PERCHÉ?
di Stéphane Courtois
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Tratto e sintetizzato liberamente da « Il libro nero del
comunismo » ed. Mondadori
“Gli occhi azzurri della
Rivoluzione brillano di crudeltà necessaria.” (louis aragqn, Le Front rouge)
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Al di là del fanatismo, delle passioni di
parte e delle amnesie volontarie, questo libro ha cercato di tracciare un
quadro d'insieme dei crimini commessi nel mondo comunista, dall'omicidio
individuale alle stragi di massa. All'interno di una riflessione generale sul fenomeno
comunista nel XX secolo, non si tratta che di una tappa in un momento cruciale:
il crollo nel 1991 a Mosca del cuore del sistema e l'accesso a una ricca
documentazione finora tenuta rigorosamente nascosta.
Tuttavia, l'aver stabilito, com'era indispensabile,
i dati di fatto più documentati e meglio fondati non può soddisfare la nostra
curiosità intellettuale ne la nostra coscienza. Rimane aperto il problema
fondamentale: «perché?». Perché il comunismo moderno, apparso nel 1917, si è
quasi immediatamente elevato a dittatura sanguinaria e poi a regime criminale?
I suoi obiettivi potevano essere raggiunti
solo con l'esercizio dell'estrema violenza? Come spiegare che il crimine sia
stato concepito e praticato dal potere comunista come un provvedimento normale,
ordinario, quasi banale, e che ciò sia durato decenni?
La
Russia sovietica è stato il primo paese a regime comunista. Essa ha costituito
il fulcro e il motore di un sistema comunista mondiale che, dopo essersi
costruito a poco a poco, dopo il 1945 ha conosciuto un'estensione formidabile.
L'URSS leninista e stalinista è stata la matrice del comunismo moderno. Il
fatto che, da subito, tale matrice abbia acquisito una dimensione criminale è
tanto più sorprendente in quanto di segno opposto rispetto all'evoluzione del
movimento socialista.
Per
tutto il XIX secolo la riflessione sulla violenza rivoluzionaria è stata dominata
dall'esperienza fondatrice della Rivoluzione francese che, nel 1793-1794, aveva
conosciuto un periodo di particolare violenza manifestatasi in tre forme
principali. La più selvaggia fu quella dei «massacri di settembre», durante i
quali a Parigi mille persone vennero assassinate dai rivoltosi senza che
intervenisse alcun ordine ne dal governo ne da alcun partito.
La
più famosa fu quella che prese il via con l'istituzione del Tribunale
rivoluzionario, dei comitati di controllo (di delazione) e della ghigliottina,
che mandarono a morte 2625 persone a Parigi e 16.600 in tutta la Francia.
A
lungo occultato rimase invece il terrore praticato dalle «colonne infernali»
della Repubblica, incaricate di reprimere le rivolte nella Vandea e che
mieterono decine di migliaia di vittime tra una popolazione disarmata.
Questi
mesi di Terrore, però, rappresentano una vicenda sanguinaria che s'inquadra
come un episodio in una traiettoria di più lunga durata, simbolizzata dalla
creazione di una repubblica democratica, con la sua Costituzione, la sua
assemblea eletta dal popolo e i suoi dibattiti politici. E non appena la
Convenzione ritrovò un po' di coraggio, ecco che Robespierre venne deposto e il
Terrore cessò.
Tuttavia,
Francois Furet ha mostrato come proprio allora abbia fatto la sua comparsa una
certa idea della Rivoluzione, inseparabile dai provvedimenti estremi:
II
Terrore è il governo della paura, che Robespierre teorizza in governo della
virtù. Nato per sterminare l'aristocrazia, il Terrore diventa un modo per
sottomettere i cattivi e combattere il crimine. È ormai suscettibile della
stessa estensione della Rivoluzione, inseparabile da essa, poiché essa sola
permette d'istituire un giorno una Repubblica di cittadini. ...
Se
la Repubblica dei cittadini liberi non è ancora fattibile è perché gli uomini,
traviati dalla storia che hanno alle spalle, sono cattivi; attraverso il
Terrore e la Rivoluzione la storia creerà un uomo nuovo.1
Per
certi versi il Terrore prefigurò l'azione dei bolscevichi: manipolazione delle
tensioni sociali da parte della fazione giacobina, esacerbazione del fanatismo
ideologico e politico, attuazione di una guerra di sterminio contro una
frazione ribelle del mondo contadino. Incontestabilmente Robespierre ha aperto
la strada che, tempo dopo, condurrà Lenin al terrore.
Durante
il voto delle leggi di Pratile non aveva forse dichiarato davanti alla
Convenzione: «Per punire i nemici della patria basta definirne la personalità.
Non si tratta di punirli, ma di distruggerli»?
Questa
esperienza fondatrice del terrore non sembra affatto aver ispirato i principali
pensatori rivoluzionari del XIX secolo. Marx stesso vi ha rivolto poca
attenzione. Ha sì sottolineato e rivendicato il «ruolo della violenza nella
Storia», ma intendendolo come una proposta molto generica, che non mirava
all'esercizio sistematico e volontario della violenza contro le persone, non
senza però una certa ambiguità di cui approfitteranno i sostenitori del terrorismo
come metodo di soluzione dei conflitti sociali. Basandosi sull'esperienza
della Comune di Parigi, disastrosa per il movimento operaio, e della durissima
repressione che ne seguì - almeno 20.000 morti -, Marx criticò con fermezza
questo tipo di azioni. Nel dibattito che prese avvio in seno alla I Internazionale
tra Marx e l'anarchico russo Bakunin, il primo sembrava aver avuto nettamente
la meglio.
Alla
vigilia della guerra del 1914 il dibattito interno al movimento operaio e
socialista sulla violenza terrorista pareva ormai concluso. Parallelamente, il
rapido sviluppo della democrazia parlamentare in Europa e negli Stati Uniti
costituiva un dato nuovo e fondamentale.
L'esperienza
parlamentare provava che i socialisti potevano avere un peso in campo politico.
Durante le elezioni del 1910 la spio (Section Francaise de l'Internationale
Ouvrière) ottenne 74 deputati; vi erano altresì 30 socialisti indipendenti il
cui capogruppo, Millerand, già dal 1899 era entrato a far parte di un governo
«borghese»; Jean Jaurès era l'uomo della sintesi tra la vecchia logomachia
rivoluzionaria e l'azione riformista e democratica.
I
socialisti tedeschi erano i meglio organizzati e i più potenti d'Europa; alla
vigilia del 1914 contavano 1 milione di aderenti, 110 deputati, 220
rappresentanti nei parlamenti provinciali, 12.000 consiglieri municipali, 89
giornali.
In
Inghilterra il movimento laburista era anch'esso numeroso, organizzato e
appoggiato da potenti sindacati. In quanto alla socialdemocrazia scandinava,
era molto attiva, largamente riformista e a orientamento nettamente
parlamentare.
I
socialisti potevano sperare di conquistare, un giorno non così lontano, una
maggioranza parlamentare assoluta che li autorizzasse a introdurre in maniera
pacifica alcune riforme sociali fondamentali.
Questa
evoluzione era confermata sul piano teorico da Eduard Bernstein, uno dei
principali teorici marxisti della fine del XIX secolo e, con Karl Kautsky,
esecutore testamentario di Marx.
Considerando
che il capitalismo non dava segni del crollo annunciato da Marx, Bernstein
caldeggiava un passaggio progressivo e pacifico al socialismo basato su un
apprendistato, da parte della classe operaia, della democrazia e della libertà.
Fin
dal 1872 Marx aveva espresso la speranza che la rivoluzione potesse risolversi
in forma pacifica negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Olanda. Questa
tendenza venne approfondita dal suo amico e discepolo Friedrich Engels nella
prefazione alla seconda edizione del testo di Marx Le lotte di classe in
Francia, pubblicato nel 1895.
I
socialisti mantenevano però un atteggiamento ambiguo nei confronti della
democrazia.
In
Francia, durante l'«affaire Dreyfus», alla svolta del secolo, avevano adottato
posizioni contraddittorie: mentre Jaurès s'impegnava in favore di Dreyfus/
Jules Guesde, figura centrale del marxismo francese, dichiarava sdegnosamente
che il proletariato non aveva niente a che vedere con le dispute interne al
mondo borghese. La sinistra europea non era omogenea e alcune sue correnti -
anarchici, sindacalisti, blanquisti - erano ancora attratte da una
contestazione radicale del parlamentarismo, anche sotto una forma violenta. Ciò
nonostante, alla vigilia della guerra del 1914 la II Internazionale,
ufficialmente di obbedienza marxista, si orientava verso soluzioni pacifiche,
basate sulla mobilitazione delle masse e sul suffragio universale.
In
seno all'Internazionale si era distinta fin dall'inizio del secolo un'ala
estremista cui apparteneva la frazione più intransigente dei socialisti russi,
i bolscevichi guidati da Lenin.
Pur
richiamandosi alla tradizione europea del marxismo, i bolscevichi affondavano
le loro radici anche nell'humus del movimento rivoluzionario russo che, per
tutto il XIX secolo, aveva mantenuto uno stretto rapporto con una violenza
minoritaria la cui prima espressione radicale era stata quella del famoso
Sergej Necaev, al quale s'ispirò Dostoevskij per descrivere Petr Verchovenskij,
il personaggio del rivoluzionario del
celebre romanzo I Demoni.
Nel
1869 Necaev scrisse un Catechismo in cui disegnava il proprio autoritratto: “II
rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi particolari, o
sentimenti, relazioni, proprietà, non ha nemmeno un nome.
Tutto
in lui è assorbito da un unico interesse che esclude tutti gli altri, da un
unico pensiero,…la rivoluzione.
