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Avvenire - Martedi 02 Aprile 2002
DENUNCIA: Dalla libertà limitata alle condanne
capitali, mappa delle violazioni musulmane dei diritti.
Parla Khalil Samir
Cristiani:
dove l'islam opprime
Egiziano con passaporto italiano, gesuita,
docente universitario a Beirut: il Centro di Studi sull'Ecumenismo ha scelto
uno dei maggiori esperti internazionali di islamologia, padre Samir Khalil
Samir, per rispondere alle scottanti «Cento domande sull'islam», appena
pubblicate da Marietti 1820 per la cura dei giornalisti di «Avvenire» Giorgio
Paolucci e Camille Eid (pp. 224, euro 13).
Un manuale (del quale pubblichiamo in
questa pagina un estratto) in cui si trovano sia i fondamenti dottrinali e
storici del credo musulmano, sia i problemi moderni: dalla condizione femminile
all'immigrazione in Occidente, al terrorismo.
La maggioranza dei non musulmani nei Paesi
islamici è costituita oggi da cristiani: sono 90 milioni che vivono insieme a
900 milioni di musulmani.
Qual
è il grado di libertà religiosa che viene loro riconosciuto?
«La situazione della libertà religiosa
nell'islam è molto differente da Paese a Paese.
Si va dal divieto di mostrare simboli
religiosi sugli edifici o sul corpo (per esempio, la croce al collo) agli
ostacoli frapposti alla professione e alla diffusione della fede, alla
costruzione e ristrutturazione di luoghi di culto, fino al divieto di celebrare
la messa persino in privato o di introdurre nei Paesi testi religiosi non
musulmani.
Le differenze dipendono in larga misura dal
contesto politico, culturale e nazionale locale, nonché dalla tipologia della
presenza cristiana.
Ci sono, infatti, Paesi dove la percentuale
dei cristiani è consistente, e altri dove è molto esigua (40-45% in Libano; 40%
in Nigeria; 35% in Ciad; 8-10% in Egitto, Indonesia, Sudan; 8% in Siria; 4% in
Iraq; 3% in Pakistan meno dell'1% in Turchia, Iran e Africa del Nord);
Paesi dove viene applicata la sharia, altri
dove l'islam è dichiarato religione di Stato, ed altri ancora che hanno optato
per una certa laicità;
Paesi dove il cristianesimo viene
considerato una realtà autoctona, come in Egitto, Libano, Giordania, Iraq,
Siria e Palestina, altri in cui risulta professato da comunità straniere, come
nel Maghreb e negli Stati del Golfo.
Lo Stato in cui si verificano le maggiori
restrizioni alla libertà religiosa è l'Arabia Saudita, che vieta ogni culto che
non sia musulmano perché ritenuta interamente "suolo sacro".
Tra i sei milioni di lavoratori stranieri,
almeno 600 mila sono cristiani e non possono celebrare il culto nemmeno in forma
privata.
La
partecipazione a riunioni clandestine di preghiera, come pure il possesso di
materiale non islamico (bibbie, rosari, croci, immagini sacre), comportano
l'arresto e l'espulsione, o addirittura la pena capitale.
Un altro caso di aperta discriminazione è
quello del Pakistan dove i cristiani sollecitano da anni il ritiro della legge
sulla blasfemia e la revisione della legislazione a impronta marcatamente
islamica».
L'islam
vieta i suoi fedeli di passare a un'altra fede religiosa e la trasgressione di
questo divieto comporta conseguenze molto gravi.
Quali sono i fondamenti teologici e
giuridici della norma e le sanzioni previste per chi la viola? «Nell'islam la
libertà religiosa viene concepita anzitutto come libertà di aderire alla vera religione,
che è l'islam, mentre il passaggio ad altre fedi è giudicato qualcosa di
innaturale e quindi viene severamente proibito.
I musulmani liberali sottolineano però che
Maometto non ha mai chiesto di uccidere un apostata, e anzi è intervenuto in due
occasioni per impedire ai suoi di farlo.
Il ricorso alla pena di morte non sembra
avere fondamenti islamicamente accettabili. Eppure esso si è storicamente
affermato e negli ultimi decenni, parallelamente al cosiddetto "risveglio
islamico", è tornato tragicamente d'attualità, perché i sostenitori delle
correnti radicali hanno fatto pressione affinché chi abbandona l'islam venga
severamente punito.
Così alcuni Paesi hanno introdotto nella
Costituzione o nel codice penale il reato di apostasia, cosa che peraltro è in
evidente contrasto con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del
1948 e che pure ripugna alla coscienza di molti musulmani».
Quali sono i casi più famosi di condanne
pronunciate nei confronti di apostati?
