La
Moschea: informazione e riflessione
Mai come in queste settimane si è
parlato di moschee in Italia. Eppure sull'argomento continua a permanere una
cappa di genericità e approssimazione. L'autore di questo articolo è un
cristiano arabo nato in Egitto e insegna all'Istituto islamo-cristiano dell'Université
Saint-Joseph di Beirut fondata nel 1875.
Ha insegnato islamologia in varie università e l'insegna
attualmente a Roma (dal 1975) presso il Pontificio Istituto Orientale e il
Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica (PISAI). In quanto arabo, si
considera di cultura musulmana, anche se di fede cristiana. È cittadino
italo-egizio.
A.
Informazione
1. Quando si discute attorno
all'opportunità di costruire una moschea o di concedere terreni a questo scopo,
è necessario anzitutto non dare per scontata la conoscenza dell'oggetto della
discussione. La moschea non è una chiesa musulmana. È una moschea: ha la sua
funzione e le sue norme. C'è una tendenza, dovuta all'ignoranza dell'altro, a
pensare che, tutto sommato, l'altro è più o meno identico a me, o almeno
simile. Invece dobbiamo riconoscere l'altro come diverso, se non vogliamo
mentalmente annetterlo. Perciò si deve guardare all'islam per capire cosa è una
moschea.
2. Nella tradizione araba esistono
due termini per nominare la moschea: masgid (passato in spagnolo sotto la voce
"mosquita" e di là nelle lingue europee) e giâmi'. Quest'ultimo
vocabolo è il più diffuso nel mondo arabo-islamico. La prima parola deriva
dalla radice SGD che significa "prostrarsi", la seconda dalla radice
GM' che significa "radunare". La moschea (giâmi') è il luogo dove la
comunità si raduna, per sistemare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali,
culturali, politiche, come anche per pregare. Tutte le decisioni della comunità
si prendono nella moschea. Voler limitare la moschea a "un luogo di
preghiera" è fare violenza alla tradizione musulmana.
3. Il venerdì (yawm al-giumu'ah) è
il giorno nel cui la comunità si raduna (come l'indica il nome di giumu'ah). Si
raduna a mezzogiorno per la preghiera pubblica seguita dalla khutbah, cioè il
discorso, che non è una predica. Questo discorso affronta le questioni dell'ora
presente: politiche, sociali, morali, ecc. Il venerdì non è un giorno in cui
non si lavora, come il sabbato degli Ebrei o la domenica dei cristiani, ma il
giorno in cui i musulmani si ritrovano come comunità. Ancora oggi, in Arabia
Saudita, il venerdì è un giorno lavorativo; si chiudono i negozi solo all'ora del
raduno in moschea a mezzogiorno.
4. In molti paesi musulmani, e per
esempio in Egitto, il più popoloso paese musulmano arabo, tutte le moschee sono
sorvegliate il venerdì e le più importanti sono circondate dalla polizia
speciale. Il motivo è semplice: le decisioni politiche partono dalla moschea,
durante la khutbah del venerdì. Nella nostra storia musulmana, quasi tutte le
rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee. La jihâd,
cioè "la guerra sul cammino di Dio" (fî sabîl Allâh), obbligo di ogni
musulmano per difendere la comunità, è proclamata sempre nella moschea, alla
khutbah del venerdì. In alcuni paesi musulmani, il testo della khutbah deve
essere presentato prima alle autorità civile, visto che i nostri imâm (presidi
della comunità) sono funzionari statali [1].
5. È dunque scorretto, parlando
della moschea, parlare unicamente di "luogo di culto". Com'è
scorretto, parlando della libertà di costruire moschee, farlo in nome della
libertà religiosa, visto che non è semplicemente un luogo religioso, ma una
realtà multivalente (religiosa, culturale, sociale, politica, ecc.).
6. Non si può dimenticare che il
luogo dedicato alla preghiera del venerdì è considerato dai musulmani spazio
sacro e rimane per sempre appannaggio della comunità, la quale decide chi ha
facoltà di esservi ammesso e chi invece lo profanerebbe. Per questo motivo non
si può prestare un terreno per 50 anni per esempio per edificare una moschea;
questo terreno non potrà mai essere reso da loro o ricuperato.
