(f. de. b. ) Oriana Fallaci, con questo
straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo.
La nostra più celebre scrittrice (lei dice
scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte
dell’anno a Manhattan.
Non risponde al telefono, apre la porta di
rado, esce assai di meno. Non dà mai interviste.
Tutti ci hanno provato, nessuno c’è riuscito.
Isolata.
Ma la storia e il destino hanno voluto che il
centro della moderna apocalisse si aprisse, come una voragine dantesca, poco
distante dalla sua bella e letteraria abitazione.
L’onda d’urto di quella mattina dell’11
settembre ha sconvolto anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana.
Apre la porta, gesto inconsueto del quale
sembra meravigliarsi...
Lo sguardo è dolce e insieme feroce.
Oriana lavora da anni a un’opera molto
importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine
solo apparente, con fervore guerresco.
Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva
visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli
emozioni, pensieri. «Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima», aveva
scritto qualche anno fa.
E’ ancora vero, verissimo. Pensieri forti.
Dirompenti.
Su cui ragionare e riflettere. Sull’America,
sull’Italia, sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente quel che dice sulla
Patria). Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal
cuore, o meglio dal cervello attraverso il cuore.
«Qualcuno
queste cose doveva dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è
chiusa di nuovo. E non voglio riaprirla», sbotta.
I
suoi soliti artigli. Farà discutere. Eccome.
Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di
rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per
non mischiarmi alle cicale.
E lo faccio. Perché ho saputo che anche in
Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di
Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini.
Ammesso che chi fa una cosa simile possa
essere definito uomo, donna, bambino.
Ho saputo che alcune cicale di lusso,
politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali,
nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si
comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli
sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia
fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni
indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io
gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou
ieri ha ruggito: «Be angry. It's good to be angry, it's healthy. Siate
arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so.
Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin
Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un
detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta.
Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta io, quest'Apocalisse.
Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a
casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la
sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava.
La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni
poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli
orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L'ho
respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e
fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la
mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre,
anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora
ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non
funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi
cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco
fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di
terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la
fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo.
Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si
dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull'obiettivo,
si getta sull'obiettivo. Sicché ho capito.
Ho capito anche perché nello stesso momento
l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge.
«God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood!
Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda
torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro.
Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi
che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo.
Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio.
Non
ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda.
La
gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli
ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio.
Rompevano
i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da
un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente.
Agitando
le gambe e le braccia, nuotando nell'aria. Sì, sembravano nuotare nell'aria. E
non arrivavano mai.
Verso
i trentesimi piani, però, acceleravano.
Si
mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero
help-aiuto-help.
E
magari lo gridavano davvero.
Infine cadevano a sasso e paf! Sai, io
credevo d'aver visto tutto alle guerre.
Dalle
guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più.
Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno.
Però alle guerre io ho sempre visto la gente
che muore ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè
buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un ottantesimo o novantesimo o
centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che
esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri,
invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La
seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è sciolta proprio come un
panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m'è parso, in un
silenzio di tomba. Possibile?
C'era davvero, quel silenzio, o era dentro di
me?
Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre
visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento, duecento o trecento
morti. Al massimo, quattrocento.
Come a Dak To, in Vietnam. E quando il
combattimento è finito, gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non
credevo ai miei occhi.
Nella strage di Mexico City, quella dove
anch'io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti ne raccolsero almeno
ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono nell'obitorio, i
cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio. Bè,
nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto
in tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere
a piedi dagli ultimi piani ci voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo
conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?).
Gli americani non lo diranno mai. Per non
sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a
Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi.
E poi
le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son
troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra
sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè
macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono.
Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti
inutilizzati.
Che cosa sento per i kamikaze che sono morti
con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni
caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si
suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando
da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati
Pietri Micca che per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle
polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai
considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e
sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972.
(Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo
dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof).
Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso
il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una
morte che invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello
scudetto gli procurerà (credono) ammirazione.
E, nel caso di quelli che pregano Allah, un
posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano
le Urì.
Scommetto che sono vanesi anche fisicamente.
Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio
«Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana
(oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta
morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare prima d'andar a morire, quella
fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel
taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette
civettuole...
Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat
ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue.
Non mi ha mai perdonato né le roventi
differenze di opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su
di lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia».
Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla.
Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui
come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore.
Ergo,
non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio
se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli
eroi.
Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i
martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe
umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la
seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che
lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri
sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi?
Sono i passeggeri del volo che doveva
buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della
Pennsylvania perché loro si son ribellati!
Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso,
illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad
perpetuum.
Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma
che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush.
E nella sua camaleontica abilità di
smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso.
Io
sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.
Preferisco parlare dell'invulnerabilità che
tanti, in Europa, attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come
invulnerabilità?!?
Più una società è democratica e aperta, più è
esposta al terrorismo.
Più un paese è libero, non governato da un
regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono
avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa. E
che ora avvengono, ingigantiti, in America.
Non per nulla i paesi non democratici,
governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano
i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica e la
Cina Popolare, ad esempio.
La
Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso
Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso
Pakistan, ovviamente l'Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell'Africa.
Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura.
Serena come un neonato che dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata
perché scrivevo male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei,
invece, mi sono sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei
americani, addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A Washington,
no. Devo ammetterlo.
L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo
davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di «se»: è
sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina il mio
subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo?
Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore?
Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima torre
bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse quella sull'attentato? E perché
credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l'America è il
Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci
sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la
vulnerabilità dell'America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza,
dalla sua potenza, dalla sua modernità.
La solita storia del cane che si mangia la
coda.
Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica,
dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti.
Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani.
E quando un Mustafà o un Muhammed viene
diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di
frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757.
Nessuno gli proibisce d'iscriversi a
un'Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due
scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno.
Neppure se il governo teme che quel figlio di
Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua
e scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un
bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni
limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate
nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale.
Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della
modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e
l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono.
La sua scienza. La sua tecnologia.
Quei grattacieli impressionanti, così alti,
così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini
palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai
usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con
gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che
la guerra aerea l'hanno inventata loro.
O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel
Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella
scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in
pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra
millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il
reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come?
Con gli aerei, con la scienza, con la
tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo
ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le
principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando
aveva vent’anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di
Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni
d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto
demolitore.
La demolizione è una specialità americana.
Quando ci siamo incontrati t'ho visto quasi
stupefatto dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con cui gli americani
hanno affrontato quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono
continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’Europa e
in particolare dell’Italia sono ancora più gravi), l'America è un paese che ha
grosse cose da insegnarci.
E a proposito dell'eroica efficienza lasciami
cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi
italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un
oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al mondo intero.
E’ un grande anzi grandissimo sindaco,
Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno
incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro grandissimo sindaco
col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci
dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere
sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?».
Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no.
Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l'incarico
di sindaco e quello di ministro o deputato.
(C'è nessuno che mi ascolta nelle tre città
di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e
subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere
con gli altri. S'è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni
ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di
abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan.
Come abbia fatto, non lo so. E' malato come
me, pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui.
E, come me, fa finta d’essere sano: lavora lo
stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece...
Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si
lancia all'attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le
maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente
senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle.
Quanto all'ammirevole capacità di unirsi,
alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie
e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì,
che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto
intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di
Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito.
L'avevo annusata, sì, dopo l'assassinio di
Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante divisione
causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la
loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri
piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e
repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l'America»,
quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo
stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai nutrito
tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro
presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state ripetute con forza
da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York.
Lo stesso, quando sono state reiterate da
Lieberman, l'ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto
Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha
votato all'unanimità d'accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se
l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così
fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche
all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando
hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi,
vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria
carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia.
Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano,
si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse
saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la
colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del
governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati.
E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che
caratterizza gli americani.
Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in
Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato
a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due
torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso
o qualche dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli
domandi come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be
defeated. Posso permettermi d'essere esausto, non d'essere sconfitto».
Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di
mezz'età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre
Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare
il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese
totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha organizzata bene il Potere!».
In America, no. In America queste cose non le
organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli
disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono
tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono
neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la
Patria...
In inglese la parola Patria non c'è. Per dire
Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother
Land, Terra Madre. Native Land, Terra Nativa. O dire semplicemente My Country,
il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è.
E a
parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico
dell'America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che
stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè,
senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione.
Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono
Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto
sventolare tante bandiere rosse.
Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di
bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal
guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all'Unione
Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non
è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto
nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem.
Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa
nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard.
Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la
bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una
medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c'è una partita
internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il
grido Italia-Italia.
Eh! C'è una bella differenza tra un paese nel
quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e
basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio,
dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche
orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure
per raccogliere quel caffè macinato.
Il fatto è che l'America è un paese speciale,
caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno
nulla a che fare con la ricchezza eccetera.
Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima,
il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai
concepito: l'idea della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di
uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l'idea di libertà non era di moda.
L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti
Illuministi, di queste cose.
Non li trovavi che in un costosissimo librone
a puntate detto l'Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli
altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per
comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva
nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l'Illuminismo!
Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della
Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata
nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776.
(Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene
ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un paese speciale, un paese da invidiare,
inoltre, perché quell'idea venne capita da contadini spesso analfabeti o
comunque ineducati.
I
contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo
gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità.
The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri
Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John
Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come
giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che
i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i
Robespierre!
Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e
il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino
(ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco
s'eran letti Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti Seneca e
Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l'eran studiati come
nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso
che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l'italiano. (Lui diceva
«toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza.
Infatti con le duemila piantine di vite e le
mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel
1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro
scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene».
Quanto all'autodidatta Franklin, era un
genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico,
inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva
inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari,
questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e
comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra. Fecero la guerra
d'indipendenza, la Rivoluzione Americana.
Bè... Nonostante i fucili e la polvere da
sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di
sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e
coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno
dell'anima, il bisogno d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della
libertà anzi della libertà sposata all'uguaglianza. La Dichiarazione
d'Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo
evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali.
Che sono dotati dal Creatore di certi
inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla
Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli
Uomini devono istituire i governi...».
E
quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male
copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale
dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché?
Perché trasforma i sudditi in cittadini.
Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di
governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di cercare la propria
felicità.
Tutto il contrario di ciò che il comunismo
faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi,
e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un
regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo.
In quanto tale taglia le palle agli uomini. E
quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva
anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in
plebe. Rendeva tutti morti di fame.
Bè, secondo me l'America riscatta la plebe.
Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi,
intelligenti, poveri, ricchi.
Anzi i più plebei sono proprio i ricchi.
Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito
che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a
che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication.
Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi,
ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra
chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più
forte, di più potente, della plebe riscattata.
Ti rompi sempre le corna con la Plebe
Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi,
tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son
rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con
loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina
toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!».
Il guaio è che i vietnamiti non pregano
Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura.
Ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso.
E ragioni un po' e gli dia una mano.
Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la
godono a veder le immagini delle macerie e ridacchiano
bene-agli-americani-gli-sta-bene.
Sto parlando alle persone che pur non essendo
stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro
dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro
corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il
discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete
capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia.
Abituati come siete al doppio gioco, accecati
come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una
guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione,
forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad.
Guerra Santa.
Una guerra che non mira alla conquista del
nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre
anime.
Alla
scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del
nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare,
del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci… Non
capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se
non si combatte, la Jihad vincerà.
E
distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a
migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura
non bigotto.
E con
quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la
nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo!
Non
vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere
voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la
barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate
la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa
vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i
calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi,
perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare?
Non v'importa neanche di questo, scemi? Io
sono atea, graziaddio.
E non ho alcuna intenzione di lasciarmi
ammazzare perché lo sono.
Da
vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con questa
passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il
«Corriere».
Era
l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi,
d'una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze,
d'una laica senza tabù.
Ma
era anche l'articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di
una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po' troppe.
Feci
un ragionamento che suonava press'appoco così, vent'anni fa. «Che senso ha
rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o
presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la
nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace più di Omar Khayan». Apriti
cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!». Eh, furono gli stessi
progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi.
Del
resto quell'insulto me lo presi anche quando i sovietici invasero
l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che prima
di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi del
Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo bene.
E a
veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi.
Mi
pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però
bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li
ringrazio».
Riapriti
cielo. «Razzista, razzista!».
Nella
loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i
figli di Allah commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le
braccia e le gambe, rammenti? Un vizietto a cui s'erano già abbandonati in
Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei).
Non
volevano che lo dicessi, no. E pur di fare i progressisti applaudivano gli americani
che rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica riempivan di armi
l'eroico-popolo-afghano. Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo
Usama Bin Laden.
Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan!
I-russi-
devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan!
Bè, i russi se ne sono andati
dall'Afghanistan: contenti?
E
dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama Bin Laden sono arrivati a New
York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi
che componevano la banda dei diciannove kamikaze identificati: contenti?
Peggio:
ora qui si discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche,
biologiche, radioattive, nucleari.
Si dice che la nuova strage è inevitabile
perché l’Iraq gli fornisce il materiale.
Si parla di vaccinazioni, di maschere a gas,
di peste. Ci si chiede quando avverrà... Contenti?
Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se
ne fregano e basta. Tanto l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un
oceano... Eh, no, cari miei. No.
C'è
un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino dell'Occidente, la
sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L'America siamo noi.
Noi
italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi
ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi
spagnoli, noi greci, noi portoghesi.
Se
crolla l'America, crolla l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non
solo in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più.
(Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani
misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi».
E
Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»).
In
tutti i sensi crolliamo, caro mio.
E
al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci
ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella.
Neanche
questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha capito.
È
venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi.
Non
una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà
basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare. Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita
ufficiale.
Una
visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle due
torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi inconfessabile,
ma non s'è sbilanciato.
Durante l'intervista alla Cnn ben quattro
volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in qual
misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte Chirac ha
evitato una risposta. È sgusciato via come un'anguilla.
Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le
President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati
in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del
resto, neanche fra gli altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno
ne vedo in Italia dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun
complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere,
perdio!
Malgrado la paura della guerra, in ogni paese
d'Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin Laden.
In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove le
moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano
a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola di
San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno.
Mi spieghi, signor cavaliere: son così incapaci
i Suoi poliziotti e carabinieri?
Son così coglioni i Suoi servizi segreti? Son
così scemi i Suoi funzionari? E son tutti stinchi di santo, tutti estranei a
ciò che è successo e succede, i figli di Allah che ospitiamo?
Oppure a fare le indagini giuste, a
individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme
di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no.
Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di
avere paura. Chi non ha paura della guerra è un cretino.
E
chi vuol far credere di non avere paura alla guerra, l’ho scritto mille volte,
è insieme un cretino e un bugiardo.
Ma
nella Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in
cui aver paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di
coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa
tragedia, a me sembrano masochisti.
Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo
farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se
vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle
sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di
uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è
Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia, perdio.
C'è
l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della Democrazia. C'è
l'antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo concetto della Legge.
Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura.
I
suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue
strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato
(e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell'amore e della
giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che
mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d'accordo.
Che
mi ha oppresso per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e
dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei.
Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha
dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro
la nostra civiltà c'è il Rinascimento.
C'è Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo, c'è
Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven.
Su
su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale
noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita.
Guai
se fischi una canzonetta o mugoli il coro del Nabucco. E infine c'è la Scienza,
perdio.
Una
scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per
ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto.
Una scienza che ha inventato macchine
meravigliose. Il treno, l'automobile, l'aereo, le astronavi con cui siamo
andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato
la faccia di questo pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la
televisione, e a proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono
dire ciò che ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai.
Ed
ora ecco la fatale domanda: dietro all’altra cultura che c’è?
Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che
Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. (I Commentari su
Aristotele eccetera), Arafat ci trova anche i numeri e la matematica.
Di
nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che
la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi
nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria
corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti.
I
suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la
grafia dei numeri che anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata
concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia,
in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya...
I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci
hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da
millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le
rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora vediamo quali sono i
pregi che distinguono questo Corano. Davvero pregi?
Dacché
i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell'Islam non fanno
che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il Corano predica la pace e la
fratellanza e la giustizia.
(Del
resto lo dice anche Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i
ventiquattro milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che
sanno sugli eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden).
Ma allora come la mettiamo con la storia
dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente?
Come la mettiamo con la faccenda del chador
anzi del velo che copre il volto delle musulmane, sicché per dare una sbirciata
al prossimo quelle infelici devon guardare attraverso una fitta rete posta
all'altezza degli occhi? Come la mettiamo con la poligamia e col principio che
le donne debbano contare meno dei cammelli, che non debbano andare a scuola,
non debbano andare dal dottore, non debbano farsi fotografare eccetera?
