Gngor'enko rinchiuso in un
ospedale psichiatrico; Georgi Markov assassinato con un ombrello avvelenato.
Di fronte a un tale potere di intimidazione e di occultamento le
vittime stesse esitavano a mostrarsi ed erano incapaci di reinserirsi in una
società in cui i loro delatori e carnefici godevano di tutti gli onori. Vasilij
Grossman descrive questa disperazione. A differenza della tragedia degli ebrei
- in cui la comunità ebraica internazionale si è fatta carico della
commemorazione del genocidio - alle vittime del comunismo e ai loro eredi è
stato a lungo impossibile mantenere viva la memoria della tragedia, essendo
proibita qualsiasi commemorazione o richiesta di risarcimento.
Quando non riuscivano a nascondere certe verità - la pratica della
fucilazione, i campi di concentramento, le carestie indotte, i carnefici si
ingegnavano a giustificare i fatti, falsandoli grossolanamente. Dopo avere
rivendicato il Terrore, ne fecero l'allegoria della rivoluzione: «quando si
taglia la foresta, i trucioli volano», o «non si può fare la frittata senza
rompere le uova». Slogan, quest'ultimo, al quale Vladimir Bukovskij
controbatteva di avere visto le uova rotte, ma di non avere mai assaggiato la
frittata. Il massimo dell'aberrazione fu probabilmente raggiunto con lo stravolgimento
del linguaggio. Grazie alla magia del vocabolario, il sistema dei campi di
concentramento divenne un'opera di rieducazione e i carnefici educatori
impegnati a trasformare gli uomini della vecchia società in «uomini nuovi». Gli
zek - termine che indica i prigionieri dei campi di concentramento sovietici -
erano «pregati» con la forza di credere in un sistema che li asserviva. In Cina
il prigioniero del campo di concentramento è chiamato «studente»; deve studiare
il pensiero giusto del Partito e correggere il proprio pensiero sbagliato.
Come spesso accade, la menzogna non è il contrario, in senso stretto,
della verità e ogni menzogna si fonda su elementi di verità. I termini
stravolti dal loro significato si collocano in una visione falsata che deforma
la prospettiva d'insieme: si tratta di una forma di astigmatismo sociale e
politico. Ora, è facile correggere una visione distorta dalla propaganda
comunista, ma è assai difficile ricondurre chi vede da una prospettiva
sbagliata a una concezione intellettuale corretta. La prima impressione rimane
e si trasforma in pregiudizio. Da veri judoisti, grazie alla loro incomparabile
potenza propagandistica, largamente fondata sullo stravolgimento del
linguaggio, i comunisti hanno utilizzato la forza delle critiche rivolte ai
loro metodi terroristici per ritorcerla loro contro, rinsaldando ogni volta le
file dei loro militanti e simpatizzanti con il rinnovo dell'atto di fede
comunista. In tal modo hanno ritrovato il principio primo della fede
ideologica, formulato a suo tempo da Tertulliano: «Credo perché è assurdo».
Nell'ambito di queste operazioni di contropropaganda alcuni
intellettuali si sono letteralmente prostituiti. Nel 1928 Gor'kij accettò di
andare in «escursione» nelle isole Soloveckie, il campo di concentramento
sperimentale dal quale nascerà per «metastasi» (Solzenicyn) il sistema del
gulag. Dall'esperienza nacque un libro in lode di Soloveckie e del governo
sovietico. Uno scrittore francese, Henri Barbusse, premio Goncourt 1916, non
esitò, dietro pagamento, a incensare il regime stalinista pubblicando nel 1928
un libro sulla «meravigliosa Geòrgia» - dove, nel 1921, Stalin e il suo
accolito Ordzonikidze si erano dati a una vera e propria carneficina e dove
Berija, capo dell'NKVD, si distingueva per il suo sadico machiavellismo - e nel
1935 la prima biografia ufficiosa di Stalin. Più tardi, Maria Antonietta
Macciocchi ha tessuto le lodi di Mao e recentemente Danielle Mitterrand ha
fatto lo stesso con Fidel Castro. Cupidigia, debolezza, vanità, attrazione per
la forza e la violenza, passione rivoluzionaria: qualunque sia la motivazione,
le dittature totalitarie hanno sempre trovato gli adulatori di cui avevano
bisogno, e la dittatura comunista non ha fatto eccezione.