«La
vicenda dei Versetti satanici di Salman Rushdie e la condanna a morte decretata
con una fatwa dall'ayatollah Khomeini nel 1989 è l'episodio più noto e ha
probabilmente fatto da detonatore riproponendo il nodo dell'apostasia a livello
mondiale, ben al di là dei pur estesi recinti della comunità islamica.
Ma altre vicende hanno riportato la
questione alla ribalta anche in anni recenti: ricordo la condanna nel 1995 del
docente universitario Nasr Hamid Abu Zayd, o il caso della scrittrice Nawal
al-Sadawi, portata nel 2001 in giudizio per apostasia da un avvocato islamista,
nonostante le proteste di numerose organizzazioni femministe o di associazioni
per la difesa dei diritti dell'uomo.
Questi intellettuali sono riusciti ad
evitare l'esecuzione della condanna. Meno fortunato è stato un altro
intellettuale egiziano, Farag Foda, assassinato nel giugno 1992 da un commando
radicale poco dopo essere stato dichiarato apostata dalle autorità religiose.
Al processo contro gli assassini di Foda,
lo sceicco Muhammad al-Ghazali, una figura molto nota per la sua moderazione, è
venuto a testimoniare a favore della difesa e ha giustificato l'assassinio di
Foda appoggiandosi alla sharia.
Un altro attentato, questa volta fallito,
ha avuto come obiettivo nel 1995 lo scrittore egiziano Naghib Mahfouz, 83 anni,
il primo arabo ad essere insignito del premio Nobel per la letteratura (1988).
Il suo romanzo Il rione dei ragazzi,
scritto negli anni Cinquanta e ancora all'indice in Egitto, è considerato
blasfemo da molti ed è stato la causa scatenante dell'attentato.
C'è poi la vicenda della scrittrice bengalese
Taslima Nasreen, costretta a vivere in clandestinità a causa delle minacce dei
gruppi integralisti che chiedono che venga arrestata e messa a morte per
blasfemia.
Nel 1994, infatti, la Nasreen era stata
accusata di "offesa alla religione", un reato previsto dal codice
penale del Bangladesh, e ha perciò dovuto rifugiarsi in Occidente.
Ma ci sono molti altri casi, meno noti
all'opinione pubblica mondiale, che riguardano gente comune.
Uno di questi è il caso di Mohammed Omer
Haji, un profugo somalo di 27 anni residente nello Yemen, condannato a morte nel
2000 nonostante il suo status di rifugiato, perché si era convertito al
cristianesimo insieme alla moglie.
È stato torturato in prigione per
costringerlo a rivelare i nomi dei suoi "complici" e ad abiurare la
fede, ma invano.
Alla
fine, e secondo la prassi, il giudice ha dato a Haji una settimana per
dichiarare, per tre volte, il suo formale ritorno all'islam, pena la morte.
L'interessamento di alcune organizzazioni
internazionali gli ha permesso di sottrarsi alle sanzione: attualmente egli
vive insieme alla famiglia in Nuova Zelanda, dove gode di una forma di asilo
"religioso".
Non fu altrettanto fortunata nel 1994 la
fine di 4 musulmani che si erano convertiti vent'anni prima al cristianesimo
nella diocesi sudanese di Rumbek e diventati successivamente catechisti:
vennero fustigati dalle forze di sicurezza governative e poi crocifissi per
aver rifiutato di ritornare all'islam».
Giorgio
Paolucci E Camille Eid
Giornale
del Popolo Edizione del 04/04/2002
SUDAN
http://www.caritas-ticino.ch/Riviste/elenco%20riviste/riv_0204/Rivista%20N4%202002.htm
Da Caritas set.ott.02
PERSECUZIONI
- La drammatica testimonianza di un vescovo: «I cristiani vengono crocifissi e
poi assassinati»
I silenzi dell'Occidente uccidono il Sudan
Schiavitù,
minacce di morte, uccisioni, milioni di profughi. E il silenzio dei mass media che
tacciono sulla situazione della popolazione del Sudan, «venduta e tradita
dall'Occidente».
L'unica
voce che si alza è quella dei vescovi, che restano però inascoltati. Thomas
Koetter, giornalista presso l'opera caritativa internazionale «Aiuto alla Chiesa
che soffre» ha incontrato nella sede di Könisgstein, in Germania, monsignor
Macram Max Gassis, vescovo di El Obeid, in Sudan, che ha raccontato questa
drammatica testimonianza.
Monsignor
Gassis, corrispondono a verità le informazioni sulla persecuzione dei cristiani
che ci giungono dal suo Paese?
«Purtroppo
sì. Le persecuzioni in Sudan avvengono sia per motivi religiosi che etnici. E
principalmente sono dirette alla popolazione africana, non solo a quella del
sud, ma a quella di tutto il Paese».