In
fondo al suo animo, non solo a parole ma anche con i fatti, ha spezzato i
legami con l'ordine pubblico e con il mondo civile tutt'intero, con tutte le
leggi e le convenzioni sociali e le regole morali di quel mondo. Il
rivoluzionario è un nemico implacabile e continua a vivere solo per
distruggerlo inesorabilmente.”
Più
avanti Necaev precisava i suoi obiettivi: «II rivoluzionario non s'inserisce
nel mondo politico e sociale, nel mondo cosiddetto colto, e vi vive unicamente
nella fede della sua distruzione più totale e più rapida.
Non
è un rivoluzionario se prova pietà per qualcosa di quel mondo». E subito
progettava l'azione: «Tutta questa società immonda dev'essere divisa in più
categorie. La prima comprende i condannati a morte immediata.... La seconda gli
individui a cui viene provvisoriamente concessa la vita affinché attraverso i
loro atti mostruosi spingano il popolo al sollevamento ineluttabile».
Necaev
ebbe degli emuli. Il 1° marzo 1887 ci fu un attentato contro lo Alessandro III;
l'attentato fallì ma gli autori vennero arrestati: tra essi Aleksandr Il'ic
Ul'janov, fratello maggiore di Lenin, che fu impiccato insieme a quattro
complici. L'odio di Lenin per il regime zarista aveva radici profonde e
peraltro fu Lenin stesso, all'insaputa dei mèmbri dell'Ufficio politico, a
decidere e organizzare il massacro della famiglia Romanov nel 1917.
Per
Martin Malia questa azione violenta di una parte dell'intellighenzia,
«immaginario ritorno alla Rivoluzione francese, segnava l'ingresso, sulla scena
mondiale, del terrorismo come tattica politica sistematizzata (ben diverso dal
terrorismo dell'attentato solitario). E fu così che la strategia populista
dell'insurrezione dal basso (dalle masse), unita al terrore proveniente
dall'alto (dalle élite che le guidavano), sfociò in Russia in una
legittimazione della violenza politica che andava oltre le legittimazioni
iniziali dei movimenti rivoluzionari sorti tra il 1789 e il 1871 in Europa
occidentale».
Questa
violenza politica, marginale, si alimentava peraltro della violenza che da
secoli impregnava la vita russa, come sottolinea Hélène Carrère d'Encausse nel
suo libro Le Malheur russe: Nel suo malessere senza pari questo paese appare
quale un enigma a coloro che scrutano il destino.
E
tentando di mettere a nudo le cause profonde di tale malessere secolare che un
legame specifico ci è sembrato unire - sempre per il peggio - la conquista o il
mantenimento del potere all'uso dell'omicidio politico, individuale o di massa,
reale o simbolico. ... Questa lunga tradizione assassina ha senza dubbio
modellato una coscienza collettiva in cui l'attesa di un universo politico
pacificato occupa un posto minimo.
Lo
zar Ivan IV, detto «il Terribile», non ha nemmeno 13 anni quando nel 1543 da in
pasto ai cani il principe Sujskij, suo primo ministro. Nel 1560, in seguito
alla morte della moglie, cade in preda a una sorta di furore vendicativo;
sospetta in chiunque un traditore potenziale, stermina a cerchi concentrici
tutti coloro che appartengono all'ambiente dei suoi nemici, reali o immaginari.
Crea un corpo di guardia, l'Opricnina, che ha carta bianca e applica il terrore
individuale e collettivo.
Nel
1572 elimina i membri dell'Opricnina, prima di assassinare il proprio figlio ed
erede. Ed è sotto il suo regno che viene istituita la servitù della gleba. Pietro
il Grande non sarà molto più tenero, ne con i nemici dichiarati della Russia ne
con l'aristocrazia ne con il popolo. Anch'egli ucciderà il figlio, suo erede,
con le proprie mani.
Da
Ivan a Pietro si è sempre trattato di uno stesso meccanismo specifico che univa
la volontà di progresso emanata da un potere assoluto a un asservimento sempre
più marcato del popolo e dell'elite allo Stato dittatoriale e terrorista.
Come
infatti scrive Vasilij Grossman a proposito dell'abolizione della servitù della
gleba nel 1861: «Quest'evento scosse la base millenaria della Russia, una base
che non fu toccata ne da Pietro ne da Lenin: la dipendenza dello sviluppo russo
dalla schiavitù russa». Come sempre accade, questa schiavitù si è potuta
mantenere nei secoli solo grazie a un alto grado di violenza permanente. Tomàs
Masaryk, uomo di Stato di vasta cultura, fondatore nel 1918 della Repubblica
cecoslovacca, stabilì subito un legame tra le violenze zariste e quelle
bolsceviche.
Nel
1924 scriveva:
I
russi, sia i bolscevichi che gli altri, sono figli dello zarismo. È da esso che
per secoli è scaturita la loro educazione e la loro formazione. Sono riusciti a
eliminare lo zar ma non hanno eliminato lo zarismo.
I
russi continuano a indossare la divisa zarista, anche se alla rovescia. ... I
bolscevichi non erano pronti a una rivoluzione amministrativa e positiva ma
solo a una rivoluzione negativa, il che significa che, per fanatismo
dottrinale, ristrettezza di vedute e mancanza di cultura, hanno compiuto una
gran quantità di distruzioni inutili. Quello che soprattutto gli rimprovero è
di aver preso gusto all'assassinio, esattamente come gli zar. La cultura della
violenza non era esclusiva degli ambienti che detenevano il potere. Quando a
ribellarsi erano le masse contadine, il massacro dei nobili e il terrore
selvaggio erano all'ordine del giorno. Due di queste rivolte hanno lasciato una
particolare impronta nella memoria russa, quella di «Sten'ka» Razin, tra il
1667 e il 1670, e soprattutto quella di Pugacev che, tra il 1773 e il 1775, si
mise a capo di un'immensa sollevazione di contadini, fece tremare il trono di
Caterina la Grande e lasciò una traccia sanguinosa lungo tutta la valle del
Volga prima di venire catturato e giustiziato in maniera atroce: squartato, tagliato
a pezzi e gettato in pasto ai cani. Stando a Maksim Gor'kij, scrittore,
testimone e interprete della miseria della Russia prima del 1917, la violenza
emana dalla società stessa. Nel 1922, quando disapprovava i metodi bolscevichi,
scrisse un lungo testo premonitore: La crudeltà, ecco ciò che mi ha stupito e
tormentato per tutta la vita. In cosa consistono, dove sono le radici della
crudeltà umana? Ci ho riflettuto molto, non ci ho capito nulla e non ci capisco
ancora nulla. ... Adesso, dopo la spaventosa follia della guerra europea e gli
eventi sanguinosi della Rivoluzione, ... mi rendo conto che la crudeltà russa
sembra non essere evoluta; si direbbe che la sua forma non cambi. Un
memorialista dell'inizio del XVII secolo racconta che ai suoi tempi si praticavano
queste torture: «Si metteva la polvere da sparo in bocca al condannato e vi si
dava fuoco; ad altri s'introduceva la polvere dal basso. Alle donne si bucavano
i seni e, dopo avervi infilata una corda, le si appendeva». Nel 1918 e nel 1919
si facevano le stesse cose sul Don e sull'Ural: s'introduceva in un uomo, dal
basso, una cartuccia di dinamite e lo si faceva saltare. Credo che il senso di
pura crudeltà speciale sia proprio del popolo russo - così come il senso
dell'umorismo è proprio degli inglesi -, una crudeltà a sangue freddo, quasi
smaniosa di tastare i limiti della resistenza umana alla sofferenza, di
studiare la durata, la stabilità della vita. Nella crudeltà russa si sente come
una raffinatezza diabolica; c'è in essa qualcosa di sottile, di ricercato. Non
basta spiegare questa particolarità parlando di psicosi o di sadismo, parole
che in fondo non spiegano niente.... Se tali atti di crudeltà non fossero che
l'espressione della psicologia perversa degli individui, si potrebbe non parlarne
affatto: rientrerebbero nel campo dello psichiatra e non del moralista. Io però
mi riferisco ai divertimenti collettivi attraverso la sofferenza. ... Chi sono
i più crudeli? I Bianchi o i Rossi? Probabilmente lo sono in egual misura,
perché tanto gli uni che gli altri sono russi. Del resto, al problema del
livello di crudeltà la storia risponde nel modo più chiaro: il più attivo è il
più crudele. Eppure, dopo la metà del XIX secolo la Russia sembrava aver
adottato un corso più moderato, più «occidentale», più «democratico». Nel 1861
lo zar Alessandro II abolì la servitù della gleba ed emancipò i contadini; creò
i zemstvo, organi di potere locali. Nel 1864, al fine di fondare uno Stato di
diritto, inaugurò un sistema giudiziario indipendente. Fiorirono le università,
le arti e gli spettacoli. Nel 1914 buona parte dell'analfabetismo delle
campagne - che rappresentavano l'85 per cento della popolazione - era stata
riassorbita. La società sembrava coinvolta in una corrente «civilizzatrice» che
la conduceva verso un'attenuazione della violenza a tutti i livelli. E la
sconfitta della rivoluzione del 1905 diede anch'essa un impulso vigoroso al
movimento democratico della società. Paradossalmente fu proprio nel momento in
cui la riforma sembrava poter averla vinta sulla violenza, sull'oscurantismo e
sull'arcaismo che la guerra venne a guastare tutto e che, il 1° agosto 1914, la
più brutale violenza di massa fece bruscamente irruzione sulla scena europea.
Tratto
e sintetizzato liberamente da « Il libro nero del comunismo » ed.
Mondadori – tutti dovremmo possedere un tale lavoro scientifico nelle nostre
librerie.