Di fronte alla propaganda comunista l'Occidente ha dato prova a lungo
di una straordinaria cecità, causata al tempo stesso dall'ingenuità nei
confronti di un sistema particolarmente perverso, dal timore della potenza
sovietica e dal cinismo dei politici e degli affaristi. La cecità ha regnato a
Jalta, quando il presidente Roosevelt ha abbandonato l'Europa dell'Est nelle
mani di Stalin in cambio della promessa, redatta con tutti i crismi, che
quest'ultimo vi avrebbe organizzato al più presto libere elezioni. Il realismo e
la rassegnazione hanno regnato a Mosca quando, nel dicembre 1944, il generale
De Gaulle ha barattato l'abbandono della sventurata Polonia nelle grinfie del
moloch con la garanzia della pace sociale e politica data da Maurice Thorez di
ritorno a Parigi. Questa cecità è stata alimentata, e quasi legittimata, dalla
convinzione dei comunisti occidentali e di molti uomini di sinistra che quei
paesi stessero «costruendo il socialismo», che quell'utopia che nelle
democrazie nutriva i conflitti sociali e politici «laggiù» stesse diventando
una realtà, di cui Simone Weil ha sottolineato il prestigio: «Gli operai
rivoluzionari sono felicissimi di avere dietro di loro uno Stato: uno Stato che
da alle loro azioni quel carattere ufficiale, quella legittimità, quella realtà,
che solo lo Stato conferisce, e che al tempo stesso è situato troppo lontano
(geograficamente parlando) per poterli disgustare». All'epoca il comunismo
mostrava la sua faccia luminosa si richiamava all'Illuminismo, a una tradizione
di emancipazione sociale e umana, al sogno dell'«uguaglianza reale» e della
«felicità per tutti» inaugurata da Gracchus Babeuf. E la faccia luminosa
occultava quasi totalmente quella oscura.
All'ignoranza, voluta o meno, della dimensione criminale del comunismo
si è aggiunta, come sempre, l'indifferenza dei contemporanei per i loro
fratelli. Non che l'uomo abbia il cuore arido. Anzi, in molte situazioni limite
sfodera risorse insospettate di solidarietà, amicizia, affetto e persino amore.
Ma, come sottolinea Tzvetan Todorov, «la memoria dei nostri lutti ci impedisce
di cogliere la sofferenza altrui». E, alla fine delle due guerre mondiali,
quale popolo europeo o asiatico non era occupato a curarsi le ferite di
innumerevoli lutti? Le difficoltà stesse incontrate in Francia nell'affrontare
la storia degli anni bui sono sufficientemente eloquenti. La storia, o
piuttosto la non storia, dell'occupazione continua, infatti, a tormentare la
coscienza francese. Lo stesso accade, anche se in misura minore, per la storia
del periodo nazista in Germania, fascista in Italia, franchista in Spagna, per
la guerra civile in Grecia ecc. In questo secolo di ferro e fuoco sono stati
tutti troppo presi dalle proprie disgrazie per compatire quelle altrui.
L'occultamento della dimensione criminale del comunismo rimanda,
tuttavia, a tre ragioni più specifiche. La prima riguarda l'attaccamento
all'idea stessa di rivoluzione. Il superamento dell'idea di rivoluzione quale
era stata concepita nel XIX e nel XX secolo è ancora lungi dall'essere
concluso. I suoi simboli - bandiera rossa. Internazionale, pugno chiuso -
risorgono ogni volta che compare un movimento sociale di una certa portata. Che
Guevara ritorna di moda. Diversi gruppi apertamente rivoluzionari continuano a
essere attivi e a operare nella piena legalità, trattando con disprezzo la
minima riflessione critica sui crimini dei loro predecessori e non esitando a
riesumare i vecchi discorsi giustificatori di Lenin, Trockij o Mao. Tale
passione rivoluzionaria non è stata solo degli altri. Diversi autori di questo
libro hanno, infatti, creduto alla propaganda comunista, un tempo.
La seconda ragione riguarda la partecipazione dei sovietici alla
vittoria sul nazismo, che ha permesso
ai comunisti di mascherare dietro un ardente patriottismo i loro fini ultimi,
che miravano alla presa del potere. Dal giugno 1941 i, comunisti di tutti i
paesi occupati sono entrati in una resistenza attiva, e spesso armata,
all'occupante nazista e italiano. Come i combattenti di altre fedi, hanno
pagato il prezzo della repressione con migliaia di uomini fucilati, massacrati,
deportati. E si sono serviti di questi martiri per rendere sacra la causa
comunista e impedire qualsiasi critica nei suoi confronti. Inoltre, durante la
Resistenza molti non comunisti hanno stretto legami di solidarietà, lotta,
parentela con comunisti, il che ha impedito a molti occhi di aprirsi. In
Francia l'atteggiamento dei gaullisti è stato spesso dettato da questa memoria
comune e incoraggiato dalla politica del generale De Gaulle, che usava l'Unione
Sovietica come contrappeso agli Stati Uniti.