7. Esistono spesso nei paesi
musulmani, nelle città, dei piccoli "luoghi di preghiera", chiamati
di solito musallâ, cioè luogo di preghiera (salât). Sono come delle
"cappelle" che possono contenere una cinquantina di persone (più o
meno) e che si trovano spesso al pian terreno di una casa, al posto di un
appartamento. Questi luoghi, più discreti, sono generalmente utilizzati quasi
unicamente per la preghiera del mezzogiorno, permettendo alla gente della
strada o dei blocchi vicini di pregare in pace.
8. Le moschee hanno normalmente un
minareto (manârah), da dove il muezzin (=mu'adhdhin) fa l'appello alla
preghiera (=adhân). Questi minareti hanno una funzione pratica: fare arrivare
la voce umana ai musulmani che circondano la moschea, per avvertirli dell'ora della
preghiera.
Perciò, al tempo di Muhammad,
Bilâl, il primo muezzin della storia, saliva sul tetto della moschea (oppure
d'una casa) e chiamava la gente alla preghiera.
Durante la prima generazione, non
c'era minareto ed è noto che questa costruzione non è una parte essenziale del
rituale islamico. Fino ad oggi le comunità wahhabite in Arabia Saudita evitano
di costruire minareti per non cadere nell'ostentazione. Storicamente, il primo
minareto fu costruito nella anno 45 dell'egira (A.D. 665) dal governatore
dell'Irak Ziyâd Ibn Abîh a Basra. Dopo, su ordine di Mu'âwiyah, delle torri
furono aggiunte alle moschee di Fustât (il Vecchio Cairo) e d'Egitto, per scopi
militari.
Nel corso della storia, i minareti
hanno assunto spesso una funzione militare, e sempre una funzione simbolica, di
affermazione della presenza musulmana, e talvolta una funzione politica di
affermazione della superiorità dell'islam sulle altre religioni. Il loro scopo
essenziale originario è di permettere alla voce umana di pervenire a chi abita
vicino.
Perciò un minareto non potrebbe mai
essere molto alto come si fa oggi, perché allora la voce umana non
raggiungerebbe i fedeli [2].
9. In questo secolo, si sono spesso
aggiunti dei megafoni nei minareti (soprattutto se c'è una chiesa vicina o un
quartiere cristiano), e i muezzin hanno aggiunto altre cose all'appello alla
preghiera (adhân) prolungandolo.
Queste innovazioni sono contrarie
alla tradizione musulmana (la sunnah) e i Paesi musulmani rigorosi le condannano,
come fa l'Arabia Saudita per esempio, anche se la condanna non cambia le
abitudine. In altri Stati, come l'Egitto, l'uso del megafono è limitato
unicamente all'appello (che dura circa 2 minuti) ed è vietato per la preghiera
dell'alba (salât al-fagr), divieto non osservato difatti.
Inoltre, si sta diffondendo in
molti luoghi l'uso dei registratori pre-programmati per fare l'appello
automaticamente, per evitare al muezzin la fatica di gridare l'appello o
addirittura di salire sul minareto. Questa innovazione è considerata dai
dottori della legge come contraria alla Tradizione, ma tollerata.
10. Infine, è necessario chiedersi
chi finanzia tale moschee o centro islamico, non per intromettersi negli affari
altrui, ma in virtù del principio universale che dice "chi paga
comanda". Non è un segreto per nessuno che gran parte delle moschee e
centri islamici d'Europa vengono finanzati da governi estranei, in particolare
dall'Arabia Saudita, che impone anche i suoi imâm. Ora, è ben noto che nel
mondo islamico sunnita l'Arabia Saudita rappresenta la tendenza più rigida,
detta wahhabita (da 'Abd al-Wahhâb, 1703-1792). Non sono questi imâm che
potranno aiutare gli emigrati ad inserirsi nella società occidentale, né ad
assimilare la modernità, condizioni necessarie per una convivenza serena con
gli autoctoni.
B.
Riflessione
Dopo avere chiarito l'oggetto della
discussione, ci permettiamo qualche elemento di giudizio.
