La rabbia e l'orgoglio
di
Oriana Fallaci
(f.
de. b. ) Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di
un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore
e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte dell’anno a
Manhattan. Non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno.
Non dà mai interviste. Tutti ci hanno provato, nessuno c’è riuscito. Isolata.
Ma la storia e il destino hanno voluto che il centro della moderna apocalisse
si aprisse, come una voragine dantesca, poco distante dalla sua bella e
letteraria abitazione. L’onda d’urto di quella mattina dell’11 settembre ha
sconvolto anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto
inconsueto del quale sembra meravigliarsi... Lo sguardo è dolce e insieme feroce.
Oriana lavora da anni a un’opera molto importante e attesa in tutto il mondo,
fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco.
Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel
martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. «Su ogni
esperienza lascio brandelli d’anima», aveva scritto qualche anno fa. E’ ancora
vero, verissimo. Pensieri forti. Dirompenti. Su cui ragionare e riflettere.
Sull’America, sull’Italia, sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente quel
che dice sulla Patria). Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal
cervello e dal cuore, o meglio dal cervello attraverso il cuore.
«Qualcuno queste cose doveva dirle. Le ho
dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non voglio
riaprirla», sbotta.
I suoi soliti artigli. Farà discutere.
Eccome.
Mi
chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio
che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo
faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera
alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne,
bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna,
bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici,
intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non
meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso
modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto
arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che
elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e
anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la
poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It's good to
be angry, it's healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E
se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi
ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o
solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di
scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come
l'ho vissuta io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza.
Incomincerò dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di
Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse
non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova
alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti
la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta
accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L'ho respinta. Non ero mica in
Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla
Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco,
in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha
continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non
faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su
ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World
Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un
piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata
son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre
domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea.
Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come
un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta sull'obiettivo. Sicché ho
capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l'audio è tornato e ha
trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God,
God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è
infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto
di burro.
Erano
le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei
quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il
mio cervello era ghiaccio.
Non ricordo nemmeno se certe cose le ho
viste sulla prima torre o sulla seconda.
La gente che per non morire bruciata viva
si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio.
Rompevano i vetri delle finestre, le
scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il
paracadute, e venivano giù così lentamente.
Agitando le gambe e le braccia, nuotando
nell'aria. Sì, sembravano nuotare nell'aria. E non arrivavano mai.
Verso i trentesimi piani, però,
acceleravano.
Si mettevano a gesticolar disperati,
suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help.
E magari lo gridavano davvero.
Infine
cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d'aver visto tutto alle guerre.
Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in
sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche
quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore
ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi
senza paracadute dalle finestre d'un ottantesimo o novantesimo o centesimo
piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a
ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non
sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s'è
fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è sciolta proprio come un panetto di burro
messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m'è parso, in un silenzio di tomba.
Possibile? C'era davvero, quel silenzio, o era dentro di me?
Devo
anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti.
Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento. Come a
Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si son
messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di
Mexico City, quella dove anch'io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti
ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono
nell'obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi
sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila
persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non
funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci voleva
un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai, il numero dei morti.
(Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno mai. Per
non sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a
Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due voragini che
hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al
massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un
dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è
materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri
il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti
inutilizzati.
Che
cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna
pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla
pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri
sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda
Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar
l'arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la
cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li
considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me
li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi
marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero
vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la
politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che
invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli
procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un
posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano
le Urì. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la
fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che
incomincia con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e
della base francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l'erano fatta
scattare prima d'andar a morire, quella fotografia, e prima d'andar a morire
erano stati dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi
impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole...
Eh!
Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non
corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione
che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio
libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla.
Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui
come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore.
Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o
meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e
gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei
quattro aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di
quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre Signor
Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al
Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti per tentar
di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva
buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della
Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il
Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad
perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non
le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua camaleontica abilità di
smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso.
Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.
Preferisco
parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America.
Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e
aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un
regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono
avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa. E
che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici,
governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano
i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica e la
Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il
Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin
Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l'Afghanistan, e tutte le
regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io
mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L'unica cosa
che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli
aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta.
Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due
volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo. L'aereo sul Pentagono non me
lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di
«se»: è sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina
il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di
pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il
televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima
torre bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse quella sull'attentato? E
perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l'America
è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno,
ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma
la vulnerabilità dell'America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua
ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita storia del cane
che si mangia la coda.
Nasce
anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto
per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di
americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo
dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una
scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce
d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e
biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica.
Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757
oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e scateni una strage.
(Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la
figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni limite. Se fossi il
presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per
cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i
simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane?
Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger, Broadway ed
Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua
tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar
gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato.
Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i
velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il
pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l'hanno
inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel Pentagono
terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza
onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni
ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di
comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin
Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con
la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo
ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le
principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando
aveva vent’anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di
Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni
d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto
demolitore. La demolizione è una specialità americana.