La partecipazione dei comunisti alla guerra e alla vittoria sul
nazismo ha fatto definitivamente trionfare la nozione di antifascismo come
riprova della verità a sinistra e, naturalmente, i comunisti si sono posti come
i migliori rappresentanti e i migliori paladini dell'antifascismo. Quest'ultimo
è diventato per il comunismo un'etichetta definitiva, in nome della quale è
stato facile mettere a tacere i dissenzienti. Francois Furet ha scritto su
questo punto cruciale pagine illuminanti. Dato che il nazismo sconfitto era
stato bollato dagli Alleati come il Male assoluto, il comunismo è passato quasi
automaticamente nel campo del Bene. Ciò risultò evidente durante il processo di
Norimberga, in cui i sovietici figuravano fra i pubblici ministeri. Gli episodi
imbarazzanti dal punto di vista dei valori democratici, come i patti
germano-sovietici del 1939 o il massacro di Katyn', vennero quindi prontamente
insabbiati. La vittoria sul nazismo fu considerata la prova della superiorità
del sistema comunista. E soprattutto, nell'Europa liberata dagli
angloamericani, ebbe l'effetto di suscitare un senso di gratitudine nei
confronti dell'Armata rossa (di cui non si era dovuta subire l'occupazione) e
un senso di colpa di fronte ai sacrifici sopportati dai popoli dell'Unione
Sovietica, sentimenti che la propaganda comunista sfruttò debitamente a proprio
favore.
Parallelamente,
le modalità della liberazione dell'Europa dell'Est da parte dell'Armata rossa
rimasero largamente ignote all'Occidente, dove gli storici fecero propri due
tipi di liberazione molto diversi fra loro: uno conduceva alla restaurazione
delle democrazie, l'altro apriva la strada all'instaurazione delle dittature.
Nell'Europa centrale e orientale il sistema sovietico aspirava a succedere al
Reich millenario e Witold Gombrowicz espresse in poche parole il dramma di
questi popoli:
La fine della guerra non ha apportato la libertà ai polacchi. In
questa triste Europa centrale, ha significato soltanto lo scambio di una notte
con un'altra, dei carnefici di Hitler con quelli di Stalin. Nel momento in cui
nei caffè parigini le anime nobili salutavano con un canto radioso
«l'emancipazione del popolo polacco dal giogo feudale», in Polonia la stessa
sigaretta accesa passava semplicemente di mano e continuava a bruciare la pelle
umana.
Qui sta il punto di frattura fra due memorie europee. Eppure, fin dai
primi tempi, alcune opere hanno rivelato il modo in cui l'URSS ha liberato dal
nazismo polacchi, tedeschi, cechi e slovacchi.
L'ultima ragione dell'occultamento è più sottile e più delicata da
esprimere. Dopo il 1945 il genocidio degli ebrei è apparso come il paradigma
della barbarie moderna, fino a monopolizzare lo spazio riservato alla
percezione del terrore di massa nel XX secolo. Dopo avere negato in un primo
tempo la specificità della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, i
comunisti hanno capito quanto un simile riconoscimento da parte loro potesse
servire a riattivare l'antifascismo. Da allora, a qualsiasi proposito e spesso
anche a sproposito, non si è mai più smesso di agitare lo spettro della «bestia
immonda, il cui ventre è sempre fecondo», secondo il famoso slogan di Bertolt
Brecht. Più recentemente, il fatto di aver messo in evidenza la singolarità del
genocidio degli ebrei, sottolineandone l'eccezionale atrocità ha impedito di
percepire altre realtà dello stesso tipo nel mondo comunista. E noi, come si
poteva immaginare che coloro che con la loro vittoria avevano contribuito a
distruggere un sistema genocida potessero a loro volta adottare quei metodi? La
risposta più comune fu il rifiuto di ammettere un simile paradosso.
