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Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia.

     Lo ha conosciuto, ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme.

     Io non dimentico mai quel che mi accadde all'ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai con le unghie smaltate di rosso.

     Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l'interprete me lo impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi all'ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l'ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata dall'asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un tratto la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per non finire fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l'interprete aveva una moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola e nient'affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini. In tal dilemma mi dibattevo e...

Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo episodio non te lo racconto.

     Per farti piangere ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca. Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni.

     Lo so, lo so: in tutti i paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici.

     Però è trascorso parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno.

     Dopo i dodici giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli scarponi da militare.

     E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò.

     Comunque il punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar, Allah-akbar.

     Li distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate.

 

     Oh, potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare i capelli in testa.

     Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo l'intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle donne.

     Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l'anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta.

     Era il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello inglese mi salvò.

     O di quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa.

     Dio, che gente!

     I soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein.

     Ma quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio ragionamento.

     Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale.

     E visto che intimiditi dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli.

     Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto.

     Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti.

     Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d'essere un'ospite e una straniera.    Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili.

     Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione.

     E questo urlo di dolore e di sdegno io te l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso.

     A volte invece di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante) della gran tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città.

 

     Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti.

     Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti.

     Una tenda situata accanto al bel palazzo dell'Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee.

     E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell'acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera.

     Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d'oro del Ghiberti.

     Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo.

     E, grazie alla consueta incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica.

     Grazie a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane.

     Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del Battistero.

     (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l'obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?)

     Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene.

     Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere», ricordi?

     Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione.

     «Ha ragione, ha proprio ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì.

     Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che parlano con l'accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda.

     E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì».

     Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò.

     (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema.

     Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo.

     Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette.

     Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò.

     Al posto della tenda rimase soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro.

     Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell'arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città:

     gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano.

     Eh, sì: sono tutti dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda.

     Dentro il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto.

     Dinanzi alla Loggia dell'Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale, all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate.

     Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse).

     Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un'antica signora.

     E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali).

     Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce.

     Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare).

     E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua.

     «Razzista, razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?».

     Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie.

     «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata.

     Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l'avete un po' d'orgoglio, pecoroni?».

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     Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio.

     Quella Torino che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce» e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova.

     Quella Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma.

     Quella Roma dove il cinismo della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li corteggia nella speranza d'ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c'è lo stesso Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco.

     Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno».

     E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati talmente signorini.

     Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's.

     Si vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato.

     Ma quelli di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno?

     In che modo suppliscono al bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato italiano non fornisce più? Bivaccando nella città col      pretesto della merce-da-vendere?

     Bighellonando e deturpando i nostri monumenti?

     Pregando cinque volte al giorno? E poi c'è un'altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi per   il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia?

     Chi glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto?

     Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una      conquista di territorio?

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     Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince.

     Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio.

     E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo.

     Sbaglia, soprattutto, chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia e sull'Europa con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America nella seconda metà dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento.

     Ora ti dico perché.