Quando
ci siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e
dall'ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse.
Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io
stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’Europa e in particolare dell’Italia sono
ancora più gravi), l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a
proposito dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di
New York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio.
Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura
dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph
Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno
incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro grandissimo sindaco
col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci
dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere
sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui
non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e
nelle avidità. Non si divide tra l'incarico di sindaco e quello di ministro o
deputato. (C'è nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a
Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel
secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S'è
salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in
piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e
quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E' malato come me,
pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa
finta d’essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco,
stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa di persona
alla battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la baionetta. «Forza,
gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché
quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe
detto mio padre, e con le palle. Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla
compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al
nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che
era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto
intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di
Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L'avevo annusata, sì,
dopo l'assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la
lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi
aveva ricordato la loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così, quando ho
visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto
democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi
l'America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di
stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho
mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia
nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state
ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York.
Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l'ex candidato democratico
alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente
zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all'unanimità d'accettare la
guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia imparasse questa lezione! È un
Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue
meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono
a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo,
perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi
personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria
popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si
tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che,
se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di
Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa
all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell'opposizione, ai
propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa
nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani.
Nasce
dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è
successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie)
che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche
superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere,
tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono: «I
can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi d'essere
esausto, non d'essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di
mezz'età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre
Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare
il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese
totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha organizzata bene il Potere!».
In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non
le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come New York, e con
operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New York. Più
liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche ai loro sindacati. Ma se gli
tocchi la bandiera, se gli tocchi la Patria... In inglese la parola Patria non
c'è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei
Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land, Terra Nativa. O dire
semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c'è.
L'aggettivo Patriotic c'è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un
Paese più patriottico dell'America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere
quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano
Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una
specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e
ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli
ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma
di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna.
Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all'Unione
Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non
è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto
nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al
becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i
colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe
riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera
italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia.
Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c'è una partita internazionale di
calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido
Italia-Italia.
Eh!
C'è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene
sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene
sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano
nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature
massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè macinato.
Il
fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di
cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza
eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una
patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della
Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché
a quel tempo l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno.
Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li
trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi
concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi
e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano
ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da
mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della
Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata
nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776.
(Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene
ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È
un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne
capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle
colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader
straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding
Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i
Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i
George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li
chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e
isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre!
Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli
insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non
lo conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Aristotele e Platone, che
in latino s'eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia
greca se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la
teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson
conosceva anche l'italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e
leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille
piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774
il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro scritto
da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto
all'autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore,
scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica
del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi
leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini
spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra. Fecero
la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione Americana.
Bè...
Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra
costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non
la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un
foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria,
concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata
all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths to be
self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono
creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che
tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della
Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i
governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli
abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora
la spina dorsale dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché?
Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo.
Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d'esprimere le proprie
individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il
comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi,
arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il
comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto
tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è
più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe
il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame.
Bè,
secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi,
neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più
plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli!
Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa,
che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e
la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio,
son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra chic. Però
sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più forte, di più
potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe
Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi,
tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son
rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con
loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina
toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il
guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda
sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non
smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.
Non
sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle
macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle
persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza
e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete
dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto
impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non
capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia.
Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non
capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e
dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di
religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non
mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla
conquista delle nostre anime.
Alla scomparsa della nostra libertà e della
nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del
nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e
vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non
ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà.
E distruggerà il mondo che bene o male
siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più
intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello
distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale,
i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo!
Non vi rendete conto che gli Usama Bin
Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete
il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché
andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le
canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la
televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o
in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi
pare e con chi vi pare? Non v'importa neanche di questo, scemi? Io sono atea,
graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono.
Da vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una
certa mitezza, non con questa passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un
articolo di fondo per il «Corriere».
Era l'articolo di una persona abituata a
stare con tutte le razze e tutti i credi, d'una cittadina abituata a combattere
tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d'una laica senza tabù.
Ma era anche l'articolo di una persona
indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli
di Allah gliene perdonava un po' troppe.
Feci un ragionamento che suonava
press'appoco così, vent'anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi?
Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro
disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v'informo che Dante
Alighieri mi piace più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero.
«Razzista, razzista!». Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si
chiamavano comunisti) a crocifiggermi.
Del resto quell'insulto me lo presi anche
quando i sovietici invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana
e il turbante che prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio,
berciavano le lodi del Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo
bene.
E a veder accoppiare la parola Dio al
colpo di mortaio, mi venivano i brividi.
Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo:
«I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella
guerra proteggono anche noi. E li ringrazio».
Riapriti cielo. «Razzista, razzista!».
Nella loro cecàggine non volevan neanche
sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui
militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un
vizietto a cui s'erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed
ebrei).