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Martin Malia scrive:
L’Orestiade di Eschilo dimostra che da crimine nasce crimine e dalla violenza
nasce violenza, finché il primo crimine della catena, il peccato originale del
genere umano, non venga espiato in un mare di sofferenza. Allo stesso modo è il
sangue dell'agosto 1914, sorta di maledizione degli Atridi nella casa Europa,
che ha generato la concatenazione di violenze internazionali e sociali che
hanno dominato tutto il secolo: non c'era rapporto tra la violenza e le
carneficine della prima guerra mondiale e i guadagni che l'uno o l'altro campo
potevano sperare. È la guerra che ha prodotto la Rivoluzione russa e la presa
di potere da parte dei bolscevichi. Lenin non avrebbe smentito questa analisi,
lui che dal 1914 reclamava la trasformazione della «guerra imperialista in
guerra civile» e profetizzava che dalla guerra capitalista sarebbe sorta la
rivoluzione socialista. La violenza fu particolarmente intensa, continuò per
quattro anni, sotto forma di un massacro ininterrotto e implacabile, e sfociò
nella morte di 8 milioni e mezzo di soldati. Si trattava di un nuovo tipo di
guerra, definito dal generale tedesco Ludendorff «guerra totale», poiché
coinvolgeva fino alla morte sia i militari sia i civili.
E
tuttavia questa violenza, che era giunta a un livello mai visto nella storia
mondiale, rimase limitata grazie a un insieme di leggi e di consuetudini
internazionali. La pratica delle stragi quotidiane, spesso in condizioni
terribili - il gas, i soldati sepolti vivi dallo spostamento d'aria provocato
dalle granate, le lunghe agonie in trincea -, ha però considerevolmente pesato
sulle coscienze e indebolito le difese psicologiche degli uomini di fronte alla
morte. Si è potuta sviluppare una certa insensibilità, persino una certa
desensibilizzazione.
Karl Kautsky, il principale leader e teorico
del socialismo tedesco, tornò sull'argomento nel 1920: È alla guerra che va
attribuita la causa principale della trasformazione nella tendenza umanitaria
in tendenza alla ferocia. ... Per quattro anni la guerra mondiale assorbì quasi
tutta la popolazione maschile sana e le inclinazioni brutali del militarismo
toccarono l'apice dell'insensibilità e della bestialità. Di conseguenza il
proletariato non poté sfuggire alla loro influenza. Ne fu contaminato al più
alto livello e ne usa inebetito da tutti i punti di vista. Coloro che tornavano
erano fin troppo predisposti dagli usi della guerra a difendere in tempo di
pace le loro rivendicazioni e i loro interessi con atti sanguinari e violenze
verso i propri concittadini. Ciò costituì uno degli elementi della guerra
civile.
Paradossalmente,
nessun capo bolscevico ha partecipato alla guerra, sia perché in esilio (Lenin,
Trockij, Zinov'ev) sia perché relegati in regioni remote della Siberia (Stalin,
Kamenev). Per la maggior parte uomini di studio o grandi oratori, privi di
esperienza militare, non avevano mai partecipato a una vera battaglia, con dei
morti veri. Fino alla presa di potere le loro guerre erano state soprattutto
verbali, ideologiche e politiche. Avevano una visione astratta della morte, dei
massacri e della catastrofe umana. L'ignoranza personale degli orrori della
guerra ha forse giocato in favore della spietatezza. I bolscevichi avevano
sviluppato un'analisi di classe largamente teorica che ignorava la dimensione
profondamente nazionale, persino nazionalista, del conflitto. Attribuivano al capitalismo
la responsabilità del massacro, giustificando a priori la violenza
rivoluzionaria. Ponendo fine al regno del capitalismo, la rivoluzione avrebbe
posto fine ai massacri, a costo dell'eliminazione fisica del «pugno» di
capitalisti responsabili.
Macabra
speculazione, fondata sull'ipotesi totalmente erronea che il male andava
combattuto con il male. Negli anni Venti, tuttavia, un certo pacifismo
alimentato dalla rivolta contro la guerra è stato spesso una delle ragioni
dell'adesione al comunismo. Ciò non toglie che, come sottolinea Francois Furet
nel Passato di un'illusione, la guerra è fatta da masse di civili
irreggimentati, passati dall'autonomia cittadina all'obbedienza militare per un
periodo di cui non conoscono la durata e gettati in un inferno dov'è più
importante «farcela» che non calcolare, osare o vincere.
La
servitù militare non è apparsa mai così priva di nobiltà come agli occhi di
quei milioni di uomini trapiantati, usciti di fresco dal mondo morale della
vita cittadina. ... La guerra è lo stato politico più estraneo al cittadino....
Ciò che la rende necessaria appartiene all'ambito delle passioni e non ha
rapporto con quello degli interessi, che transige, e ancor meno con quello
della ragione, che avvicina. ... L'esercito in guerra costituisce un ordine
sociale in cui l'individuo non esiste più e la cui stessa disumanità ne spiega
la forza d'inerzia, che è quasi impossibile spezzare. La guerra ha legittimato
di nuovo là violenza e il disprezzo dell’individuo, e al tempo stesso ha indebolito
la cultura democratica ancora in via di sviluppo e rivitalizzato la cultura
della schiavitù. Alla svolta del XX secolo l'economia russa era entrata in una
fase di robusta crescita e la società sviluppava di giorno in giorno la propria
autonomia. D'un tratto le costrizioni eccezionali della guerra, tanto sugli
uomini quanto sulla produzione e le strutture, misero a nudo i limiti di un
regime politico il cui capo mancava dell'energia e della chiaroveggenza
necessario a sistemare le cose. La rivoluzione del febbraio 1917 fu la risposta
a una situazione catastrofica e si orienta verso una forma «classica»: una
rivoluzione «borghese» e democratica con elezione di un'assemblea costituente,
seguita da una rivoluzione sociale, operaia e contadina. Con il colpo di Stato
bolscevico del 7 novembre 1917 tutto venne rimesso in causa e la rivoluzione
entrò in un'era di violenza generalizzata. Resta aperta una questione: perché
in Europa solo la Russia subì un simile cataclisma?
Se
la guerra mondiale e la tradizionale violenza russa permettono di capire meglio
il contesto in cui i bolscevichi giunsero al potere, esse non spiegano però
l'atteggiamento estremamente brutale da loro assunto fin dall'inizio e in
singolare contrasto con la rivoluzione inaugurata nel febbraio 1917, il cui
esordio aveva avuto un carattere largamente pacifico e democratico. L'uomo che
impose questa violenza, così come impose al suo partito la presa del potere, fu
Lenin. Lenin instaurò una dittatura che si rivelò ben presto terrorista e
sanguinaria. La violenza rivoluzionaria non apparve più allora come una
violenza reattiva, una difesa nei confronti delle forze zariste scomparse da
mesi, ma come una violenza attiva, che risvegliò la vecchia cultura russa della
brutalità e della crudeltà, e attizzò la violenza latente della rivoluzione
sociale. Sebbene il Terrore rosso sia stato inaugurato «ufficialmente» il 2
settembre 1918, è esistito un «terrore prima del terrore». Fin dal novembre
1917, infatti, Lenin ha deliberatamente organizzato il terrore, ancorché in
assenza di ogni aperta opposizione degli altri partiti e delle diverse
componenti della società. Il 4 gennaio 1918 Lenin diede ordine di disperdere la
Costituente eletta a suffragio universale - per la prima volta nella storia
russa - e di sparare sui partigiani di quest'ultima che protestavano nelle
strade. Questa prima fase terrorista è
stata denunciata immediatamente e con forza da un socialista russo, il capo dei
menscevichi, Julij Martov, che nell'agosto del 1918 scriveva: Fin dai primi giorni
in cui salirono al potere, e sebbene avessero dichiarato abolita la pena di
morte, i bolscevichi incominciarono ad ammazzare. Ammazzare i prigionieri della
guerra civile, come fanno tutti i selvaggi. Ammazzare i nemici che dopo la
battaglia si erano arresi con la promessa di aver salva la vita.... In seguito
alle carneficine organizzate o ben tollerate dai bolscevichi lo stesso potere
si occupò dell'eliminazione dei nemici. ... Dopo aver sterminato decine di
migliaia di individui senza processarli, i bolscevichi procedono adesso a
esecuzioni... in piena regola.
E
hanno formato un nuovo tribunale rivoluzionario supremo per giudicare i nemici
del potere sovietico. Martov aveva un cupo presentimento: La bestia ha leccato
il sangue umano, caldo. La macchina per uccidere si è messa in moto. M.M.
Medvedev, Bruno, Peterson, Karelin - i giudici del tribunale rivoluzionario -
si sono rimboccati le maniche e si sono dedicati al macello. ... Ma il sangue
chiama sangue. Il terrore politico instaurato in ottobre dai bolscevichi ha
sparso sulla Russia i suoi vapori sanguinari. La guerra civile aumenta le
atrocità, degradando gli individui allo stato selvaggio, alla ferocia. Sempre
più vengono dimenticati i grandi principi di autentica umanità che il
socialismo ha sempre insegnato.