1. Permettere ai musulmani di avere
dei luoghi di preghiera in Occidente va da sé. Sarebbe probabilmente più adatto
al contesto sociologico degli emigrati (che rappresentano la stragrande
maggioranza dei musulmani in Italia) di avere dei musallâ, ossia delle
"cappelle" dove potrebbero ritrovarsi più comodamente per pregare.
Sarebbero anche meno costose per loro. Rimane un rischio: la moltiplicazione
dei piccoli luoghi di preghiera rende più difficile il controllo
sull'insegnamento che vi si dà.
2. La moschea, in quanto centro
socio-politico-culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei
"luoghi di culto". Deve essere esaminata come tale. Alla pubblica
amministrazione spetta studiare come esercitare un certo controllo su tali
centri, vista la loro funzione politica tradizionale. Non si capisce bene
invece in base a quale ragione il comune dovrebbe regalare il terreno o una
parte della costruzione.
3. L'opposizione che si vede un po'
dappertutto in Europa riguardo alla edificazione di moschee può provenire dalla
xenofobia, ma è anche probabile che derivi dal timore che essa sia un atto
politico di affermazione di una identità diversa sotto tutti gli aspetti,
troppo straniera alla cultura e alla civiltà occidentale. E questo mi sembra
anche vero, com'è accertata l'ambiguità dell'espressione "luogo di
culto" trattandosi di una moschea.
4. Se un tale centro musulmano
potesse aiutare gli emigrati ad integrarsi nella società italiana locale e
nazionale, con dei corsi adatti ed altri servizi, sarebbe da incoraggiare, lo
scopo essendo di costituire insieme, emigrati e autoctoni, una società comune e
solidale. Potrebbe essere incoraggiata (anche materialmente) la costituzione di
gruppi o associazioni misti, costituiti da emigrati (musulmani e non musulmani)
e autoctoni, per rinforzare l'integrazione dei primi nella società italiana e
l'apertura dei secondi agli emigrati. In particolare, i gruppi di volontari e
le parrocchie potrebbero avere una funzione importante da svolgere in questo
campo.
5. L'edificazione dei minareti è
diventata un uso assai diffuso nel mondo islamico. Nondimeno non corrisponde
alla tradizione musulmana autentica e non è mai stata auspicata dal Profeta
stesso. Aveva uno scopo politico e militare. Perciò è da chiedersi se ha ancora
senso nel contesto occidentale. Quanto all'uso dei megafoni è certamente
contrario alla tradizione musulmana autentica, oltre ad essere assolutamente
opposto alla tradizione occidentale. Il parallelo che viene spesso fatto con le
campane non sembra essere corretto per vari motivi troppo lunghi a spiegare in
questa sede.
6. Tenendo conto della tradizione
musulmana multisecolare di non distinguere religione, tradizioni, cultura, vita
sociale e politica, sembra importante che i responsabili: (a) s'informino bene
per operare queste distinzioni; (b) siano molto attenti a non incoraggiare la
politicizzazione (sotto qualunque forma) dei gruppi d'immigrati (musulmani e
non musulmani).
7. Infine, è utile notare un
piccolo particolare: secondo i dati ufficiali, gli immigrati musulmani
rappresentano circa il terzo di tutti gli immigrati in Italia. Eppure, fanno
parlare di loro molto più che i due terzi degli altri immigrati. È doveroso
chiedersi perché.
Mi sembra che il motivo sia proprio
la tendenza dei musulmani a politicizzare la loro presenza, a renderla visibile
(sia per tendenza naturale, sia perché esistono delle lobby potenti di
musulmani italiani o stranieri). Ed è questa politicizzazione e questa tendenza
all'affermazione della loro identità come diversa dagli altri che suscita le
reazioni di rigetto o di rifiuto. Non sarebbe più conforme agli interessi dei
musulmani stessi di cercare a vivere la loro vita (e la loro fede) in maniera
discreta ed integrata?
C.
Conclusione
Insomma, da ciò che abbiamo detto
si possono trarre alcune conclusioni.