Non volevano che lo dicessi, no. E pur di
fare i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura
dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano i
barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden.
Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan! I-russi-
devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati
dall'Afghanistan: contenti? E dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama
Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni
libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze
identificati: contenti?
Peggio: ora qui si discute sul prossimo
attacco che ci colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari.
Si dice che la nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il
materiale. Si parla di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede
quando avverrà... Contenti?
Alcuni
non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l'America è
lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari miei. No. C'è
un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino dell'Occidente, la
sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L'America siamo noi.
Noi italiani, noi francesi, noi inglesi,
noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi
scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi.
Se crolla l'America, crolla l'Europa.
Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè nel
senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua,
dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano
che ai soldi».
E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»).
In tutti i sensi crolliamo, caro mio.
E al posto delle campane ci ritroviamo i
muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del
cognacchino il latte di cammella.
Neanche questo capite, neanche questo
volete capire?!? Blair lo ha capito.
È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush
la solidarietà degli inglesi.
Non una solidarietà espressa con le
chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e
sull’alleanza militare. Chirac, no. Come
sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale.
Una visita prevista da tempo, non una
visita ad hoc. Ha visto le macerie delle due torri, ha saputo che i morti sono
un numero incalcolabile anzi inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante
l'intervista alla Cnn ben quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha
chiesto in qual modo e in qual misura intendesse schierarsi contro questa
Jihad, e per quattro volte Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come
un'anguilla. Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo
sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in Normandia per
cacciare i nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra
gli altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia
dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto
complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la
paura della guerra, in ogni paese d'Europa è stato individuato e arrestato
qualche complice di Usama Bin Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra,
in Spagna... Ma in Italia dove le moschee di Milano e di Torino e di Roma
traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in
attesa di far saltare in aria la Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla.
Nessuno. Mi spieghi, signor cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e
carabinieri? Son così coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi
funzionari? E son tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e
succede, i figli di Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a
individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme
di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no.
Cristo!
Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della guerra
è un cretino.
E chi vuol far credere di non avere paura
alla guerra, l’ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo.
Ma nella Vita e nella Storia vi sono casi
in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver paura è immorale e incivile. E
quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio o abitudine a tenere il piede
in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a me sembrano masochisti.
Masochisti,
sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture?
Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture:
metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale
peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate,
c'è Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia, perdio.
C'è l'antica Grecia col suo Partenone e la
sua scoperta della Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza, le sue
leggi, il suo concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua
architettura.
I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi
acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo
morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il
concetto dell'amore e della giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato
l'Inquisizione, d'accordo. Che mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo,
d'accordo.
Che mi ha oppresso per secoli, che per
secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha
quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha
dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro
la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo,
c'è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven.
Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi
and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella
loro cultura o supposta cultura è proibita.
Guai se fischi una canzonetta o mugoli il
coro del Nabucco. E infine c'è la Scienza, perdio.
Una scienza che ha capito parecchie
malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza:
non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il
treno, l'automobile, l'aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su
Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di
questo pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a
proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho
appena detto?!?
Dio,
che bischeri! Non cambieranno mai.
Ed ora ecco la fatale domanda: dietro
all’altra cultura che c’è?
Boh!
Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi
meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova
anche i numeri e la matematica.
Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo
coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla
mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e
la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si
smentisce ogni cinque minuti.
I suoi nonni non hanno inventato i numeri e
la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adopriamo,
e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche
civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya...
I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella
moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole
più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah.
E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano. Davvero pregi?
Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto
New York, gli esperti dell'Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto:
spiegarmi che il Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia.
(Del resto lo dice anche Bush, povero Bush.
E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro milioni di
americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli eventuali
parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come la
mettiamo con la storia dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente?
Come
la mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle
musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon
guardare attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi? Come la
mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei
cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non
debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e
la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra
mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico.
Ecco dunque la mia risposta alla tua
domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al mondo c'è posto per tutti, dico io.
A
casa propria tutti fanno quel che gli pare.
E se in alcuni paesi le donne sono così
stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una
fitta rete posta all'altezza degli occhi, peggio per loro.
Se son così scimunite da accettar di non
andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio
per loro.
Se
son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per
loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem.
Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe
altro.
Sono stata educata nel concetto di libertà,
io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è vario». Ma se pretendono
d'imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo pretendono.
Usama Bin Laden afferma che l'intero
pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all'Islam, che
con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e
continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no.
Deve
metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la
cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden.
Perché gli Usama Bin Laden sono decine di
migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi
arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente.
Nelle nostre città, nelle nostre strade,
nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che
qualsiasi ottuso può maneggiare.
La Crociata è in atto da tempo. E funziona come
un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile
soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando gestiva l'Inquisizione.
Infatti trattare con loro è impossibile.
Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un
suicidio. E chi crede il contrario è un illuso.