La prima grande svolta nel riconoscimento ufficiale dei crimini
comunisti risale al 24 febbraio 1956. Quella sera Nikita Hruscèv, primo segretario,
sale sulla tribuna del XX Congresso del Partito comunista dell'Unione
Sovietica, il PCUS. È una seduta a porte chiuse, a cui assistono soltanto i
delegati. In un silenzio assoluto, essi ascoltano attoniti il primo segretario
del Partito distruggere sistematicamente l'immagine del «piccolo padre dei
popoli», del «geniale Stalin», che per trent'anni era stato l'eroe del
comunismo mondiale. Questo rapporto, noto in seguito come il «rapporto
segreto», costituisce uno dei cambiamenti di rotta fondamentali del comunismo
contemporaneo. Per la prima volta un dirigente comunista di altissimo rango
ammetteva ufficialmente, benché a uso esclusivo dei comunisti, che il regime
che era salito al potere nel 1917 aveva conosciuto una «deriva» criminale. Le ragioni che spinsero Hruscèv a infrangere
uno dei principali tabù del regime sovietico sono molteplici. Il suo obiettivo
principale era di imputare i crimini del comunismo unicamente a Stalin e, in
questo modo, circoscrivere e rimuovere il male per salvare il regime. Nella sua
decisione rientrava anche la volontà di attaccare il clan degli stalinisti, che
si opponevano al suo potere in nome dei metodi del loro antico padrone. Fin
dall'estate del 1957, infatti, essi vennero tutti destituiti dalle loro
cariche. Ma, per la prima volta dal 1934, all'eliminazione politica non seguì
un'eliminazione reale, e da questo semplice particolare si può dedurre come le
motivazioni di Hruscèv fossero più profonde. Lui, che per anni era stato il
padrone incontrastato dell'Ucraina e a questo titolo aveva guidato e coperto
stragi immani, sembrava stanco di tutto quel sangue. Nelle sue memorie, in cui
indubbiamente intende fare bella figura, Hruscèv ricorda i suoi stati d'animo:
«II Congresso finirà e verranno votate delle risoluzioni proforma, ma cosa si
farà poi? Rimarranno sulla nostra coscienza le centinaia di migliaia di persone
che sono morte fucilate».
Tutt'a un tratto, apostrofa duramente i suoi compagni: Quali posizioni
assumeremo nei confronti di tutti coloro che sono stati arrestati o eliminati?
... Ora sappiamo che la gente che ha sofferto durante le repressioni era
innocente. Abbiamo prove inconfutabili che essi, lontani dall'essere nemici del
popolo, erano invece uomini e donne onesti, devoti al Partito, alla rivoluzione,
alla causa leninista e all'edificazione del socialismo e del comunismo in
Unione Sovietica. ... Penso che sia impossibile tacere ancora. Prima o poi la
gente uscirà dalle prigioni e dai carri, tornerà nelle città; e una volta a
casa, racconterà ai parenti, agli amici e ai compagni cos'è avvenuto. ...
Perciò abbiamo l'obbligo di fare una completa confessione ai delegati sulla
condotta tenuta dalla dirigenza del Partito durante gli anni in questione....
Come potremmo fingere d'ignorare quel che avvenne? ... Sappiamo che ci fu un
regime di repressione e leggi arbitrarie nel Partito e noi abbiamo il dovere di
dire al Congresso quel che sappiamo. ... Per chiunque abbia commesso un
crimine, giunge sempre il momento in cui una confessione gli può assicurare l'indulgenza
anche se non l'assoluzione. In alcuni degli uomini che avevano preso parte
attiva ai crimini perpetrati durante il regime di Stalin e che, perlopiù,
dovevano la promozione all'eliminazione dei loro predecessori, si faceva strada
un certo rimorso; un rimorso sicuramente indotto, interessato, un rimorso da
politico, ma in ogni caso un rimorso. Bisognava pure che qualcuno fermasse il
massacro; Hruscèv ebbe questo coraggio, anche se, nel 1956, non esitò a mandare
i carri armati sovietici a Budapest. Nel 1961, durante il XXII Congresso del
PCUS, Hruscèv ricordò non soltanto le vittime comuniste, ma tutte le vittime di
Stalin e propose persino di erigere un monumento in loro memoria. Probabilmente
aveva superato il limite invisibile al di là del quale si rimetteva in
discussione il principio stesso del regime: il monopolio del potere assoluto
riservato al Partito comunista. Il monumento non vide mai la luce. Nel 1962 il
primo segretario autorizzò la pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic,
di Aleksandr Solzenicyn. Il 24 ottobre 1964 venne brutalmente destituito da
tutte le sue funzioni ma nemmeno lui fu liquidato e morì nell'anonimato nel
1971.
Tutti gli studiosi riconoscono l'importanza decisiva del «rapporto
segreto», che impresse una svolta fondamentale alla traiettoria del comunismo
del XX secolo. Francois Furet, che era uscito dal Partito comunista francese
nel 1954, scrive a questo proposito: Appena reso noto, il «rapporto segreto»
del febbraio 1956 sconvolge improvvisamente lo statuto dell'idea comunista nel
mondo. La voce che denuncia i crimini di Stalin non viene più dall'Occidente,
ma da Mosca e dal sancta sanctorum di Mosca, il Cremlino. Non è più quella di
un comunista messo al bando, ma del primo dei comunisti nel mondo, il capo del
partito dell'Unione Sovietica. Non è più lambita dal sospetto che colpisce il
discorso degli ex comunisti, ma è rivestita dell'autorità suprema che il
sistema ha assegnato al suo capo. ... L'enorme impatto del «rapporto segreto»
nasce dal fatto di non avere contraddittori.
