Fukuyama
non abbisogna di presentazioni. La sua autorevolezza è indiscussa. ne
proponiamo un interessante riflessione sulla compatibilità tra Islam e
democrazia. Il grassetto è stato aggiunto da noi.
La fine della Storia dopo l'11 settembre
di
FRANCIS FUKUYAMA (docente di economia politica internazionale presso la John
Hopkins School of Advanced International Studies)
"UN
FIUME di commentatori ha affermato a più riprese che la tragedia dell'11
settembre è la dimostrazione che ero totalmente in errore quando, più di dieci
anni fa, sostenevo che eravamo ormai giunti alla fine della storia.
Il
coro è iniziato quasi immediatamente, con George Will a dire che la storia era
tornata dalle vacanze e Fareed Zakaria ad annunciare la fine della fine della
storia.
All'apparenza
è insensato ed offensivo della memoria di coloro che sono morti l'11 settembre,
e di chi oggi prende parte alle incursioni militari sull'Afghanistan,
dichiarare che questo attacco senza precedenti non si è elevato a livello di
evento storico.
Ma
il senso in cui utilizzai a suo tempo il termine "storia" era diverso.
Si riferiva al progresso dell'umanità attraverso i secoli verso la modernità,
caratterizzata da istituzioni quali la democrazia liberale ed il capitalismo.
La
mia riflessione, nel 1989 alla vigilia del crollo del comunismo, era che
sembrava che questo processo evolutivo stesse portando parti sempre più vaste
del mondo verso la modernità.
E
che oltre la democrazia liberale e i mercati non vedevamo nulla verso cui poter
pensare di evolverci. Da qui la fine della storia. Nonostante la presenza di
zone retrograde che opponevano resistenza al processo, era difficile immaginare
una civiltà alternativa in cui le persone volessero realmente vivere, in
particolare dopo che il socialismo, la monarchia, il fascismo ed altre forme di
governo autoritarie erano state screditate.
Questa
opinione è stata contestata da molti e forse nella maniera più chiara da Samuel
Huntington. Egli sosteneva che piuttosto che progredire verso un singolo
sistema globale, il mondo restava impantanato in uno "scontro di
civiltà", in cui sei o sette grandi gruppi culturali coesistono senza
convergere e costituiscono le nuove linee di frattura del conflitto globale.
Poiché
l'attacco perfettamente riuscito al centro del capitalismo globale è stato
chiaramente perpetrato da estremisti islamici contrari all'esistenza stessa
della civiltà occidentale, gli osservatori hanno utilizzato pesantemente la
tesi dello «scontro» di Huntington a scapito della mia teoria della «fine della
storia».
Credo
che alla fine continuerò ad avere ragione io. La modernità è un treno merci
molto potente che non verrà deragliato dagli eventi recenti, per quanto
dolorosi e senza precedenti. La democrazia e i liberi mercati continueranno ad
espandersi nel tempo come principi di organizzazione dominanti per gran parte
del mondo. Ma vale la pena riflettere su quale sia lo scopo reale della sfida
attuale.
Sono
sempre stato convinto che la modernità ha una base culturale. La democrazia
liberale e i liberi mercati non funzionano ovunque e in ogni tempo.
Funzionano
al meglio in società con determinati valori, le cui origini possono anche non
essere completamente razionali. Non è un caso che la democrazia liberale
moderna sia emersa prima nell'occidente cristiano, perché l'universalismo dei
diritti democratici può essere visto sotto molti aspetti come forma secolare
dell'universalismo cristiano.
L'interrogativo
fondamentale sollevato da Huntington è se le istituzioni della modernità siano
destinate a funzionare solo in occidente o se possiedano un richiamo in qualche
modo più vasto che permetterà loro di avanzare nelle società non occidentali.
Io credo che lo abbiano. Lo prova il progresso che la democrazia e i liberi
mercati hanno realizzato in regioni come l'Asia orientale, l'America Latina,
l'Europa ortodossa e l'Asia meridionale. Ne danno prova anche i milioni di
immigrati del terzo mondo che ogni anno «votano con i piedi», esprimono cioè il
proprio dissenso scegliendo di andarsene a vivere nelle società occidentali e
assimilare col tempo i valori occidentali.