Poi
Martov apostrofa Radek e Rakovskij, due socialisti che si erano uniti ai
bolscevichi, uno ebreo polacco e l'altro romeno-bulgaro: Siete venuti da noi
per coltivare la nostra antica barbarie conservata dagli zar, per incensare il
vecchio altare russo dell'assassinio, per portare a un livello ancora mai
visto, persino nel nostro paese selvaggio, il disprezzo della vita altrui, per
organizzare infine l'opera panrussa della «boiacrazia». ... Il boia e tornato a
essere la figura centrale della vita russa. A differenza del Terrore della
Rivoluzione francese che, eccezion fatta per la Vandea, non ha toccato che un
sottile strato della popolazione, sotto Lenin il terrore prende di mira tutte
le formazioni politiche e tutti gli strati della popolazione: nobili,
altoborghesi, militari, poliziotti, ma anche costituzionaldemocratici,
menscevichi, socialisti rivoluzionari, così come il popolo nel suo complesso,
contadini e operai. Gli intellettuali vennero particolarmente maltrattati e il
6 settembre 1919, dopo l'arresto di molte decine di grandi scienziati, Gor'kij
inviò una lettera furiosa a Lenin: Per me la ricchezza di un paese e la potenza
di un popolo si misurano con la quantità e la qualità del suo potenziale
intellettuale. La rivoluzione ha senso solo se favorisce la crescita e lo
sviluppo di questo potenziale. Gli uomini di scienza devono essere trattati con
il massimo di attenzioni e di rispetto. Noi invece, salvando la pelle, tagliamo
la testa del popolo, distruggiamo il nostro cervello! La brutalità della
risposta di Lenin fu all'altezza della lucidità della lettera di Gor'kij: Si avrebbe torto a equiparare le «forze
intellettuali» del popolo alle «forze» dell'intellighenzia borghese. ... Le
forze intellettuali degli operai e dei contadini crescono e si amplificano con
la lotta per il rovesciamento della borghesia e dei suoi accoliti, piccoli
intellettuali penosi, lacchè del capitale, che credono di essere il cervello
della nazione. In realtà non ne sono il cervello, ma la porcheria. Questo aneddoto
sugli intellettuali è un primo indizio del disprezzo profondo che Lenin nutriva
per i suoi contemporanei, comprese le menti più eccelse. Di lì a poco passerà
dal disprezzo all'assassinio. L'obiettivo prioritario di Lenin era quello di
conservare il potere il più a lungo possibile. Dopo dieci settimane, quand'ebbe
superato la durata della Comune di Parigi, iniziò a illudersi e la volontà di
serbare il potere venne decuplicata. Il corso della storia iniziò allora a
biforcarsi e la Rivoluzione russa, canalizzata dai bolscevichi, si avventurò
lungo un sentiero fino ad allora inesplorato. Perché il mantenimento del potere
era così importante da giustificare l'impiego di tutti i mezzi e l'abbandono
dei principi morali più elementari? Perché esso solo permetteva a Lenin di
mettere in pratica le sue idee, di «costruire il socialismo». La risposta pone
in luce il vero motore del terrore: l'ideologia leninista e la volontà,
interamente utopistica, di applicare una dottrina in totale distonia con la
realtà. Da questo punto di vista è legittimo chiedersi: cosa c'è di marxista
nel leninismo anteriore al 1914 e, soprattutto, in quello posteriore al 1917?
Certo, Lenin basava il suo tentativo su qualche elementare nozione marxista: la
lotta di classe, la violenza in quanto levatrice della Storia, il proletariato
come classe detentrice del senso della Storia.
Ma
fin dal 1902, Lenin proponeva un nuovo concetto del partito rivoluzionario, che
doveva essere costituito da rivoluzionari di professione riuniti in una
struttura clandestina retta da una disciplina di tipo militare. Egli riprendeva
e sviluppava il modello di Necaev, molto lontano dalla concezione delle grandi
organizzazioni socialiste tedesche, inglesi o francesi.
Fu
nel 1914 che sopraggiunse la rottura definitiva con la II Internazionale.
Mentre quasi tutti i partiti socialisti, di fronte alla brutale potenza del
sentimento nazionale, aderivano ai rispettivi governi, Lenin si lanciò in una
teorica fuga in avanti: profetizzò «la trasformazione della guerra imperialista
in guerra civile». Mentre un freddo ragionamento avrebbe portato a concludere
che il movimento socialista non era ancora abbastanza forte da poter bloccare
il nazionalismo e che dopo una guerra inevitabile - poiché non si era potuto
evitarla - sarebbe stato chiamato a raccogliere le proprie forze per impedire
ogni recidiva bellicista, in Lenin ebbe invece partita vinta la passione
rivoluzionaria: il suo fu un atto di fede, una scommessa, prendere o lasciare.
Per due anni la profezia leninista sembrò sterile. Poi, d'improvviso, la divina
sorpresa: la Russia entrava nella rivoluzione.
Lenin
era convinto che bisognava vedervi la conferma lampante della sua predizione.
Il volontarismo di Necaev ebbe la meglio sul determinismo di Marx. Se la
diagnosi sulla possibilità d'impadronirsi del potere era assolutamente esatta,
l'ipotesi che la Russia fosse pronta a percorrere la via del socialismo, da cui
sarebbe scaturito un progresso folgorante, si rivelò radicalmente falsa. È in
questo errore di valutazione che risiede una delle cause profonde del terrore,
in questo sfasamento tra la realtà - una Russia che aspirava ad accedere alla
libertà - e la volontà leninista di garantirsi il potere assoluto per poter
applicare una dottrina sperimentale.
Già
nel 1920 Trockij aveva ben definito questo concatenamento implacabile: È del
tutto evidente che se ci si da come compito quello dell'abolizione della
proprietà individuale dei mezzi di produzione, per pervenirvi non c'è altra via
che la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nelle mani del proletariato
e la creazione di un regime speciale durante il periodo transitorio.... La
dittatura è indispensabile poiché non si tratta di mutamenti parziali ma
dell'esistenza stessa della borghesia. Su questa base non è possibile nessun
accordo, solo la forza può decidere.... Chi vuole il fine non può rinunciare ai
mezzi. Dibattuto tra la volontà di applicare la sua dottrina e la necessità di
mantenere il potere, Lenin immaginò il mito della rivoluzione bolscevica
mondiale. A partire dal 1917 volle credere che l'incendio rivoluzionario
avrebbe devastato tutti i paesi implicati nella guerra, capofila la Germania.
Invece non ci fu nessuna rivoluzione mondiale e, dopo la disfatta tedesca del
novembre 1918, sorse una nuova Europa che non si preoccupò delle fiammelle
rivoluzionarie rapidamente estinte in Ungheria, in Baviera e nella stessa
Berlino. Il fallimento della teoria leninista della rivoluzione europea e
mondiale, evidente al momento della disfatta dell'Armata rossa sotto Varsavia
nel 1920, ma ammesso soltanto nel 1923 dopo l'insuccesso dell'Ottobre tedesco,
lasciò i bolscevichi da soli, a tu per tu con una Russia in piena anarchia.
Mai
come allora il terrore fu all'ordine del giorno, in quanto permetteva di
conservare il potere, di cominciare a rimodellare la società attenendosi alla
teoria e d'imporre il silenzio a tutti coloro che con i loro discorsi, le loro
esperienze o la loro sola esistenza - sociale, economica, intellettuale -
denunciavano ogni giorno la vacuità della teoria.
L'utopia
al potere divenne un'utopia omicida. Questo doppio sfasamento tra teoria
marxista e teoria leninista prima, e tra teoria leninista e realtà poi, ha dato
luogo al primo dibattito fondamentale sul significato della rivoluzione russa e
bolscevica. Già nell'agosto 1918 Kautsky emise un giudizio senz'appello: In
nessun caso è permesso supporre che in Europa occidentale si ripeteranno gli
avvenimenti della grande Rivoluzione francese.
Se
la Russia attuale mostra parecchie similitudini con la Francia del 1793 è la
prova che essa è prossima allo stadio della Rivoluzione francese. ...
Ciò
che sta succedendo laggiù non è la prima rivoluzione socialista ma l'ultima
rivoluzione borghese. Avvenne allora un fatto fondamentale: il mutamento
completo dello statuto dell'ideologia nel movimento socialista.
Già
prima del 1917 Lenin aveva dato prova della convinzione profonda di essere
l'unico a detenere la vera dottrina socialista, l'unico a decifrare il «senso
della Storia». L'irruzione della Rivoluzione russa e, soprattutto, la presa di
potere gli apparvero come «segni del Ciclo», come una conferma lampante,
incontestabile, che la sua ideologia e la sua analisi erano infallibili. Dopo
il 1917 la sua politica e l'elaborazione teorica che l'accompagna diventano vangelo.
L'ideologia
si trasforma in dogma, in verità assoluta e universale.
Questa
sacralizzazione ha conseguenze immediate, ben individuate da Cornè'lius
Castoriadis: Se c'è una teoria vera della storia, se c'è una razionalità che
opera nelle cose, è chiaro che la guida dello sviluppo dev'essere affidata agli
specialisti di questa teoria, ai tecnici di questa razionalità.
Il
potere assoluto del partito ... ha uno statuto filosofico; si basa sulla
concezione materialistica della storia. ... Se questa concezione è vera, il
potere dev'essere assoluto, la democrazia non è che una concessione alla
fallibilità umana dei dirigenti o un procedimento pedagogico che essi soli
possono somministrare a giuste dosi.
È
l'ascesa dell'ideologia e della politica a rango di verità assoluta e
«scientifica» che fonda la dimensione «totalitaria» del comunismo. E essa che
impone il partito unico. Ed è ancora essa che giustifica il Terrore.
E
che costringe il potere a investire tutti gli aspetti della vita sociale e
individuale.
Lenin
afferma la validità della sua teoria proclamandosi rappresentante di un
proletariato russo numericamente molto debole, che non esiterà a schiacciare
quando gli si rivolterà contro. Questa indebita appropriazione del simbolo
proletario è stata una delle grandi imposture del leninismo e già nel 1922
aveva provocato la replica crudele di Aleksandr èljapnikov, uno dei pochi
dirigenti bolscevichi di origine operaia, che nell'XI Congresso del Partito
apostrofò Lenin in questo modo: «Vladimir Die ha affermato ieri che il
proletariato come classe e nel senso marxista del termine non esisteva [in
Russia].
Permettetemi
di felicitarmi con voi per il fatto di esercitare la dittatura in nome di una
classe che non esiste!». Questa manipolazione del simbolo proletario si
ritroverà in tutti i regimi comunisti d'Europa come del Terzo mondo, dalla Cina
a Cuba.
Una
delle principali caratteristiche del leninismo risiede proprio in questa
manipolazione del linguaggio, nella separazione tra le parole e la realtà che
si ritiene rappresentino, in una visione astratta delle cose in cui la società
e gli uomini hanno perso ogni spessore e non sono altro che i pezzi di una
sorta di meccano storico e sociale.
