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Non molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio di cui l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di fibra partiva per l'America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No.

 

            Non è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici.

Il primo è che nella seconda metà dell'Ottocento l'ondata migratoria in America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la effettuava.

             Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso.

            «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo di terra».

            Ci hanno fatto anche un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m'ha colpito il finale.

            La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono.

            Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi. Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi, se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti.

            Da noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che cercavano di rimandarli indietro.

            Più che d’una emigrazione s’è trattato dunque d’una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa.

            È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti e due.

            Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi.

            Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano:

            «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi!

            In quelle piazze ve n’erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto.

 

            Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe anche uno scolaro delle elementari.

            Per esporlo bastano un paio di elementi. Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via all’immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava negli stati dell’Est ossia gli stati dalla parte dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era ancora meno gente.

            La California era quasi vuota. Beh, l’Italia non è un continente. È un paese molto piccolo e tutt’altro che spopolato.

            Due: l’America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità culturale non è ancora ben definita.

            L’Italia, al contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni.

            La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro. C'entro, ahimé c'entro.

            Che mi piaccia o no, c'entro. E come farei a non entrarci?

            Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi.

            La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane.

            Le campane di Santa Maria del Fiore che all'Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava.

            È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta.

            È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos'è l'architettura, cos'è la scultura, cos'è la pittura, cos'è    l'arte.

            È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos'è il Bene, cos'è il Male, e perdio...

            Ecco: vedi?

            Ho scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d'esprimermi.

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            Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta?

            Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli incominciando dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d'accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto.

            Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti.

            Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi.

            Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe.

            Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica.

            La bisnonna valdese non l'ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand'ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de' Benci a Firenze, e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo dell'incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v'è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa.

            Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer).

Santiddio! (Ci risiamo).

            Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un' ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei.

            Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria.

            Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo.

            Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana.

            Io la cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all'America sono assai legata.

            Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L'America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco.

            Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa.

            Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l'ho già, Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma.

            Sir, io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana».

            Gli risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta.

            Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera.

            E poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino.

            Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola.

            Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell'Ottocento.

            Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi.

            E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro.

            La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati.

            Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore.

            E l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a          Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco.

            Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso.

            Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti.

            Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io.

            Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni.

            Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera.

            Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se         accettarle o no.

            Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe.             E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.

            Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che             pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le partite di          calcio.

            L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood             venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una    montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene.

           

            L'Italia squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come      incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco.

 

            L'Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano:

             «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti».

            Non è nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi           con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»).

            Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più           straziante, nel vuoto.

            Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i             liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti      guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula.

            Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare             le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi.

            Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità.

            Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden.

             No, no: la mia Italia è un'Italia ideale.

            È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di

            Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto.

            E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la

            Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade.

            Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di        Usama Bin Laden, per me è lo stesso.

            Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.

            Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a                risse o a polemiche vane.

            Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito.

            Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.

                                                                                                                                 Oriana Fallaci