Ma
sembra che l'Islam, o quanto meno l'Islam fondamentalista, abbia qualcosa che
rende le società musulmane particolarmente ostili alla modernità. Tra tutti i
sistemi culturali contemporanei, il mondo islamico è quello che vanta il numero
minore di democrazie (solo la Turchia ha questo titolo) e non include neppure
un paese che sia passato dallo status di Terzo mondo a quello di Primo mondo,
come la Corea del Sud e Singapore.
Molti
tra i non occidentali prediligono la parte economica e tecnologica della
modernità e si augurano di ottenerla senza dover accettare anche le politiche
democratiche o i valori culturali occidentali (ne sono esempio la Cina e
Singapore). Altri apprezzano entrambe le versioni, politica ed economica, ma
non riescono semplicemente a capire come realizzarle (è il caso della Russia).
Per questi paesi la transizione verso la modernità potrebbe essere lunga e
dolorosa, ma non esistono barriere culturali insuperabili che possano impedire
loro di raggiungere l'obiettivo.
L'Islam,
invece, è l'unico sistema culturale che sembra produrre regolarmente gente come
Osama Bin Laden o i Taliban che rifiutano in toto la modernità.
Si
pone a questo punto l'interrogativo di quanto questi personaggi siano
rappresentativi della più ampia comunità musulmana.
La
risposta che hanno dato i politici orientali ed occidentali dopo l'11 settembre
è che coloro che simpatizzano per i terroristi rappresentano una
"ristretta minoranza" dei musulmani.
È
importante che lo affermino, per evitare che i musulmani come gruppo diventino
bersaglio di odio. Il problema è che l'avversione e l'odio per l'America sono
palesemente molto più diffusi.
Di
certo il numero degli individui pronti a intraprendere missioni suicide e a
cospirare attivamente contro gli Usa è ristretto, ma la simpatia nei loro
confronti, il sentimento di «Schadenfreude» vedendo crollare le torri, un senso
immediato di soddisfazione perché gli Usa stavano ricevendo quello che
meritavano, seguito solo più tardi da espressioni proforma di disapprovazione,
caratterizzano ben più di una "ristretta minoranza" di musulmani,
estendendosi dalla classe media di paesi come l'Egitto fino agli immigrati in
Occidente.
Questa
avversione e quest'odio allargati rappresentano a quanto pare qualcosa di più
profondo che una semplice opposizione alle politiche americane quali il
sostegno a Israele, e racchiudono un astio rivolto alla società che vi sta alla
base.
Forse,
come hanno sostenuto molti commentatori, l'astio nasce dal rancore per il
successo occidentale e il fallimento musulmano.
Ma
piuttosto che psicanalizzare il mondo musulmano ha più senso chiedersi se il
fondamentalismo islamico costituisca una seria alternativa alla democrazia
liberale moderna.
Persino
agli occhi degli stessi musulmani l'Islam politico ha dimostrato di possedere
molta più attrattiva in astratto che nella realtà.
Dopo
23 anni di governo da parte di religiosi fondamentalisti, la maggioranza degli
iraniani, in particolare quasi tutti gli individui sotto i 30 anni, vorrebbero
vivere in una società molto più liberale.
Non
tutto l'odio antiamericano che è stato chiamato a raccolta si traduce in un
programma politico praticabile che le società musulmane saranno in grado di
seguire negli anni a venire.
Restiamo
alla fine della storia perché c'è solo un sistema che continuerà a dominare le
politiche mondiali, quello dell'occidente liberale e democratico.
Questo
non implica un mondo privo di conflitti o la scomparsa della cultura come
caratteristica distintiva delle società.
Ma
il conflitto che affrontiamo non è lo scontro di varie culture uguali e
distinte in lotta tra di loro, come le grandi potenze dell'Europa del XIX
secolo.
Lo
scontro consiste in una serie di azioni di retroguardia da parte di società la
cui tradizionale esistenza è in realtà minacciata dalla modernizzazione. La
forza della reazione riflette la severità di tale minaccia.
Ma
tempo e risorse stanno dalla parte della modernità e non mi sembra che oggi in
occidente manchi la volontà di prevalere. "
Copyright The Wall Street Journal / Dow Jones & Company, Inc.
2001