Tutto
spiega Samir Khalil Samir
Quale è il fondamento sociologico, ideologico e religioso delle discriminazioni e delle persecuzioni che colpiscono i cristiani?
Il
problema dell'islam non può essere compreso senza fare riferimento alla
politica. Le ingiustizie sono dovunque, siamo abituati a considerare normale il
fatto che le minoranze debbano lottare per i propri diritti.
Ciò che
colpisce è che nei paesi musulmani c'è un'immediata identificazione fra
religione e politica, che legittima lo stato di inferiorità giuridica di chi
non è di religione islamica.
Nei
paesi islamici due sono gli scopi di chi ha responsabilità di governo: in primo
luogo quello di proteggere la religione musulmana, assicurarsi cioè che sia
osservata, con tutti i mezzi disponibili; in secondo luogo quello di estendere
l'islam a tutto il mondo.
Questa
è la teoria classica dei giuristi musulmani, non è una novità; l'islam è
"religione e società». Sotto questo aspetto si comprende come sia fatto
ogni sforzo, economico, culturale, politico, per estendere l'islam.
L'altra caratteristica del mondo islamico è
il prevalere della comunità sull'individuo, il che significa che la nozione di
libertà di coscienza o di diritti dell'uomo (due concetti che da due secoli
contraddistinguono, nel bene e nel male, il mondo occidentale) solo in minima
parte sono stati accolti dalla cultura musulmana.
Il fondamento
giuridico delle attuali discriminazioni fu elaborato tra il I ed il IV secolo
dell'era islamica (corrispondenti al periodo che va dal VII al X secolo
dell’era cristiana).
In questo periodo
fu elaborata tutta la giurisprudenza e tale dottrina è giunta fino ai nostri
giorni.
Bisogna anche dire
che all'inizio del XX secolo la cultura islamica fu pervasa da un vasto
movimento liberale, suscitato anche dall'influsso dell'Occidente, che a tale
movimento appariva come un modello auspicabile di società.
Vi sono stati
grandi giuristi che nell'Egitto degli anni Trenta del nostro secolo hanno
prodotto una positiva integrazione tra codice napoleonico e legislazione
tradizionale islamica. Tutto questo è stato rimesso in discussione agli inizi
degli anni Settanta con la guerra del 1973, la crisi del petrolio, ecc.
La reazione
«integralista" alle tendenze moderniste e liberali era emersa già in
seguito all'abolizione del Califfato nel 1924 da parte di Ataturk, alla fine
degli anni '20 risale anche la nascita del movimento dei «fratelli
musulmani".
Tale reazione ha
comunque suscitato l'ostilità dei governi di tutti gli Stati arabi (si pensi a
Nasser).
Dobbiamo
riconoscere che la concezione secondo cui l'islam è "religione e
stato" appare la più fedele al progetto originale di Maometto.
Quando gli
islamisti oggi rivendicano questo progetto socio-politico sono fedeli alla
tradizione islamica, la più comune e la più autentica. Nella cultura dei paesi
arabi musulmani ha infine prevalso, al posto della categoria del cittadino, la
divisione tradizionale della società in credenti (coloro che seguono
l'islam), protetti; (cristiani ed ebrei) e miscredenti (la cui sorte può
essere la morte o la conversione all'islam).
La realizzazione e
la diffusione di quest'idea della società rimane il sogno della tendenza
tradizionalista.
È possibile oggi pensare diversamente l'islam? Vi è una qualche dialettica o un confronto fra interpretazioni diverse?
Io
credo che sia possibile, ma allora sarà una nuova tradizione che oggi non è
quella prevalente. L'islam nasce fin dalle origini come progetto socio-politico
ed anche militare:
ciò è evidente sia
nel Corano che nella sunna, nella tradizione che include la vita e i
detti di Maometto. Per un musulmano religione e politica sono indissolubili.
Coloro
che invece propendono per una separazione dei due piani sono i cosiddetti
musulmani liberali, ma essi sono visti dalla maggioranza come musulmani
solo di nome, il loro islam suscita dubbi, anche perché molti non sono
praticanti.
I liberali
sostengono che nel Corano e nella Vita di Maometto vi sono state due tappe, la
prima è quella del periodo della Mecca (gli anni 610-622), la seconda è quella
del periodo di Medina (gli anni che arrivano fino al 632, data della morte di
Maometto).