1. Tenuto conto della natura
polivalente (e spesso politica) della moschea nella tradizione musulmana,
l'erezione di moschee, contrariamente a quella delle chiese, può essere un atto
politicamente ambivalente. Potrebbe favorire il contrasto tra la popolazione
musulmana (spesso costituita da immigrati) e quella non-musulmana (generalmente
costituita da italiani autoctoni), oppure favorire l'integrazione della
popolazione musulmana nel tessuto della società italiana.
Perciò, tocca alle autorità civili
italiane discernere, caso per caso, le chances di successo di questa seconda
ipotesi, e enunciare le condizioni (col dovuto controllo regolare) che favoriranno
la realizzazione di questo scopo, cioè che la moschea serva ad aiutare i
musulmani ad integrarsi nella loro nuova società.
2. Questo potrebbe essere fatto con
diverse misure concrete:
incoraggiando corsi di lingua
italiana (anziché di lingua araba);
assicurando servizi sociali per
aiutare gli emigrati ad avere una vita più dignitosa e più integrata;
offrendo servizi particolari alle
donne, visto che spesso non si mescolano agli incontri misti, ma incoraggiare
nello stesso tempo la loro integrazione in una società mista;
esigendo la distinzione tra Centro
culturale e Luogo di preghiera;
controllando la khutbah (spesso
tradotta erroneamente con "predica") fatta nel quadro della preghiera
di mezzogiorno del venerdì;
assicurandosi che la distinzione
fondamentale in Italia tra religione e politica sia fatta, e aiutando la
comunità musulmana a fare questa distinzione.
3. Nell'autorizzare la costruzione
di una moschea è ragionevole tener conto dei cittadini musulmani della zona in
questione, per decidere della sua dimensione. Non sembra invece ragionevole
tener conto dei non-cittadini, cioè di chi non ha fatto l'opzione di vivere in
questo paese e di impegnarsi ad assumerne tutte le conseguenze.
4. In fin dei conti è bene
ricordarsi lo scopo ultimo: creare una comunità solidale tra gli italiani e chi
vuol diventare italiano, accettando le conseguenze culturali, sociali e
politiche. Non si tratta di escludere chiunque per razzismo o fanatismo, ma si
tratta di non rinunciare alle proprie radici in nome di una pseudo-tolleranza o
di una multiculturalità senza discernimento.
[1] Sulla funzione politica della
moschea si possono consultare i tre libri (in arabo) dello scrittore libico
Al-Sadek Al-Nayhoum, nato a Benghazi nel 1937, emigrato a Genova nel 1976 ove
ha insegnato all'università le religioni comparate e vi è morto nel novembre
1994. I suoi libri sono attualmente vietati in Libano, ma ristampati in Siria
nel 2000 dalla casa editrice libano-inglese Riad El-Rayyes Books: ISBN
1-85513-125-0, ISBN 1-85513-228-1 e ISBN 1-85513-278-8. Il primo è intitolato
Al-Islâm fî al-Asr: Man Saraqa al-Gâmi' wa-Ayna Dhahaba Yawm al-Gumu'ah?, cioè:
L'Islam imprigionato: chi ha rubato la moschea e dove è andato il venerdì?
Si veda anche il libro molto
preciso dell'algerino Ahmed Rouadjia nato nel 1947, già professore a
Constantine e istallato ormai a Parigi, che analizza la moltiplicazione delle
moschee in Algeria dagli anni 1970 in poi e l'influsso che hanno avuto sulla
radicalizzazione dell'Islam e sulla diffusione delle tendenze islamiche (cioè
fondamentaliste combattive): Les Frères et la Mosquée. Enquête sur le mouvement
islamiste en Algérie (Parigi, éd. Karthala, 1990). Il libro è stato tradotto in
arabo da Khalil Ahmad Khalil e publicato a Beirut nel 1993 da Dâr al-Muntakhab
al-'Arabi, sotto il titolo: Al-Ikhwân wa-l-Gâmi'. Istitlâ' li-l-harakah
al-islâmiyyah fî l-Gazâ'ir.
[2] Su tutto questo si può
consultare comodamente l'articolo Manâra della Encyclopédie de l'Islam, 2a ed.,
vol. III, p. 345b - 355a (pubblicate nell'anno 1987).