L'evento era
tanto più paradossale in quanto, fin dall'origine, molti contemporanei avevano
messo in guardia i bolscevichi contro i pericoli del loro modo di procedere.
Fin dal 1917-1918, infatti, all'interno dello stesso movimento socialista si
erano scontrati coloro che credevano nella «grande luce dell'Est» e coloro che
criticavano implacabilmente i bolscevichi. La disputa verteva essenzialmente
sul metodo di Lenin: violenza, crimini e terrore. Mentre dagli anni Venti agli
anni Cinquanta il lato oscuro dell'esperienza bolscevica è stato denunciato da
molti testimoni, vittime e osservatori qualificati, in numerosi libri e
articoli, bisognerà aspettare che gli stessi comunisti al potere riconoscano,
sia pur limitatamente, questa realtà perché una porzione sempre più estesa
dell'opinione pubblica cominci a prendere coscienza del dramma. Un
riconoscimento parziale, poiché il «rapporto segreto» affrontava soltanto la
questione delle vittime comuniste; ma un riconoscimento comunque, che costituiva
una prima conferma delle testimonianze e degli studi precedenti e rafforzava un
sospetto diffuso da tempo: il comunismo aveva provocato in Russia un'immensa
tragedia. I dirigenti di molti «partiti fratelli» non furono immediatamente
convinti che bisognasse imboccare la via delle rivelazioni. Di fronte al
precursore Hruscèv passarono persino per retrogradi: si dovette attendere il
1979 perché il Partito comunista cinese distinguesse nella politica di Mao
«grandi meriti», fino al 1957, e «grandi errori» successivamente. I vietnamiti
affrontano la questione solo attraverso la condanna del genocidio perpetrato da
Pol Fot. Fidel Castro, invece, nega le atrocità commesse sotto la sua egida.
Fino a quel momento la denuncia dei crimini comunisti era venuta
soltanto dai loro nemici o dai dissidenti trotzkisti o anarchici; e non era
stata particolarmente efficace. I superstiti dei massacri comunisti ebbero la
stessa fortissima volontà di testimonianza dei superstiti dei massacri nazisti,
ma vennero ascoltati poco o niente, soprattutto in Francia, dove l'esperienza
concreta del sistema dei campi di concentramento sovietici toccò direttamente
soltanto piccoli gruppi, come i «Malgré-nous» dell'Alsazia-Lorena. Perlopiù, le
testimonianze, i flash della memoria, i lavori delle commissioni indipendenti
create per iniziativa di pochi individui - quali la Commissione internazionale
sul regime dei campi di concentramento di David Rousset, o la Commissione per
la verità sui crimini di Stalin sono stati coperti dalla grancassa della
propaganda comunista, accompagnata da un silenzio vile o indifferente. Questo
silenzio, che succede generalmente a qualche momento di sensibilizzazione
dovuto alla comparsa di un'opera - Arcipelago Gulag di Solzenicyn - o di una
testimonianza più inconfutabile delle altre -I racconti di Kolyma di Varlam
Salamov o L'utopie meurtrière di Pin Yathay, è la manifestazione della
resistenza di porzioni più o meno estese delle società occidentali di fronte al
fenomeno comunista.
Esse si sono
finora rifiutate di guardare in faccia la realtà, di ammettere, cioè, che il
sistema comunista, pur in diversa misura, comporta una dimensione
fondamentalmente criminale. E con tale rifiuto partecipano della menzogna, nel
senso in cui la intende Nietzsche: «Rifiutare di vedere qualcosa che si vede
rifiutare di vedere qualcosa come lo si vede».
Nonostante tutte queste difficoltà ad affrontare la questione, molti
studiosi si sono cimentati nell'impresa. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta,
ma in mancanza di dati più attendibili, accuratamente occultati dal regime
sovietico, la ricerca si è basata
essenzialmente sulle testimonianze dei transfughi. Suscettibili di essere
nutrite dalla vendetta e dalla denigrazione sistematica, o di essere manipolate
da un potere anticomunista, queste testimonianze - contestabili da parte degli
storici, come qualsiasi testimonianza venivano regolarmente screditate dagli
incensatori del comunismo. Che cosa bisognava pensare, nel 1959, della
descrizione del gulag da parte di un transfuga d'alto rango del KGB, così come
veniva riportata in un libro di Paul Barton?
E che cosa
pensare dello stesso Paul Barton, il cui vero nome era Jiri Veltrusky,
anch'egli esiliato e organizzatore insieme ad altri dell'insurrezione
antinazista di Praga nel 1945, costretto a fuggire dal suo paese nel 1948? Ora,
il confronto con gli archivi ormai aperti dimostra che quell'informazione del
1959 era assolutamente attendibile.