Si sente anche parlare di schiavismo. «La
schiavitù esiste davvero. I nostri bambini vengono portati via a forza dai
soldati islamici che devastano interi villaggi, mettendo a ferro e a fuoco
tutto quanto incontrano sul loro cammino e si portano via i bambini con il
tacito assenso del governo di Khartum.
In questa loro guerra che chiamano
"santa" le persone vengono trattate alle stregua di un bottino di
guerra, del quale disporre come meglio si crede.
I bambini vengono radunati come bestiame e come
bestiame vengono marchiati perché il loro "padroni" possano
riconoscerli, nel caso venisse loro in mente di fuggire.
Per le ragazze il destino non è migliore.
Spesso vengono strappate alle loro famiglie, violentate e messe in cinta dai
loro aguzzini.
Anche l'infibulazione è un modo fisicamente
e psicologicamente crudele attraverso cui i fondamentalisti segnano le donne:
"appartenete all'Islam, per questo motivo occorre che sottostiate a questa
pratica".
Perfino il precedente primo ministro sudanese
Sadek al-Mahdi ha confermato queste terribili realtà».
Nel 1999 fecero molto rumore anche in
Occidente le minacce di crocifissione giunte al sacerdote cattolico Hilary
Boma.
«Aiuto alla Chiesa che soffre» e altre
organizzazioni internazionali si mobilitarono allora con successo per la sua
liberazione. Da allora ha sentito di altre minacce di questo tipo all'indirizzo
di sacerdoti cattolici? «Uno dei miei catechisti fu minacciato dai
fondamentalisti arabi.
Gli ingiunsero di convertirsi all'Islam e
quando egli si rifiutò, dopo averlo torturato, lo hanno crocifisso.
Sopravvisse e continuò a lavorare come
giudice di pace nel suo villaggio. Due mesi fa lo hanno assassinato».
Anche lei subisce
minacce e persecuzioni?
«Sì. Il solo fatto che io adesso non possa
stare nella mia diocesi, nella mia Chiesa, in mezzo alla mia gente, mi fa
capire quello che significa essere un rifugiato.
Io non soffro lo stesso tipo di
persecuzione di gran parte del mio popolo, ma ho chiara, dentro di me, la
percezione di quello che esso sta subendo».
Perché dinnanzi a tanto
orrore il mondo tace?
Perché nessuno alza la voce in favore di
queste vittime innocenti?
«I
motivi sono diversi. Da un lato il regime di Khartum è molto abile nel tenere
lontani i mass media dalla terribile realtà che il nostro Paese sta vivendo.
Inoltre, occorre anche dire che ai mass media interessa prevalentemente il
fatto sensazionale: a loro interessa il numero dei morti. Il conflitto in Sudan
raramente conosce picchi di sensazionali, si tratta di una violenza continua,
che si protrae nel tempo.
Dall'inizio
della guerra civile contiamo due milioni di morti e cinque milioni di profughi,
e nessuno ne parla. Quando il regime fece dipendere la fornitura di aiuti
alimentari dal fatto che la popolazione abdicasse alla propria religione,
facendosi arabizzare e islamizzare, i media hanno taciuto.
E quando noi, vescovi cattolici, abbiamo
lanciato un SOS per via della minaccia di una carestia, la comunità
internazionale non si è mossa.
Quando
poi decise di intervenire, la carestia era ormai conclamata e la catastrofe si
era già consumata.
Dov'erano
i mass media in quella circostanza? Perché qualcosa si muova, occorre che la
situazione in un Paese venga seguita nel tempo.
La tenacia con cui viene seguito il
conflitto israelo-palestinese o a suo tempo l'apartheid in Sudafrica, portano e
hanno portato molto alle popolazioni coinvolte.
Perché una simile attenzione non è
possibile anche per il Sudan?»
Giornale del Popolo Edizione del 10/04/2002
Cieli
aperti, PERSECUZIONI di SANDRO VITALINI
Lo storico Giorgio Cheda scrive: «I libri
di storia diventano meno noiosi nella misura in cui aiutano a chiarire problemi
del passato con ancora una forte risonanza nel presente».
Il libro degli Atti degli Apostoli ricorda
le continue persecuzioni alle quali la Chiesa primitiva è sottoposta. Perché?
Forse possiamo illuminare quei fatti alla
luce delle persecuzioni di oggi. Sono così numerose che nemmeno più ne teniamo
il conto, anche perché i mass media non le menzionano o, quando come in Nigeria
i cristiani sono massacrati, parlano soltanto di «scontri interreligiosi».
Ma non solo nei paesi dove domina il
fondamentalismo islamico, come il Sudan, i cristiani sono perseguitati; anche
in paesi come la Turchia essere cristiani è un rischio e convertirsi al
cristianesimo significa la morte.