Questa
astrazione, strettamente legata alla pratica ideologica, è un dato fondamentale
del terrore: non si sterminano gli uomini, ma i «borghesi», i «capitalisti», i
«nemici del popolo»; non si ammazzano Nicola II e la sua famiglia, ma i
«difensori del feudalesimo», le «sanguisughe», i parassiti, i pidocchi...
Questa
pratica ideologica ha avuto in brevissimo tempo un impatto considerevole grazie
al controllo del potere dello Stato, che procura legittimità, prestigio e
mezzi. In nome della verità del messaggio i bolscevichi sono passati dalla
violenza simbolica alla violenza reale e hanno instaurato un potere assoluto e
arbitrario che hanno chiamato «dittatura del proletariato», riprendendo
un'espressione che Marx aveva usato casualmente in una lettera.
I
bolscevichi, inoltre, intraprendono una formidabile opera di proselitismo: nutrono nuove speranze dando l'impressione
di rendere al messaggio rivoluzionario tutta la sua purezza originaria. Queste
speranze trovano una facile eco sia in coloro che sono animati da un desiderio
di vendetta dopo l'esito della guerra, sia in coloro - spesso gli stessi - che
sognano un rilancio del mito rivoluzionario.
Il
bolscevismo diventa rapidamente di portata universale e trova emuli nei cinque
continenti. Il socialismo si trova davanti a un bivio: democrazia o dittatura.
Con il libro La dittatura del proletariato, scritto nell'estate del 1918,
Kàutsky rigira il coltello nella piaga.
I
bolscevichi sono al potere solo da sei mesi e pochi indizi lasciano presagire
la carneficina che il loro sistema politico provocherà, quando Kàutsky mette a
fuoco il nocciolo della questione: L'opposizione delle due correnti socialiste
... si basa sull'opposizione di due metodi fondamentalmente differenti: il
metodo democratico e il metodo dittatoriale.
Le
due correnti vogliono la stessa cosa: l'emancipazione del proletariato, e con
lui dell'umanità, attraverso il socialismo.
Ma
la via scelta dagli uni è falsa e non può che condurre alla rovina, secondo gli
altri. ... La rivendicazione della libera discussione ci pone subito sul
terreno della democrazia. Lo scopo della dittatura, infatti, non è quello di
confutare l'opinione contraria, ma di sopprimerne violentemente l'espressione.
I
due metodi della democrazia e della dittatura, quindi, si oppongono l'uno
all'altro in modo irriducibile già prima dell'inizio della discussione. L'uno
esige la discussione, l'altro la rifiuta. Ponendo al centro del suo
ragionamento la democrazia, Kàutsky riflette: La dittatura di una minoranza
trova sempre l'appoggio più solido in un esercito fidato.
Ma
più la dittatura mette al posto della maggioranza la forza delle armi, più
costringe l'opposizione a cercare la propria salvezza nei pugni e nelle
baionette invece di ricorrere al voto, che le è rifiutato; allora la guerra
civile diventa il mezzo attraverso cui vengono risolti i contrasti politici e
sociali. Finché non regna la più perfetta apatia politica e sociale o il più
perfetto scoramento, la dittatura di una minoranza è costantemente minacciata
dai colpi di Stato o dalla guerriglia permanente.... Allora la dittatura non
riesce più a uscire dalla guerra civile e si confronta in ogni momento con il
pericolo di vedersi schiacciare dalla guerra civile.
E
non c'è maggior ostacolo alla costruzione di una società socialista di una
guerra intestina. ... In una guerra civile ogni partito combatte per la propria
esistenza e quello che fallisce è minacciato dell'annientamento totale.
È
questa consapevolezza che rende le guerre civili così crudeli. Questa analisi
premonitrice chiedeva imperativamente una: risposta. Furioso, e nonostante gli
immani compiti che aveva di fronte, Lenin scrisse un testo diventato famoso: La
rivoluzione proletaria e il rinnegato Kàutsky. Il titolo la diceva lunga sulla
piega che avrebbe preso la discussione... o, come aveva predetto Kàutsky, il
rifiuto della discussione. Lenin definì il punto centrale del suo pensiero e
della sua azione: «In mano alla classe dominante lo Stato è una macchina
destinata a schiacciare la resistenza dei suoi nemici di classe.
Da
questo punto di vista la dittatura del proletariato non si distingue in nulla
dalla dittatura di ogni altra classe, per i bolscevichi la guerra civile
diventa una forma permanente della lotta politica. La guerra civile dei Rossi
contro i Bianchi nasconde un'altra guerra, ben più importante e molto più
significativa, la guerra dei Rossi contro una parte considerevole del mondo
operaio e gran parte del mondo contadino che, a partire dall'estate del 1918,
cominciano a non sopportare più il giogo bolscevico. Questa guerra non oppone
più, come negli schemi tradizionali, due gruppi politici in conflitto, ma
contrappone il potere costituito alla maggior parte della società. Sotto Stalin
questa guerra opporrà il Partito-Stato a tutta la società nel suo insieme.
È
un fenomeno nuovo, inedito, e che potrà conoscere una certa durata e una certa
estensione solo grazie all'instaurazione di un sistema totalitario che
controlli il complesso delle attività della società e si basi su un terrore di
massa.
I
recenti studi compiuti sulla base degli archivi dimostrano che la «sporca
guerra» (Nicolas Werth) degli anni 1918-1921 è stata la vera e propria matrice
del regime sovietico, il crogiolo in cui si sono forgiati gli uomini che
avrebbero portato avanti e sviluppato la Rivoluzione, il calderone infernale in
cui si è formata la mentalità così particolare del comunista
leninista-stalinista, un misto di esaltazione idealistica, di cinismo e di
crudeltà disumana. Questa guerra civile, estesa dal territorio sovietico al
mondo intero e destinata a durare finché il socialismo non avesse conquistato
il pianeta, instaurava la crudeltà come modo di relazione «normale» tra gli
uomini.
Essa
ha provocato la rottura delle tradizionali barriere contro una violenza
assoluta, fondamentale. Tuttavia, fin dai primi giorni della Rivoluzione
bolscevica i problemi posti da Kautsky assillavano i rivoluzionari russi.
Isak
Stejnberg, socialista rivoluzionario di sinistra alleato con i bolscevichi e,
dal dicembre 1917 al maggio 1918, commissario del popolo per la Giustizia, sin
dal 1923 parlava, a proposito del potere bolscevico, di un «sistema di terrore
di Stato metodico» e poneva il problema centrale del limite della violenza
nella rivoluzione: il rovesciamento del vecchio mondo, la sua sostituzione con
una vita nuova ma che mantiene gli stessi mali, che è contaminata dagli stessi
vecchi principi, ecco ciò che mette il socialismo davanti a una scelta
cruciale: la violenza antica [zarista, borghese] o la violenza rivoluzionaria
nel momento della lotta decisiva....
La
violenza antica è solo una protezione morbosa della schiavitù, la violenza
nuova è il doloroso cammino verso l'emancipazione. ... È questo che determina
la nostra scelta: strumentalizziamo la violenza per farla finita per sempre con
la violenza. Contro di essa non c'è infatti nessun altro strumento di lotta. È
qui che si trova la ferita morale aperta dalla rivoluzione.
Qui
si rivelano la sua antinomia, il suo dolore interno, la sua contraddizione. E
aggiungeva: «Così come il terrore, la violenza (considerata anche sotto forma
di costrizione e di menzogna) contamina sempre i tessuti fondamentali
dell'anima, dapprima del vinto, contemporaneamente del vincitore e in seguito
della società tutt'intera». G. Stejnberg era cosciente dei rischi enormi che
correva il loro esperimento dal semplice punto di vista della «morale
universale» o del «diritto naturale». Gor'kij era nello stesso stato d'animo
quando, il 21 aprile 1923, scrisse a Romain. Rolland: «Non sento nessun
desiderio di tornare in Russia.
Non
potrei scrivere se dovessi sprecare il mio tempo a ripetere sempre la stessa
antifona: "Non uccidere"».
Tutti
gli scrupoli dei rivoluzionari non bolscevichi e le ultime apprensioni dei
bolscevichi furono spazzate via dalla furia di Lenin, cui Stalin diede poi il
cambio. E il 2 novembre 1930 Gor'kij, che nel frattempo aveva aderito alle idee
del «capo geniale», poté scrivere in un'altra lettera a Romain Rolland: Credo,
Rolland, che lei avrebbe giudicato le vicende interne dell'Unione [Sovietica]
con più serenità ed equità se avesse accolto questo semplice fatto: il regime
sovietico e l'avanguardia del partito operaio si trovano in stato di guerra
civile, cioè di guerra di classe. Il nemico contro cui lottano - e devono
lottare - è l'intellighenzia, che si sforza di restaurare il regime borghese, e
il contadino ricco che, difendendo i suoi piccoli beni, base del capitalismo,
impedisce l'opera di collettivizzazione.
Il
nemico è ricorso al terrore, all'assassinio dei collettivisti, all'incendio dei
beni collettivizzati e ad altri metodi della guerra partigiana. In guerra si
uccide. La Russia conobbe allora una terza fase rivoluzionaria, impersonata
fino al 1953 da Stalin. Questa terza fase fu caratterizzata da un terrore
generalizzato, simboleggiato dalle grandi purghe degli anni 1937-1938. Ormai
viene presa di mira tutta la società, nonché l'apparato statale e il Partito.
Stalin definisce via via i gruppi nemici da eliminare. E il nuovo terrore non
aspetta la circostanza eccezionale della guerra per scatenarsi.