Se si
analizzano le fonti, secondo tale interpretazione, nel periodo della Mecca si
nota che il discorso è più spirituale che politico. Il discorso di Maometto
appare fondato sull'annuncio dell'unicità di Dio, su quello del giudizio finale
che attende tutti dopo la morte (giudizio in base al quale ciascuno sarà
ricompensato con il cielo o punito con l'inferno) ed infine sul richiamo alla
giustizia sociale, alla solidarietà verso i poveri.
Questo
sarebbe l'islam originario, il più autentico secondo i liberali, l'idea
primaria così come appare rivelata a Maometto.
A
Medina invece si sarebbe sviluppato un islam politico, perché le circostanze
storielle hanno condotto Maometto a creare un sistema sociale, ad organizzare
l'esercito, fare guerre, eco. La dottrina relativa a tale periodo, per i liberali,
sarebbe dunque secondaria, non necessaria, valida per quelle circostanze
storielle particolari e non universalmente.
Una simile
interpretazione è contestata dagli islamisti fondamentalisti, che dicono che
proprio il secondo è il vero islam, mentre il primo, quello della Mecca, era
condizionato dal fatto che Maometto non era del tutto libero di esprimere il
suo progetto, aveva dovuto fare delle concessioni.
Quando a Medina lui
ha avuto pieno potere, quando non era più attaccato dai Meccani, allora si è
visto il vero progetto, che è un progetto sociopolitico, militare e religioso.
Tra queste due tendenze è la seconda, come
abbiamo visto, ad aver prevalso; del resto è quella che in effetti sembra la
più fedele al progetto originale di Maometto.
In
che modo nei paesi islamici si da attuazione a questo progetto?
Dobbiamo
partire dal presupposto che nella visione dell'islam ogni mezzo e buono se
contribuisce allo scopo finale dell'instaurazione dello Stato islamico o alla
protezione dell'islam. Ciò si vede nella islamizzazione della scuola: ogni
mattina in Egitto si inizia con la lettura del Corano, i testi delle materie
insegnate sono pieni di riferimenti all'islam, dalla matematica alla storia o
alla letteratura, l'apprendimento del Corano è obbligatorio per tutti.
Altro strumento è
l'umiliazione dei cristiani ad ogni livello. Se cammino per strada portando,
con discrezione, una croce, rischio di essere picchiato o ingiuriato.
È comune essere
insultati dai bambini. Già a livello sociologico, dunque, c'è una pressione
molto forte che scoraggia i più deboli. A livello più grave, economico, la
discriminazione verso i cristiani fa sì che per questi la possibilità di trovare
lavoro sia più difficile, e spesso tale possibilità è limitata al lavoro
privato.
A questo proposito
si deve anche tenere; presente che moltissimi paesi hanno sulla carta di
identità l'indicazione della religione professata e dove ciò non accade, è il
nome stesso a rivelare la fede religiosa del singolo e a determinare così le
sue possibilità di lavorare o anche il trattamento.
Anche l'informazione svolge un ruolo
importante sotto questo aspetto: ogni giorno, sui giornali si parla dell'islam,
talvolta si attaccano violentemente i cristiani.
Anche in televisione la presenza dell'islam è
molto forte: i programmi di informazione parlano dei successi dell'islam, i
notiziari sono interrotti dalla preghiera.
Nei dibattiti televisivi spesso si lanciano
accuse contro i cristiani, ma non è prevista la presenza di un contraddittorio
o il diritto di replica; questo accade anche per i giornali. Per strada ovunque
risuonano le trasmissioni radiofoniche con le cinque preghiere, precedute dagli
appelli che possono durare anche un'ora.
In Egitto c'è una radio statale che trasmette
il Corano 24 ore su 24. Accade che il pio musulmano, senza intenzioni cattive o
ostili, tiene il volume altissimo affinchè tutti i vicini possano ascoltare (e
una cosa comune del mondo arabo).
L'effetto tuttavia, è che chi è cristiano
deve ascoltare tutto il giorno il Corano... e molti cristiani dicono che noi
dovremmo accettare tutto questo...