Come la mettiamo col veto degli alcolici e la
pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano.
E non mi sembra mica tanto giusto, tanto
fraterno, tanto pacifico.
Ecco
dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al
mondo c'è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli
pare.
E
se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il
velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi,
peggio per loro.
Se
son così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore,
non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da
sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini
sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem.
Non
sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto
di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è vario».
Ma se pretendono d'imporre le stesse cose a
me, a casa mia... Lo pretendono.
Usama
Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che
dobbiamo convertirci all'Islam, che con le buone o con le cattive lui ci
convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo
non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le
carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la
morte di Usama Bin Laden.
Perché
gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in
Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti
stanno proprio in Occidente.
Nelle
nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della
tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare.
La
Crociata è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da
una fede e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di
Torquemada quando gestiva l'Inquisizione.
Infatti
trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Trattarli con
indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un
illuso.
***
Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo
ha conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia
Saudita, in Kuwait, in Libia, in Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in
Italia.
Lo
ha conosciuto, ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha
avuto raggelanti conferme.
Io
non dimentico mai quel che mi accadde all'ambasciata iraniana di Roma quando
chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi
presentai con le unghie smaltate di rosso.
Per
loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una prostituta da bruciare sul
rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente quel rosso.
E se
non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi tagliare a
loro... Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom, la città santa di
Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per
intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per mettermi il chador dovevo
togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e
naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione nell'automobile con la quale
ero giunta da Teheran.
Ma l'interprete me lo impedì. Lei-è-pazza,
lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi
all'ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l'ex Sala del
Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il Bambin
Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata dall'asino e dal bue.
Ma a un uomo e a una donna non sposati fra
loro il Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un
tratto la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe
strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per non
finire fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi)
che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l'interprete aveva una
moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la
poligamia, e io non volevo sposare nessuno.
Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola
e nient'affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non
volevo finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini. In tal dilemma
mi dibattevo e...
Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette.
Bè, allora il seguito di questo episodio non te lo racconto.
Per
farti piangere ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che finita la
guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca. Li giustiziarono sul campo
dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla
presenza di ventimila fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio.
Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar».
Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi
romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a
veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni.
Lo
so, lo so: in tutti i paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali
malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del
Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici.
Però
è trascorso parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i
figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno.
Dopo
i dodici giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello
condannato a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa
con gli scarponi da militare.
E
se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la cronaca dei giornalisti
francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me. Meglio: guardati
le fotografie che uno di essi scattò.
Comunque
il punto che mi preme sottolineare non è questo.
È che, concluso lo scempio, i ventimila
fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in maniera
scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un
corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando
Allah-akbar, Allah-akbar.
Li
distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a un tappeto
sanguinolento di ossa spiaccicate.
Oh,
potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare i
capelli in testa.
Su
quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo l'intervista tenne un comizio
a Qom per dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle donne.
Da
tale comizio ricavò un video che per mesi venne trasmesso alla televisione di
Teheran sicché, quando l'anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata
appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta.
Era
il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che,
sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto
europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello
inglese mi salvò.
O
di quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un
mitragliatore puntato alla testa.
Dio,
che gente!
I
soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè
il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico
dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein.
Ma
quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la
conclusione del mio ragionamento.
Una
conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la propria cultura, in
Italia, sta diventando peccato mortale.
E
visto che intimiditi dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono come
conigli.
Io
non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e
Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto.
Io
non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai
piedi dei loro minareti.
Quando
mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico
mai d'essere un'ospite e una straniera. Sto
attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono
normali e per loro inammissibili.
Li
tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o
ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione.
E
questo urlo di dolore e di sdegno io te l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi
immagini che non sempre mi davano le apocalittiche scene con le quali ho
incominciato il discorso.
A
volte invece di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante)
della gran tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e
smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia
città.
Una
tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li
ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’Europa e
non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti.
Mamme,
babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti
dei parenti.
Una
tenda situata accanto al bel palazzo dell'Arcivescovado sul cui marciapiede
tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee.
E
insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell'acqua con cui si
lavavano i piedi prima della preghiera.
Una
tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato
del Battistero con le porte d'oro del Ghiberti.
Una
tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini,
chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il
cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo.
E,
grazie alla consueta incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte tiene
quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica.