Negli anni Settanta e Ottanta la grande opera di Solzenicyn Arcipelago
Gulag provocò un vero e proprio shock nell'opinione pubblica. Si trattò
probabilmente di uno shock letterario, dovuto alla genialità del cronista, più
che della presa di coscienza generale dell'orribile sistema che egli
descriveva. Eppure Solzenicyn faticò ad abbattere, il muro della menzogna, lui
che nel 1975 era stato paragonato da un giornalista di un grande quotidiano
francese a Pierre Lavai, Doriot e Déat «che accoglievano i nazisti come
liberatori».
La sua
testimonianza è stata, tuttavia, decisiva per una prima presa di coscienza,
come lo furono quelle di Salamov sulla Kolyma o quella di Fin Yathay sulla
Cambogia. Più recentemente ancora, Vladimir Bukovskij, una delle principali
figure della dissidenza sovietica all'epoca di Breznev, ha lanciato un nuovo
grido di protesta richiedendo, nel libro Jugement a Moscou, l'istituzione di un
nuovo tribunale di Norimberga per giudicare le attività criminali del regime.
Il saggio, in Occidente, è stato accolto con favore dalla critica, ma ha avuto
uno scarso successo di pubblico. Contemporaneamente si assiste a una fioritura
di opere che riabilitano Stalin.
Quale
motivazione, sul finire di questo XX secolo, può spingere all'esplorazione di
un campo così tragico, così cupo, così polemico? Oggi gli archivi non soltanto
confermano queste testimonianze puntuali, ma permettono di andare molto più in
là. Gli archivi interni del sistema di repressione dell'ex Unione Sovietica,
delle ex democrazie popolari e della Cambogia mettono in luce una realtà
terribile: il carattere massiccio e sistematico del terrore che, in molti casi,
è sfociato nel crimine contro l'umanità. E giunto il momento di affrontare in
modo scientifico, documentato con fatti inconfutabili e libero da implicazioni
politico-ideologiche, il problema ricorrente che tutti gli osservatori si sono
posti: che ruolo ha il crimine nel sistema comunista? In questa prospettiva,
quale può essere il nostro apporto scientifico? Il nostro intervento risponde
in primo luogo a un dovere di storia. Per lo storico nessun tema è tabù e le
implicazioni e pressioni di qualunque tipo - politiche, ideologiche, personali
- non devono impedirgli di seguire la strada della conoscenza, dell'esumazione
e dell'interpretazione dei fatti, soprattutto quando questi ultimi siano stati
a lungo e volontariamente sepolti nel segreto degli archivi e delle coscienze.
Ora, questa storia del terrore comunista costituisce una delle componenti
principali di una storia europea che voglia esaurire completamente la grande
questione del totalitarismo. Quest'ultimo ha conosciuto una versione hitleriana
ma anche una versione leninista e stalinista, e non si può più accettare una
storia incompleta, che ignori il versante comunista. Così come non si può più
assumere la posizione di ripiegamento che consiste nel ridurre la storia del
comunismo unicamente alla dimensione nazionale, sociale e culturale. Tanto più
che questa partecipazione al fenomeno totalitario non si è limitata all'Europa
e all'episodio sovietico, ma ha toccato anche la Cina maoista, la Corea del
Nord e la Cambogia di Poi Pot.
Il comunismo
nazionale è stato tenuto legato con una sorta di cordone ombelicale alla
matrice russa e sovietica, pur contribuendo a diffondere il movimento a livello
mondiale. La storia che abbiamo di fronte è quella di un fenomeno che si è
sviluppato in tutto il mondo e che riguarda tutta l'umanità. II secondo dovere
al quale risponde quest'opera è un dovere di memoria. È un obbligo morale
onorare la memoria dei morti, soprattutto quando sono le vittime innocenti e
anonime di un moloch dal potere assoluto che ha cercato di cancellarne persino
il ricordo. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del centro del
potere comunista a Mosca, l'Europa, matrice delle esperienze tragiche del XX
secolo, sta ricomponendo una memoria comune; anche noi possiamo portare il
nostro contributo. Gli autori di questo libro sono essi stessi latori di questa
memoria: chi più vicino all'Europa centrale per vicende di vita personale, chi
all'idea e alla pratica rivoluzionaria per via di un impegno politico
contemporaneo al Sessantotto o più recente. Questo doppio dovere, di memoria e
di storia, si iscrive in ambiti molto diversi. In alcuni casi tocca paesi in
cui il comunismo non ha praticamente mai avuto peso, ne sulla società ne sul
potere: Gran Bretagna, Austria, Belgio ecc. In altri, si manifesta in paesi in
cui il comunismo è stato una potenza temuta - gli Stati Uniti dopo il 1946 - o
temibile, anche se non è mai salito al potere: Francia, Italia, Spagna, Grecia,
Portogallo. In altri casi ancora, si impone con forza in paesi in cui il
comunismo ha perso il potere che aveva detenuto per diversi decenni: Europa
dell'Est, Russia. Infine, vacilla pericolosamente laddove il comunismo è ancora
al potere: Cina, Corea del Nord, Cuba, Laos e Vietnam.