La pressione sociale dell'islamizzazione è
fortissima, ha effetti molto più gravi sui cristiani che non le norme della
legge; non si può capire questo se non si vive in un paese musulmano e se non
si capisce l'arabo. Questo concorso di forze coercitive ha qualche analogia con ciò che
succedeva nei paesi comunisti, dove le leggi, le istituzioni di nome
garantivano la libertà, ma di fatto non era così.
Se consideriamo che
in 70 anni il comunismo è quasi riuscito nel tentativo di estirpare il senso
religioso del popolo russo, dobbiamo riconoscere che se dopo tanti secoli in
Medio Oriente vi sono ancora comunità cristiane, questo è davvero un miracolo.
In questa situazione stupisce che l'Occidente rimanga inerte di fronte a casi di palese violazione dei diritti umani; per l'opinione pubblica, i grandi mezzi di comunicazione, le istituzioni politiche questo problema sembra non esistere...
Mi
sembra che l'Occidente in ciò sia condizionato dalla sua storia; l'Occidente è
sociologicamente di matrice cristiana, ma ha lottato da due secoli a questa
parte per liberarsi della religione e della sua identità.
Si è
così diffusa l'idea che il cristianesimo non debba entrare in questioni
politiche, che è un fatto inferiore, personale, che non deve avere legami con
la vita civile. Si è privatizzata la religione. Molti occidentali, inoltre,
sono secolarizzati ed hanno nei confronti della religione due possibili atteggiamenti:
1) la religione non mi
riguarda, è un fatto privato del singolo;
2) la religione è un
fenomeno che va combattuto. All'origine di questo modo di pensare c'è anche la
polemica contro la Chiesa, intesa come istituzione dotala di una struttura
gerarchica, di apparati, ecc.
3) Quando invece si
parla dell'islam, si è soliti dire che si tratta di un'altra cultura, ha il
diritto di organizzarsi come meglio crede, con la poligamia, la forma dello
Stato e così via.
Il tipico
ragionamento occidentale mette al primo posto il rispetto per le altre culture,
ma non quando si tratta dei cristiani d'Oriente.
Inoltre per il
fatto che per molti la religione non ha senso, anche questo problema delle
persecuzioni dei cristiani non è importante; molti poi hanno interpretato con
categorie occidentali, spesso prese dal marxismo, realtà completamente diverse.
Ciò ha portato a
clamorose falsificazioni, come quella per cui la guerra civile del Libano era
da considerare una lotta di classe, una guerra dei musulmani, poveri ed
oppressi, contro i cristiani, ricchi e potenti. La realtà era del tutto
diversa.
Un altro aspetto di
questo problema: l'Occidente, che afferma di voler rispettare tutte le culture,
si mobilita soltanto di fronte alle violazioni di valori che esso riconosce
come fondamentali; per ciò che riguarda l'islam è il caso dell'infibulazione ed
in genere della condizione della donna.
Anche l'idea di
tolleranza, che si è progressivamente affermata in Occidente, va considerata in
questo ambito di problemi, perché tale idea si è evoluta in un atteggiamento
pericoloso, per cui chi è diverso ha per ciò stesso più diritti e gode quasi di
maggiori tutele.
Questo modo di
pensare ha effetto anche sulla nostra questione, perché si proietta
erroneamente la situazione minoritaria dell'islam in Occidente e la condizione
di svantaggio degli immigrati islamici su quanto accade là dove l'islam è
maggioritario o addirittura religione di Stato.
L'Occidente sembra avere quasi un senso di colpa verso i paesi del terzo mondo...
È
una delle tendenze che mi preoccupa: c'è una sistematica autocritica, spinta
fino al masochismo, che sta corrodendo la società occidentale. Io la chiamo il "mea
culpismo". Sui giornali possiamo trovare ogni sorta di attacco al
cristianesimo, ogni possibile sciocchezza sulla religione e sulle cose più
sacre della nostra religione e nessuno si può permettere di obiettare nulla:
c'è la libertà di pensiero.
Ciò
non vale se si scrive qualcosa di non gradito per le altre grandi religioni, in
particolare sull'isiam e l'ebraismo: allora subito tutti accorreranno ad
accusare e condannare.
E tuttavia l'Occidente è molto cauto quando si tratta di Paesi importanti dal punto di vista economico.