Prende
l'avvio in tempo di pace esterna. Contrariamente a Hitler il quale, salvo
eccezioni, non si è mai occupato della repressione lasciando questi compiti
«subalterni» a uomini di fiducia come Himmler, Stalin se ne interessa da vicino
e ne è l'iniziatore e l'organizzatore. Firma personalmente la lista delle migliaia
di persone da fucilare e costringe gli uomini dell'Ufficio politico a fare
altrettanto. Sotto il Grande terrore, in quattordici mesi, dal 1937 al 1938,
durante quarantadue grandi operazioni ponderatamente organizzate, 1 milione
800.000 persone vengono arrestate e quasi 690.000 assassinate.
Il
clima di guerra civile, più o meno «calda» o «fredda», intensa e aperta o
dissimulata e latente, è costante. L'espressione «guerra di classe», spesso
preferita a quella di «lotta di classe», non è più metaforica. Il nemico
politico non è più il tale o il talaltro oppositore e neppure la «classe
nemica», ma la società tutt'intera. Era inevitabile che prima o poi, per
contagio, il terrore che mirava alla distruzione della società colpisse anche
quella controsocietà costituita dal partito al potere. Già sotto Lenin, a
partire dal 1921, i dissenzienti o gli oppositori erano stati puniti.
I
nemici potenziali restavano però coloro che non erano membri del Partito. Sotto
Stalin i membri del Partito diventano a loro volta nemici potenziali.
Bisognerà
tuttavia attendere l'assassinio di Kirov perché Stalin, cogliendo il pretesto,
ottenga di applicare la pena capitale anche ai membri del Partito. In tal modo
egli si ricollega a Necaev, a cui Bakunin, nella sua lettera di rottura del
giugno 1870, scriveva: Alla base della nostra attività dev'essere questa legge
semplice: verità, onestà, fiducia tra tutti i fratelli [rivoluzionari], la
menzogna, l'astuzia, la mistificazione e – per necessità - la violenza devono
essere usate solo contro i nemici. ... Mentre lei, caro : -amico - ed è qui il
suo principale e colossale errore - si è invaghito dei sistemi di Loyola e di
Machiavelli. ... Animato dai principi e dai metodi polizieschi e gesuitici, ha
pensato bene di fondare su di essi la sua organizzazione ... per cui si
comporta con gli amici come se fossero suoi nemici. Un'altra innovazione
stalinista consiste nel fatto che i carnefici sono destinati a diventare a loro
volta vittime. Dopo l'assassinio di Zinov'ev e di Kamenev, suoi vecchi compagni
di partito, Buharin dichiara alla moglie: «Sono felice che quei cani siano
stati fucilati». Meno di due anni dopo sarà lui stesso a venir fucilato come un
cane. Questa caratteristica dello stalinismo si ritrova in quasi tutti i regimi
comunisti.
Prima
di eliminare certi suoi «nemici», Stalin riservò loro una sorte particolare: li
fece comparire in processi spettacolari. Lenin aveva inaugurato questa formula
nel 1922 con il primo processo truccato, quello dei socialisti rivoluzionari.
Stalin
perfezionò questo procedimento e ne fece una costante dell'apparato repressivo,
poiché dopo il 1948 l'applicò anche nell'Europa dell'Est. Annie Kriegel ha ben
mostrato il formidabile meccanismo di prevenzione sociale costituito da questi
processi, la cui dimensione di «pedagogia infernale» sostituiva, sulla terra,
l'inferno promesso dalle religioni. Simultaneamente veniva messa in atto una
pedagogia dell'odio di classe, della stigmatizzazione del nemico. Nel comunismo
asiatico questa procedura è stata spinta all'estremo, giungendo al punto di
organizzare vere e proprie giornate dell'odio.
Alla
pedagogia dell'odio Stalin aveva aggiunto la pedagogia del mistero: il segreto
più assoluto circondava gli arresti, le accuse, le condanne, la sorte delle
vittime.
Mistero
e segreto, strettamente uniti al terrore, alimentavano un'opprimente angoscia
in tutto l'insieme delle popolazioni. I bolscevichi, considerandosi in guerra,
istituiscono tutta una terminologia per designare il nemico: «agenti nemici»,
«popolazioni che fanno causa comune con il nemico» ecc. Improntata al modello
bellico, la politica è ricondotta a termini semplicistici, è definita come
relazione amico/nemico, come rivendicazione di un «noi» opposto a un «loro».
Essa implica una visione in termini di «campo», ancora un'espressione militare:
il campo rivoluzionario, il campo controrivoluzionario.
A
ciascuno viene imposto di scegliere il proprio campo, sotto pena di morte. Si
tratta di una grave regressione a uno stadio arcaico della politica, che
cancella centocinquant'anni di sforzi della borghesia democratica e
individualista. Come definire il nemico? Poiché la politica è ricondotta a una
guerra civile generalizzata in cui si contrappongono due forze - la borghesia e
il proletariato - e necessita dello sterminio di una delle due parti ricorrendo
ai mezzi più violenti, il nemico non è solo l'uomo del vecchio regime,
l'aristocratico, l'altoborghese, l'ufficiale, ma chiunque si dichiari contrario
alla politica bolscevica e venga qualificato come «borghese». Il «nemico»
designa ogni persona o categoria sociale che, nella mente dei bolscevichi, sia
di ostacolo al potere assoluto.
Il
fenomeno appare immediatamente; e ciò anche in sedi in cui il terrore è ancora
assente: le assemblee elettorali dei soviet. Kautsky - l'aveva presentito e nel
1918 scriveva: [Nei soviet] hanno diritto di votò solo coloro che «hanno
acquisito i loro mezzi di sussistenza con il lavoro produttivo o proficuo per
tutti». Ma cosa significa «il lavoro produttivo o proficuo per tutti»?
È
un'espressione elastica. Elastica è anche l'ordinanza concernente coloro che
sono esclusi dal diritto di voto, compresi coloro che «impiegano operai
salariati per trarne profitto». ... È chiaro che basta poco per essere tacciato
di capitalista sotto il regime elettorale della Repubblica sovietica e per
perdere il diritto di voto.
La
natura elastica delle definizioni delle parole della legge elettorale apre la
porta al regno dell'arbitrio più palese e non è dovuta al sistema legislativo
ma al suo oggetto.
Non
si riuscirà mai a definire in maniera giuridica inattaccabile e precisa il
termine «proletariato». Dato che il termine «proletario» aveva sostituito
quello di «patriota» sotto Robespierre, la categoria del nemico è a statuto
variabile e può gonfiarsi o sgonfiarsi a seconda della politica del momento.
Essa diventa un elemento fondamentale della teoria e della pratica comuniste.
Tzvetan
Todorov precisa: II nemico è la grande giustificazione del terrore; lo Stato totalitario
non può vivere senza nemici.
Se
non ce n'è, se li inventerà. Una volta identificati, costoro non meritano
nessuna pietà. ...
Essere
nemico è una tara inguaribile ed ereditaria. ... Qualche volta si insiste sul
fatto che gli ebrei erano perseguitati non per ciò che avevano fatto ma per ciò
che erano: ebrei. Il potere comunista non si comporta in maniera diversa: esige
la repressione (o, nei momenti di crisi, l'eliminazione) della borghesia in
quanto classe. La semplice appartenenza a questa classe e quanto basta, non è
necessario qualcosa.
Rimane
insoluto un problema essenziale: perché sterminare il «nemico»? Il ruolo
tradizionale della repressione è, secondo il titolo di un'opera famosa,
«sorvegliare e punire». La fase del «sorvegliare e punire» era forse già stata
superata?
Il
«nemico di classe» era irrecuperabile? Solzenicyn da una prima risposta dicendo
che nel gulag i detenuti per reati comuni erano sistematicamente trattati
meglio dei prigionieri politici. Non soltanto per motivi pratici - servivano a
sorvegliare gli altri detenuti - ma per motivi «teorici». Infatti il regime
sovietico si vantava di creare un «uomo nuovo», anche attraverso la
rieducazione dei criminali più incalliti. Quest'ultima fu persino un argomento
molto efficace della sua propaganda, tanto nella Russia di Stalin quanto nella
Cina di Mao o nella Cuba di Castro.
Ma
perché bisogna uccidere il «nemico»? Che la politica consista, tra le altre
cose, nell'identificare amici e nemici, non è di per sé una novità.
Già
il Vangelo aveva decretato: «Chi non è con me è contro di me». La novità
consiste nel fatto che Lenin non solo stabilisce che «chi non è con me è contro
di me», ma anche che «chi è contro di me deve morire» e generalizza questa
argomentazione dal campo della politica a quello dell'intera società. Con il
terrore si assiste a una doppia mutazione: l'avversario, prima nemico e poi
criminale, viene trasformato in «escluso». Questa esclusione sfocia quasi
automaticamente nell'idea di sterminio.
Infatti
la dialettica amico/nemico è ormai insufficiente a risolvere il problema
fondamentale del totalitarismo: si tratta di costruire un'umanità riunificata e
purificata, non antagonista, attraverso la dimensione messianica del progetto
marxista di unità nel e tramite il proletariato. Questo progetto giustifica il
processo di unificazione forzata - del Partito, della società, poi dell'impero
- che scarta come rifiuti coloro che non rientrano nel disegno complessivo.
Da
una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione,
quindi verso un'ideologia dell'eliminazione e, infine, dello sterminio di tutti
gli elementi impuri. Come conclusione finale di questa logica c'è il crimine
contro l'umanità.
L'atteggiamento di certi comunismi asiatici -
Cina, Vietnam - è un po' diverso. Probabilmente la tradizione confuciana ha
avuto come effetto quello di concedere più spazio alla rieducazione.
Il
laogai cinese si distingue per l'istituzione che costringe il prigioniero -
considerato come «allievo» o «studente» - a riformare il proprio pensiero sotto
il controllo dei suoi carcerieri-professori. Ma in questo genere di
«rieducazione» non c'è forse un atteggiamento meno franco e ancor più ipocrita
che nell'assassinio puro e semplice?