L'atteggiamento
dei contemporanei di fronte alla storia e alla memoria è diverso in ognuna di
queste situazioni. Nei primi due casi essi si limitano a un processo
relativamente semplice di conoscenza e di riflessione. Nel terzo caso si
trovano di fronte alle necessità imposte dalla riconciliazione nazionale, con o
senza punizione dei carnefici; a questo proposito, la Germania riunificata
offre probabilmente l'esempio più sorprendente e «miracoloso»; si pensi al
disastro iugoslavo. Ma anche la Cecoslovacchia, diventata Repubblica ceca e
Slovacchia, la Polonia e la Cambogia conoscono bene le sofferenze della memoria
e della storia del comunismo. Un certo grado di amnesia, spontanea o ufficiale,
può sembrare indispensabile per curare le ferite morali, psichiche, affettive,
personali e collettive provocate da più di mezzo secolo di comunismo. Laddove
quest'ultimo è ancora oggi al potere, i carnefici o i loro eredi o organizzano
una negazione sistematica, come a Cuba o in Cina, o addirittura continuano a
rivendicare il terrore quale metodo di governo, come nella Corea del Nord.
Questo dovere
di storia e di memoria ha innegabilmente una portata morale. Qualcuno potrebbe,
però, obiettarci: «Chi vi autorizza a definire il Bene e il Male?».
Secondo i criteri che le sono propri, esattamente a questo mirava la
Chiesa cattolica quando papa Pio XI condannò con due encicliche distinte,
pubblicate a pochi giorni di distanza l'una dall'altra: il nazismo, Mit
brennender Sorge del 14 marzo 1937, e il comunismo, Divini Redemptoris del 19
marzo 1937.
Quest'ultima
affermava che Dio aveva dotato l'uomo di prerogative: «Il diritto alla vita,
all'integrità del corpo, ai mezzi necessari all'esistenza; il diritto di
tendere al suo fine ultimo nella via tracciata da Dio; il diritto d'associazione,
di proprietà e il diritto di valersi di questa proprietà». È anche se si può
denunciare una certa ipocrisia della Chiesa, che avallava l'arricchimento
eccessivo di alcuni in virtù dell'espropriazione di altri, il suo appello al
rispetto della dignità umana rimane comunque essenziale.
Già nel 1931,
nell'enciclica Quadragesima anno, Pio XI aveva scritto:
È insito nell'insegnamento e nell'azione del comunismo un doppio
obiettivo, che esso persegue non in segreto e per vie traverse, ma apertamente,
alla luce del sole e con tutti i mezzi, anche i più violenti: una lotta di
classe implacabile e la totale scomparsa della proprietà privata. Nel
perseguire questo scopo, non c'è nulla che non osi, nulla che rispetti; laddove
ha preso il potere, si dimostra selvaggio e disumano a un livello che si stenta
a credere e che ha del prodigioso, come testimoniano i terribili massacri e le
rovine che ha accumulato in immensi paesi dell'Europa orientale e dell'Asia.
L'ammonimento era particolarmente significativo, in quanto proveniva
da un'istituzione che, per secoli e in nome della sua fede, aveva giustificato
il massacro degli Infedeli, sviluppato l'Inquisizione, imbavagliato la libertà
di pensiero e che avrebbe appoggiato regimi dittatoriali come quello di Franco
o di Salazar.
Tuttavia, se la Chiesa nel dire questo non faceva che tener fede al
proprio ruolo di censore morale, quale deve, quale può essere il discorso dello
storico di fronte al racconto eroico dei partigiani del comunismo o a quello
patetico delle sue vittime? Nelle Memorie d'oltretomba Francois Rene de
Chateaubriand scriveva:
Quando, nel silenzio dell'abiezione, si sente rimbombare soltanto la
catena dello schiavo e la voce del delatore; quando tutto trema di fronte al
tiranno, e incorrere nel suo favore è altrettanto pericoloso che meritarne la
disgrazia, appare lo storico, incaricato della vendetta dei popoli. Invano
Nerone prospera, nell'impero è già nato Tacito.