Grazie
a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che
puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono
delle campane.
Insieme
a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del
Battistero.
(Perbacco!
Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire
l'obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due
metri dal loro apparato urinario?)
Con
le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone
di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta
alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in
cacatoio. Lo sai bene.
Lo
sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere»,
ricordi?
Chiamai
anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò,
mi dette ragione.
«Ha
ragione, ha proprio ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o
non gli riuscì.
Chiamai
anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei
fiorentini che parlano con l'accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella
faccenda.
E
pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione,
sì».
Ma
per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che
urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò.
(Mi
risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i
cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e
in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema.
Chiamai
un simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro
poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio.
Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo.
Se
entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che
la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo,
e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette.
Così
finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel
giro di poche ore lui la levò.
Al
posto della tenda rimase soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume.
Però fu una vittoria di Pirro.
Lo
fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e
umiliano quella che era la capitale dell'arte e della cultura e della bellezza,
non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città:
gli
albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i
nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della
prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano.
Eh,
sì: sono tutti dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda.
Dentro
il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto.
Dinanzi
alla Loggia dell'Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla
Biblioteca Nazionale, all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto
si pigliano a coltellate o a revolverate.
Sui
Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori,
li finanziasse).
Sul
sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i
liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa
estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un'antica signora.
E
va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì
a mugulare sui suoi genitali).
Nelle
storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce.
Per
merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi
illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti
credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits,
conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto
vendere la roba-da-annusare).
E
guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde
quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua.
«Razzista,
razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone
gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un
Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le
dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?».
Se
lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la
mamma e la progenie.
«Razzista,
razzista!». E la gente sopporta, rassegnata.
Non
reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo:
«Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l'avete un po' d'orgoglio,
pecoroni?».
Succede
anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio.
Quella
Torino che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana.
Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove
i piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la
«merce» e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova.
Quella
Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati
sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma.
Quella
Roma dove il cinismo della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li
corteggia nella speranza d'ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c'è
lo stesso Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in
Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue
di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non
capisco.
Anziché
figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure
«mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno».
E
sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son
diventati talmente signorini.
Vanno
in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's.
Si
vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col
proletariato.
Ma
quelli di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno?
In
che modo suppliscono al bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato
italiano non fornisce più? Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere?
Bighellonando
e deturpando i nostri monumenti?
Pregando
cinque volte al giorno? E poi c'è un'altra cosa che non capisco. Se davvero son
tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il
viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia?
Chi
glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a
comprarsi il biglietto?
Non
glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è
solo una conquista di anime, è anche una conquista
di territorio?
Bè,
anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince.
Anche
se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è
nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno
che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova
Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio.
E
sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo.
Sbaglia,
soprattutto, chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia e
sull'Europa con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America nella seconda
metà dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del
Novecento.
Ora
ti dico perché.
Non
molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille
presidenti del Consiglio di cui l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh,
anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di
fibra partiva per l'America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No.
Non
è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici.
Il primo è che nella seconda metà
dell'Ottocento l'ondata migratoria in America non avvenne in maniera
clandestina e per prepotenza di chi la effettuava.
Furono gli americani stessi a volerla,
sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso.
«Venite,
venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo di
terra».
Ci
hanno fatto anche un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole
Kidman, e del quale m'ha colpito il finale.
La
scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca sul terreno
che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce la fanno. Gli
altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono.
Ch’io
sappia, in Italia non c'è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi
sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi.
Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi,
se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti.
Da
noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai
finanzieri che cercavano di rimandarli indietro.
Più
che d’una emigrazione s’è trattato dunque d’una invasione condotta all’insegna
della clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e
dolorosa.
È
arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari
tutti e due.
Io
non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le
piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti,
cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi.
Quelle
voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai
perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo
beffata dai ministri che ci dicevano:
«Vorremmo
rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi!
In
quelle piazze ve n’erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per
rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila,
prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto.
Il
secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe
anche uno scolaro delle elementari.
Per
esporlo bastano un paio di elementi. Uno: l’America è un continente. E nella
seconda metà dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via
all’immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della
popolazione si condensava negli stati dell’Est ossia gli stati dalla parte
dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era ancora meno gente.