Non
è forse peggio costringere i nemici a rinnegare le proprie idee e a
sottomettersi a quelle dei loro carnefici? I khmer rossi, da parte loro, hanno
adottato da subito una soluzione radicale: considerando che la rieducazione di
una parte del popolo era impossibile in quanto quest'ultima era troppo «corrotta»,
hanno deciso di cambiare popolo. Da qui lo sterminio di tutta la popolazione
intellettuale e urbanizzata, anche in questo caso con la volontà di distruggere
il nemico dapprima sul piano psicologico, disgregandone la personalità e
imponendogli un'«autocritica» in cui si copre di disonore, senza che ciò serva
comunque a evitargli la pena di morte.
I
dirigenti dei regimi totalitari rivendicano il diritto di mandare a morte i
loro simili e ne hanno la «forza morale». La giustificazione di base è sempre
la stessa: «la necessità fondata sulla scienza». Riflettendo sulle origini del
totalitarismo, Tzvetan Todorov scrive:
È
stato lo scientismo e non l'umanesimo ad aver contribuito a gettare le basi
ideologiche del totalitarismo. ...
Il
rapporto tra scientismo e totalitarismo non si limita a una giustificazione
delle azioni in virtù di una presunta necessità scientifica (biologica o
storica): bisogna già praticare lo scientismo (foss'anche «selvaggio») per
credere alla trasparenza perfetta della società e quindi alla possibilità di
trasformare quest'ultima in rapporto al proprio ideale e per mezzo di una
rivoluzione.
Già
nel 1919 Trockij illustra con forza questo proposito: II proletariato è una
classe storicamente in ascesa... La borghesia, all'epoca attuale, è una classe
in decadenza.
Non
solo non svolge il ruolo essenziale nella produzione ma, attraverso i suoi
metodi imperialisti di appropriazione, distrugge l'economia mondiale e la
cultura umana. La vitalità storica della borghesia è però colossale.
Si
aggrappa al potere e non molla la presa. Per questo minaccia di trascinare
nella sua caduta tutta la società. Per strapparle il potere dalle mani occorre
tagliargliele. Il terrore rosso è l'arma impiegata contro una classe votata a
morire e che non vi si rassegna.
E
conclude: «La rivoluzione violenta è diventata una necessità proprio perché le
esigenze immediate della storia non potevano essere soddisfatte dall'apparato
della democrazia parlamentare».
Ritroviamo
qui la divinizzazione della Storia, a cui tutto dev'essere sacrificato, e
l'incurabile ingenuità del rivoluzionario che con la sua dialettica pensa di
poter favorire l'emergere di una società più giusta e più umana ricorrendo a
metodi criminali. Dodici anni più tardi Gor'kij dirà le cose in maniera ancor
più brutale: «Abbiamo contro di noi tutto quello che dal punto di vista storico
ha ormai il tempo contato e ciò ci da il diritto di considerarci come se
fossimo sempre in una situazione di guerra civile.
Da cui deriva, ovviamente, la conclusione: se
il nemico non si arrende, lo si stermina».
E
Aragon, lo stesso anno, mise tutto questo in versi: «Gli occhi azzurri della
Rivoluzione brillano di crudeltà necessaria». Kautsky, in compenso, aveva
abbordato fin dal 1918 il problema con molto coraggio e franchezza.
Lasciando
da parte ogni feticismo verbale scriveva: In realtà il nostro scopo finale non
è il socialismo ma quello di abolire «ogni tipo di sfruttamento e di
oppressione, che sia rivolto contro una classe, un partito, un sesso o una
razza». ...
Se
riuscissero a dimostrarci che abbiamo torto a non credere che la liberazione
del proletariato e dell'umanità in genere possa realizzarsi unicamente o più
comodamente sulla base della proprietà privata dei mezzi di produzione, allora
dovremmo buttare a mare il socialismo senza per questo rinunciare al nostro
scopo finale, dovremmo farlo precisamente nell'interesse del nostro scopo
finale. Kautsky anteponeva chiaramente l'umanesimo allo scientismo marxista, di
cui era peraltro il più eminente rappresentante.
La
condanna a morte propriamente detta necessita di una pedagogia. Di fronte
all'esitazione che ognuno mostra nell'uccidere il prossimo, la pedagogia più
efficace consiste nel negare l'umanità della vittima, nella sua pregiudiziale
«disumanizzazione».
Alain
Brossat osserva giustamente: «II rito barbaro delle epurazioni, il
funzionamento perfetto della macchina sterminatrice sono strettamente legati,
nei discorsi e nella pratica delle persecuzioni, all'animalizzazione
dell'Altro, alla riduzione dei nemici immaginari e reali allo stato zoologico».
E infatti durante i grandi processi di Mosca il procuratore Vysinskì],
intellettuale, giurista e uomo dalla solida formazione classica, si lasciò
andare a un eccesso di «animalizzazione» degli accusati: Addosso ai cani
rabbiosi! A morte la banda che nasconde al popolo i propri canini bestiali, i
denti da rapace!
Al
diavolo l'avvoltoio Trockij, schiumante di bava velenosa con cui inzacchera le
grandi idee del marxismo-leninismo! Mettiamo nell'impossibilità di nuocere questi
bugiardi, questi istrioni, questi pigmei miserabili, questi cani ringhiosi,
questi cuccioli di cane che si scagliano contro un elefante! ... Sì, abbasso
questa abiezione animale! Facciamola finita con questi detestabili ibridi di
volpi e maiali, queste carogne puzzolenti. Che la smettano con i loro grugniti
maialeschi! Sterminiamo questi cani rabbiosi del capitalismo che vogliono fare
a pezzi i migliori uomini della nostra terra sovietica! Ricacciamogli in gola
l'odio bestiale rivolto ai dirigenti del nostro Partito!
Fissando
questa segregazione e queste classificazioni - come se fossero definitivamente
stabilite e come se gli individui non potessero passare da una categoria
all'altra - il marxismo-leninismo instaura il primato della categoria e
dell'astrazione sul reale e sull'umano; ogni individuo o gruppo è visto come
archetipo di una sociologia schematica e incorporea. Ciò rende il crimine più
facile: il delatore, l'inquirente, il carnefice dell'NKVD non denuncia, non
persegue, non –uccide un uomo, ma elimina un'astrazione dannosa al genere
umano. La dottrina è diventata un'ideologia criminogena per il semplice fatto
di negare un dato fondamentale, l'unità di ciò che Robert Antelme chiama «la
specie umana» o ciò che il preambolo della Dichiarazione dei diritti umani del
1948 denomina «la famiglia umana». Forse le radici del marxismo-leninismo
affondano meno in Marx che in un darwinismo degenerato applicato alla questione
sociale e che finisce per ripetere gli stessi errori della questione razziale?
Una cosa è certa.
Il
crimine contro l'umanità è il prodotto di un'ideologia che riduce l'uomo e
l'umanità a una condizione non universale ma particolare: biologico razziale o
storico-sociale. Anche qui, grazie alla propaganda, i comunisti sono riusciti a
far credere che il loro progetto avesse un carattere universale, che
riguardasse tutta l'umanità. Spesso si è anche cercato di istituire una
distinzione radicale tra nazismo e comunismo basandosi sul fatto che il
progetto nazista era particolare — strettamente nazionalista e razzista —,
mentre il progetto leninista sarebbe stato universalista. Nulla di più falso.
Nella
teoria e nella pratica Lenin e i suoi successori hanno chiaramente escluso
dall'umanità il capitalista, il borghese, il controrivoluzionario ecc.
Riprendendo le parole tipiche del discorso sociologico o politico ne hanno
fatto dei nemici assoluti.
E,
come diceva Kautsky nel 1918, si tratta di parole «elastiche» che autorizzano a
escludere dalla specie umana chi si vuole, quando lo si vuole e come lo si
vuole, e che conducono direttamente al crimine contro l'umanità. Mireille
Delmas-Marty scrive: «Biologi come Henri Atlan riconoscono essi stessi che la
nozione di umanità supera l'approccio biologico e che la biologia ha "poco
da dire sulla persona umana". ... È vero che si può benissimo considerare
la specie umana come una specie animale fra tante altre, una specie che l'uomo
impara da sé a fabbricare, così come già fabbrica specie animali o vegetali».
Non
è forse quello che hanno tentato di fare i comunisti? L'idea dell'«uomo nuovo»
non è al centro del progetto comunista? Dei Lysenko megalomani non hanno
cercato di creare, oltre a nuove specie di mais o di pomodoro, una nuova specie
umana? Questa mentalità scientistica della fine del XIX secolo, contemporanea
al trionfo della medicina, ha ispirato a Vasilij Grossman quest'osservazione
sui capi bolscevichi: «Un carattere del genere si comporta in mezzo all'umanità
come un chirurgo nei reparti di una clinica.... La sua anima è nel suo bisturi.
L'essenza di uomini simili sta nella fede fanatica nell'onnipotenza del
bisturi.
Il
bisturi chirurgo è il grande teorico, il leader filosofico del XX secolo, è
spinto fino alle estreme conseguenze da Poi Fot che, con una spaventosa
operazione chirurgica, ha amputato la parte «incancrenita» del popolo - il
«nuovo popolo» - e conserva la parte «sana», il «vecchio popolo». Per quanto
folle possa sembrare, l'idea non è nuova. Già negli anni Settanta
dell'Ottocento Petr Tkacèv, rivoluzionario russo e degno emulo di Necaev,
proponeva di sterminare tutti i russi che avessero più di 25 anni in quanto non
idonei a realizzare l'ideale rivoluzionario. Nella stessa epoca, in una lettera
a Necaev, Bakunin s'indignava di questa idea folle: «II nostro popolo non è un
foglio bianco su cui ogni società segreta può scrivere ciò che le pare, per
esempio il suo programma comunista». È vero che l'Internazionale acclama:
«Facciamo tabula rasa del passato» e che Mao si paragonava a un poeta geniale
che scriveva in bella grafia sul sopra citato foglio bianco. Come se una
civiltà plurimillenaria potesse essere considerata un foglio bianco! II terrore
che abbiamo evocato è stato sì fondato in URSS sotto Lenin e Stalin, ma
comprende un certo numero di costanti che si ritrovano, a un diverso grado
d'intensità, in tutti i regimi che si richiamano al marxismo-leninismo. Ogni
paese o partito comunista ha vissuto una sua storia specifica, con le sue
particolarità locali e regionali, i suoi casi più o meno patologici, ma essi si
sono sempre inquadrati nella matrice elaborata a Mosca a partire dal novembre
1917, che ha quindi imposto una specie di codice genetico. Come comprendere gli
attori di questo sistema terrificante? Avevano caratteristiche particolari?