Lungi da noi l'idea di farci sostenitori dell'enigmatica «vendetta dei popoli», alla quale nemmeno Chateaubriand credeva più alla fine della sua vita; ma, al suo modesto livello, lo storico diventa, quasi senza volerlo, il portavoce di coloro che a causa del Terrore, si sono trovati nell'impossibilità di dire la verità sulla loro condizione. È lì per fare opera di conoscenza: il suo primo dovere è stabilire fatti ed elementi di verità che diventeranno conoscenza.
Inoltre, il suo rapporto con la storia del comunismo è particolare: è costretto a farsi storiografo della menzogna. E, anche se l'apertura degli archivi gli fornisce i materiali indispensabili, deve stare continuamente all'erta, dal momento che molte questioni complesse sono, per loro natura, oggetto di controversie spesso viziate da secondi fini.
Tuttavia
questa conoscenza storica non può prescindere da un giudizio che dipende da
pochi valori fondamentali: il rispetto delle regole della democrazia
rappresentativa e, soprattutto, il rispetto della vita e della dignità umana. È
questo il metro con cui lo storico giudica gli attori della storia.
A queste ragioni generali, che stanno alla base di un lavoro di memoria e di storia, si è aggiunta per alcuni una motivazione personale. Alcuni autori di questo libro non sono stati estranei in passato al fascino del comunismo. Talvolta sono stati anche parte attiva, al loro modesto livello, del sistema comunista, sia nella versione ortodossa leninista-stalinista, sia in quelle annesse e dissidenti (trotzkista, maoista).
E se rimangono legati alla sinistra – e proprio in virtù di questo fatto - sono costretti a riflettere sulle ragioni della - loro cecità. Questa riflessione ha preso anche le vie della conoscenza, tracciate dalla scelta dei loro argomenti di studio, dalle loro pubblicazioni scientifiche e dalla loro collaborazione con diverse riviste: «La nouvelle alternative», «Communisme».
Questo libro è un ulteriore momento della loro riflessione. Una riflessione che continua a impegnarli in quanto hanno coscienza del fatto che non bisogna lasciare a un'estrema destra, sempre più presente, il privilegio di dire la verità; i crimini del comunismo vanno analizzati e condannati in nome dei valori democratici, non degli ideali nazionalfascisti.
Questo approccio implica un lavoro comparativo, dalla Cina all'URSS,
da Cuba al Vietnam. Per il momento non disponiamo di una documentazione
omogenea. In alcuni casi, gli archivi sono aperti, o semiaperti, in altri no.
Ma non ci è sembrata una ragione sufficiente per rimandare il lavoro; ne
sappiamo abbastanza, e da fonte «sicura», per lanciarci in un'impresa che, pur
non avendo alcuna pretesa di essere esauriente, si definisce pioniera e
desidera inaugurare un grande cantiere di ricerca e di riflessione. Abbiamo
dato avvio a una prima recensione di una quantità di fatti, a un primo approccio
che, una volta concluso, meriterà di essere sviluppato in ben altre opere. Ma
bisogna pur incominciare, puntando l'attenzione soltanto sui fatti più chiari,
più inconfutabili, più gravi. Questo libro contiene molte parole e
poche immagini. È questo uno dei punti critici dell'occultamento dei crimini
del comunismo: in una società mondiale ipermediatica, in cui per l'opinione
pubblica fa testo soltanto 1’immagine, fotografica o televisiva, disponiamo di
pochissime fotografie d’archivio sul gulag o il laogai, mentre sulla
dekulakizzazione o la carestia del Grande balzo in avanti non ne abbiamo
neanche una. I vincitori di Norimberga hanno potuto fotografare e filmare a
piacimento le migliaia di cadaveri del campo di Bergen-Belsen e le fotografie
scattate dai carnefici stessi, come quella del tedesco che spara a freddo su
una donna con il figlio in braccio, sono state ritrovate. Per il mondo
comunista, in cui il terrore era organizzato nel più rigoroso segreto, non
esiste niente di simile.
Il lettore non si accontenti dei pochi documenti iconografici qui riuniti. Dedichi il tempo necessario a prendere coscienza, pagina dopo pagina, del calvario subito da milioni di uomini. Compia l'indispensabile sforzo mentale per rappresentarsi ciò che fu quest'immensa tragedia che continuerà a segnare la storia mondiale per i decenni a venire. Gli si porrà, allora, il quesito fondamentale: perché? perché Lenin, Trockij, Stalin e gli altri hanno ritenuto necessario sterminare tutti coloro che definivano nemici? Perché si sono creduti autorizzati a infrangere il codice non scritto che regola la vita dell'umanità: «Non uccidere»? Tenteremo di rispondere a questa domanda alla fine del libro.