Ma anche nelle Filippine il cristianesimo è
perseguitato e persino nell'America del Sud, dove la Chiesa denuncia i crimini
contro i piccoli e i poveri.
Dobbiamo ammettere che il vangelo di Cristo
è un segno che suscita opposizione perché sollecita l'uomo ad una scelta di
vita così radicale che ogni forma di tenebra non la sopporta. Anche da noi
l'indifferenza e il sarcasmo possono essere forme persecutorie scoraggianti.
Soltanto se facciamo unità tra noi riusciamo a resistere.
IL
RAPPORTO ANNUALE SULLA LIBERTÀ RELIGIOSA NEL MONDO (da FAMIGLIA CRISITANA)
DOVE SI RISCHIA LA VITA IN NOME DELLA FEDE
La pubblicazione del Rapporto sulla libertà
religiosa nel mondo è diventato ormai un appuntamento fisso, ogni anno, per
discutere sulle condizioni di vita dei credenti nei vari Paesi del mondo,
frutto di una ricerca analitica su ogni Paese.
Aiuto alla Chiesa che soffre è nato dopo la
seconda guerra mondiale con lo scopo di aiutare i cristiani perseguitati dai
regimi comunisti dell’Est. Oggi lavora in tutto il mondo e segue circa 6.000
progetti ogni anno.
Il Rapporto mette in luce come la libertà
religiosa sia ancora un grave problema in tante regioni del mondo.
Lo è in India, dove una legge limita i
diritti delle minoranze e dove vari Stati discriminano i cristiani.
Il fondamentalismo indiano, che trova
ascolto negli ambienti di Governo, fa sentire la sua forte pressione. La conversione
ad altra religione è ostacolata.
In realtà, la scelta dei singoli di passare
da una comunità religiosa (o dall’ateismo) a un’altra comunità religiosa (o
all’ateismo) è parte integrante della libertà religiosa. Tale libertà è negata
nella gran parte dei Paesi musulmani, dove, secondo la legge islamica, è
possibile convertirsi all’islam, ma non è permessa (anzi, punita con la morte
come apostasia) la conversione dall’islam a un’altra religione.
È il caso del Pakistan, dove, tra l’altro,
è in vigore la legge sulla blasfemia. Proprio il 2001 si è aperto con l’arresto
di un prete e di un laico, accusati di aver partecipato a una manifestazione
organizzata contro questa legge, per cui basta essere imputati di aver
bestemmiato l’islam e si diventa punibili con la pena capitale.
Il problema della libertà religiosa è
purtroppo universale: si ritrova sotto tante latitudini e per comunità
religiose differenti. Ed è molto utile che Aiuto alla Chiesa che soffre
richiami l’opinione pubblica a discutere del problema.
Il Rapporto non è infallibile: ci possono
essere esagerazioni o sottovalutazioni, ma l’importante è che i Governi siano
chiamati a rispondere, sapendo che la loro politica in questo campo è sotto
osservazione.
In alcuni casi il Rapporto forse esagera in
senso negativo, come in Mozambico, dove, tutto sommato, c’è una certa libertà
religiosa.
In altri, come l’Algeria, si resta
piacevolmente sorpresi nel leggere che giovani di origine musulmana hanno avuto
la possibilità di convertirsi al cristianesimo.
In molti Paesi africani, la compressione
della libertà religiosa è legata alla guerra civile, come in Angola, o ai
conflitti etnici, come in Burundi.
Per la Costa d’Avorio, dove si teme lo
scoppio di un conflitto tra musulmani (del Nord) e cristiani (del Sud), il
Rapporto segnala l’impegno dei leader religiosi, cristiani e musulmani, per il
dialogo.
Nei Paesi dell’ex Urss
la situazione non è facile ovunque.
In Turkmenistan, musulmano all’87 per
cento, i cattolici possono compiere atti di culto solo nella nunziatura
apostolica, coperta da immunità. Si sospetta che un cristiano battista sia
stato condannato alla detenzione per la sua conversione al cristianesimo.
La vita dei cristiani è tutt’altro che
facile in tanta parte del mondo, ben al di là del noto caso dell’Arabia
Saudita, dove non è lecito ai cristiani nessun atto di culto.
Il
’900 è stato il secolo del martirio (è il titolo di un lavoro che ho dedicato
ai nuovi martiri del XX secolo).
La nostra speranza è che il XXI secolo non
ripeta gli stessi errori. Un’attenzione vigile ai problemi della libertà
religiosa rende i Governi consapevoli che non possono calpestare questo
diritto. Dove non c’è libertà religiosa, anche tutte le altre libertà finiranno
per cadere. Andrea Riccardi
I nuovi perseguitati di don Giorgio Paximadi
http://www.caritas-ticino.ch/Riviste
http://mypage.bluewin.ch/cafarus/martiri.html