Sembra che ogni regime totalitario abbia suscitato delle vocazioni e abbia
saputo scoprire e promuovere gli uomini in grado di farlo funzionare.
Il
caso di Stalin è singolare. In campo strategico è stato un degno erede di
Lenin, capace di osservare un caso locale e abbracciare una situazione
mondiale.
E
probabilmente, agli occhi della Storia, apparirà come il più grande uomo
politico del XX secolo, essendo riuscito a innalzare la piccola Unione
Sovietica del 1922 al rango di superpotenza mondiale e a imporre per decenni il
comunismo come alternativa al capitalismo. Fu anche uno dei più grandi
criminali di un secolo peraltro ricco di carnefici di alto livello.
Bisogna
forse vedere in lui un novello Caligola, stando a quanto scrivevano Boris
Suvarin e Boris Nikoiaevskij nel 1953?
I
suoi atti erano quelli di un puro paranoico, come lasciava intendere Trockij?
Non erano invece quelli di un fanatico estremamente dotato per la politica e a
cui ripugnavano i metodi democratici? Stalin è andato fino in fondo al processo
avviato da Lenin e caldeggiato da Necev; ha fatto ricorso a mezzi estremi per condurre
una politica estrema.
Il
fatto che Stalin abbia deliberatamente scelto la via del crimine contro
l’umanità come modo di governo ci rimanda anche alla dimensione propriamente
russa del personaggio. Osseto del Caucaso, tutta la sua infanzia e
l'adolescenza sono state ritmate dalle storie dei briganti dal cuore d'oro, gli
abrék, montanari caucasici che erano stati banditi dal loro clan o che avevano
prestato giuramento di una sanguinaria vendetta, combattenti mossi dal coraggio
della disperazione.
Lui
stesso adottò lo pseudonimo «Koba», dal nome di uno di quei mitici principi
briganti, una sorta di Robin Hood ;che si prendeva a cuore la sorte delle
vedove e degli orfanelli. Ebbene, nella sua lettera di rottura con
Necaev/Bakunin scrive: Ricordate come vi arrabbiavate quando vi definivo abrek,
e il vostro catechismo un catechismo da abrek; dicevate che tutti gli uomini
devono comportarsi così, che l'abnegazione totale e la rinuncia a tutti i
bisogni personali, a tutte le soddisfazioni, a sentimenti, affetti e legami
devono essere lo stato normale, naturale e quotidiano di tutti, senza
eccezioni. Della vostra crudeltà piena di abnegazione e del vostro estremo
fanatismo volete fare, anche adesso, una regola di vita della comunità.
Volete
delle insulsaggini, delle cose impossibili, la negazione totale della natura
dell'uomo e della società. Malgrado il suo impegno rivoluzionario totale,
Bakunin aveva percepito fin dal 1870 che anche l'azione rivoluzionaria deve sottomettersi
a certi fondamentali obblighi morali.
Il
terrore comunista è spesso stato paragonato a quello inaugurato dalla Santa
Inquisizione cattolica nel 1199. E qui il romanziere ci illumina forse meglio
dello storico. Nel suo magnifico romanzo La Tunique d'infamie Michel del
Castillo osserva: «II fine non è quello di torturare o di bruciare: esso
consiste nel porre le domande giuste. Nessun terrore senza verità, che è il suo
fondamento. Se non si possedesse la verità, come si riconoscerebbe l'errore? ...
Dal momento in cui si ha la certezza di possedere la verità, come risolverai a
lasciare il prossimo nell'errore?». La Chiesa prometteva il perdono del peccato
originale e la salvezza nell'aldilà oppure il fuoco di un inferno
sovrannaturale. Marx credeva a un'autoredenzione prometeica dell'umanità.
Fu
il sogno messianico del «Sol dell'avvenire». Ma, per Leszek Kolakowski, l'idea
che il mondo esistente è talmente corrotto che sia impensabile migliorarlo e
che, proprio per questo, il mondo che gli succederà apporterà il massimo di
perfezione e di liberazione, ebbene questa idea è una delle aberrazioni più
mostruose della mente umana. ... Certo, questa aberrazione non è un'invenzione
della nostra epoca; ma bisogna riconoscere che nel pensiero religioso che contrappone
alla totalità dei valori temporali la forza della grazia sovrannaturale essa è
molto meno abominevole che non nelle dottrine «terrene», che ci garantiscono la
salvezza passando d'un sol balzo dall'abisso dell'inferno alle cime celesti.
Ernest
Renan aveva probabilmente visto giusto quando, nei suoi Dialoghi filosofici,
considerava che per garantirsi il potere assoluto in una società di atei non
bastasse più minacciare i refrattari del fuoco di un inferno mitologico ma
occorresse instaurare un «inferno reale» un campo di concentramento atto a
piegare i rivoltosi e a intimidire tutti gli altri e retto da una polizia
speciale, composta da individui privi di scrupoli morali e interamente votati
al potere costituito, delle «macchine obbedienti, disposte alle peggiori
crudeltà». Nel 1953, dopo la liberazione della maggior parte dei prigionieri
del gulag, e anche dopo il XX Congresso del PCUS, se una certa forma di terrore
non era più all'ordine del giorno il principio del terrore funzionava lo stesso
e continuava a essere efficace. La memoria del terrore bastava a paralizzare le
volontà, come ricorda Amo Kuusinen: Perché?
È
il ricordo di questo terrore che pesava sugli animi, nessuno sembrava credere
che Stalin fosse davvero scomparso dalla circolazione. Non c'era quasi famiglia
a Mosca che non avesse dovuto soffrire per le sue persecuzioni, e tuttavia non
se ne parlava mai. E così, per esempio, che io stesso non evocavo mai in
presenza di amici i ricordi della prigione e del campo.
Ed
essi non mi facevano mai domande. La paura era troppo profondamente radicata
nel loro animo. Se le vittime portavano in permanenza questa memoria del
Terrore, i carnefici continuavano a basarsi su di essa. In pieno periodo
brezneviano l'URSS stampò un francobollo che commemorava il cinquantesimo
anniversario della Ceka, pubblicando una raccolta in suo omaggio.
Per
concludere, lasciamo un'ultima volta la parola a Gor'kij, nel suo necrologio di
Lenin del 1924: Una mia vecchia conoscenza, un operaio di Sormov, un uomo
dolce, si lamentava che era duro lavorare per la Ceka. Gli ho risposto: «Mi
sembra anche che non faccia per lei, che non sia nel suo carattere». Ne
convenne tristemente: «No, assolutamente».
Ma
dopo averci pensato su, aggiunse: «Tuttavia, quando penso che sicuramente anche
Ilic si troverà spesso costretto a trattenere l'anima per le ali, ho vergogna
della mia debolezza». Capitava davvero, a Lenin, di «trattenere l'anima per le
ali»?
Badava
troppo poco a se stesso per parlare di sé con gli altri; sapeva tacere sulle
segrete tempeste della sua anima meglio di chiunque altro. Una volta, però,
accarezzando dei bambini, mi disse: «La loro vita sarà migliore della nostra;
molto di ciò che abbiamo vissuto gli sarà risparmiato. La loro vita sarà meno
crudele». E guardando lontano soggiunse pensieroso: «E comunque non li invidio.
La
nostra generazione ha portato a termine un compito straordinario per la sua
portata storica.
La
crudeltà della nostra vita, imposta dalle circostanze, sarà capita e perdonata.
Tutto sarà capito, tutto!». Sì, tutto comincia a essere capito, ma non nel
senso in cui l'intendeva Vladimir
Ilic Ul'janov. Cosa resta oggi di quel «compito straordinario per
la sua portata storica»?
Non
un'illusoria «costruzione del socialismo», ma un'immensa tragedia che continua
a pesare sulla vita di centinaia di milioni di uomini e che caratterizzerà
l'entrata nel terzo millennio. Vasiirj Grossman, il corrispondente di guerra di
Stalingrado, lo scrittore che si vide confiscare dal KGB il manoscritto della
sua opera principale e che ne morì, ne trae comunque una lezione di ottimismo
che facciamo nostra: II nostro è il secolo della massima violenza dello Stato
sull'uomo. Ma ecco in che cosa stanno la forza e la speranza degli uomini.
Proprio il XX secolo ha fatto vacillare il principio hegeliano del progresso
storico mondiale: «Tutto ciò che è reale è razionale», un principio che i
pensatori russi dello scorso secolo assimilarono in ansiose discussioni
decennali.
E
proprio oggi, capovolgendo la legge di Hegel, nell'epoca del trionfo della
potenza dello Stato sulla libertà dell'uomo, i pensatori russi dei lager,
chiusi nei loro giubboni imbottiti, sono andati preparando il supremo principio
della storia mondiale: «Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile». Sì, sì,
sì, nell'epoca del pieno trionfo della disumanità, è divenuto evidente che
tutto ciò che viene creato dalla violenza è insensato e inutile, esiste senza
avvenire, non lascia traccia.
Tratto e sintetizzato
liberamente da « Il libro nero del comunismo » ed. Mondadori – tutti
dovremmo possedere un tale lavoro scientifico nelle nostre librerie.