La
California era quasi vuota. Beh, l’Italia non è un continente. È un paese molto
piccolo e tutt’altro che spopolato.
Due:
l’America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’Indipendenza si
svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci
perché la sua identità culturale non è ancora ben definita.
L’Italia,
al contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila
anni.
La
sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non
prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa
che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire:
io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro. C'entro, ahimé c'entro.
Che
mi piaccia o no, c'entro. E come farei a non entrarci?
Sono
nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi.
La
prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane.
Le
campane di Santa Maria del Fiore che all'Epoca della Tenda la vociaccia
sguaiata del muezzin soffocava.
È
in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta.
È
attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos'è l'architettura,
cos'è la scultura, cos'è la pittura, cos'è l'arte.
È attraverso
quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos'è il Bene,
cos'è il Male, e perdio...
Ecco:
vedi?
Ho
scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo, tutto il mio
ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte
del mio modo d'esprimermi.
Oddio,
mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo
là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di
pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta?
Sebbene
al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli
incominciando dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna,
sebbene coi preti io non ci vada proprio d'accordo e delle loro preghiere non
sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto.
Mi
accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi
dipinti o scolpiti.
Infatti
ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi.
Mi
danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le
nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe.
Si
o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della
mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni
ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica.
La
bisnonna valdese non l'ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì.
Quand'ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de'
Benci a Firenze, e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei
fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva
la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte
un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente
Madonne, niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo dell'incenso, e avrei
voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano.
Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana,
v'è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa.
Dacché
la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a
controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia
educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi
ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani
ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer).
Santiddio! (Ci risiamo).
Sto
dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico
di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo
aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio
perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale
non può sopportare un' ondata migratoria composta da persone che in un modo o
nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto
dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi
astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci
fosse, non glielo darei.
Perché
equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo,
Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o
male conquistati, la nostra Patria.
Significherebbe
regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo.
Io
sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana.
Io
la cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore
americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli
risposi: «Sir, io all'America sono assai legata.
Ci
litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata.
L'America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele.
Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non
dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e
Mussolini, oggi parlerei tedesco.
Non
dimentico mai che se non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi
parlerei russo. Gli voglio bene e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto
che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di
Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a
casa.
Mi
sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che
l'America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io
la patria ce l'ho già, Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia
mamma.
Sir,
io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la
cittadinanza americana».
Gli
risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che in
inglese mi traduco e basta.
Nello
stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua
straniera.
E
poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire
quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il
nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino.
Penso
solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a
guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola.
Teppisti
degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde
dell'Ottocento.
Tutta
piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi.
E
sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio
Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità
d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro.
La
custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati,
fucilati, decapitati.
Ammazzati
dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il
Risorgimento, col quel tricolore.
E
l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il
mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase
orrendamente sfregiato da un razzo austriaco.
Per
quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del
Carso.
Per
quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai
nazi-fascisti.
Per
quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io.
Nelle
file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici
anni.
Quando
l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della
Libertà, mi sentii così fiera.
Gesummaria,
ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi
spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no.
Mi
pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le
accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E
con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.
Naturalmente
la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia,
furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima
dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le
partite di calcio.
L'Italia
cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a
un divo o una diva di Hollywood venderebbero
la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono
migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato
sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene.
L'Italia
squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non
sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei
loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco.
L'Italia
ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la
terribile battuta di Ennio Flaiano:
«In Italia i fascisti si dividono in due
categorie: i fascisti e gli antifascisti».
Non
è nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la
consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si
dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»).
Non
è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano
nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto.
Sicché
agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli
domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali,
chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era
Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano
con la pupilla spenta e la lingua pendula.
Non
sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti
terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i
piccoli sciocchi.
Gli
inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti
mi odieranno per aver scritto la verità.
Tra
una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai
loro protetti cioè da Usama Bin Laden.
No, no: la mia Italia è un'Italia ideale.
È
l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito
Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di
Un'Italia
seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto.
E
quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata,
guai a chi me la
Guai
a chi me la ruba, guai a chi me la invade.
Perché,
che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco
Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo
stesso.
Che
per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.
Col
che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non
chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane.
Quello
che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La
coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito.
Ma
ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
Oriana
Fallaci