Basta guardare al caso dell'Arabia Saudita,
un paese dove i più elementari diritti dell'uomo sono ignorati
sistematicamente, nel silenzio più assoluto anche delle grandi potenze. Tutti i
Paesi, l'Italia come gli Stati Uniti, sanno che in Arabia Saudita il diritto
del lavoro è contrario alle regole dell'umanità.
Come si arriva ti viene ritirato il
passaporto e tu diventi uno schiavo, non puoi uscire dal loro paese senza il
loro permesso.
Ogni tanto si verifica un incidente
diplomatico, perché un lavoratore occidentale viene maltrattato, ma poi tutto
torna come sempre: il fatto è che a patire le ingiustizie sono soprattutto i
lavoratori del terzo mondo (delle Filippine e dello Sri Lanka in primo luogo) e
così nessuno parla.
Posso capire le
Filippine, perché il denaro proveniente dai lavoratori immigrati in Arabia
Saudita è la prima fonte di ricchezza del paese, ma questa omertà è rivoltante
nel caso dei Paesi occidentali.
È un atteggiamento amorale che colpisce
profondamente i popoli arabi, che oggi guardano all'Occidente con l'ammirazione
che sempre si riserva ai potenti, ma anche con disprezzo perché essi
comprendono che è l'Occidente ad essere senza principi.
Zamalek, l'isola
all'interno del Nilo che ospita al Cairo numerose ambasciate di Paesi arabi e
musulmani, ha tra i suoi abitanti anche un sorvegliato speciale, che dal 1980
vive con la scorta di tre poliziotti armati, che ne proteggono l'abitazione e
l'incolumità.
Muhammad
Sa'id al-Ashmàwi è un giudice "illuminato», ma all'interno del suo
appartamento, colmo all'inverosimile di oggetti di antiquariato locale e di
antichità occidentali, non filtra la luce del giorno: pesanti tende di velluto
coprono le finestre per evitare che insieme al sole possano entrare le
pallottole dei fondamentalisti musulmani che vorrebbero sbarazzarsi della sua
scomoda presenza. L'isolamento non è sufficiente a fermarne l'attività poiché,
dice, è meglio sacrificare la propria vita che rendersi complici del prevalere
dell'«ideologia islamica», come lui definisce il fondamentalismo.
Le
sue opere in lingua araba hanno conosciuto traduzioni in inglese, come Islam
and Political Order, e numerose sono le sue lezioni presso Università
occidentali, dalla Spagna agli Stati Uniti. In italiano, è apparso Riflessione
giuridica sul problema della "codificazione" della shari'a,
all'interno del volume Dibattito sull'applicazione della Shari'a
pubblicato dalle Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli nel 1995. La sua
vicenda, meno nota di quella dello scrittore Salman Rushdie, si svolge tra le
quattro mura di casa, ma sotto silenzio come in una prigione.
«Ero Consigliere della Corte di Giustizia del
Cairo.
Ma ho preferito andare in pensione perché il
ministro della Giustizia, incaricato anche dei Beni religiosi (Awqàf),
mi ha obbligato ad abbandonare le mie attività. Il governo non si riteneva
soddisfatto delle mie sentenze. Ma si tratta di una sorta di persecuzione
politica.
Hanno
voluto togliermi l'opportunità di raggiungere la gente, pur non arrivando a
farmi oggetto di una fatu'a (Una condanna formale dei dottori islamici,
come usa nell'islam, n.d.r.) e limitandosi alle minacce.
Ciononostante, si tratta di un pericolo che
corro costantemente, anche all'estero, a causa dello sviluppo internazionale
che hanno conosciuto i miei tentativi di offrire nuove definizioni della
religione».
Vi sono altri intellettuali
che vivono nelle sue condizioni, in Egitto?
No. Chi prova ad infrangere qualche dogma poi
fugge all'estero. Per questo la mia attività è rimasta senza seguito apparente,
anche se molti intellettuali vi fanno riferimento in modo esplicito o
implicito.
Certo, se potessi
esprimermi liberamente, senza pressioni dall'esterno, anche la mia produzione
potrebbe aumentare e dare il via a un rinnovamento e a una riscoperta della
religione e dell'islam in particolare. Del resto, non desidero -pormi in
contrasto con il governo, sebbene io continui a rappresentare un problema, in
quanto non è facile-inglobarmi.
Lei pensa che possa maturare una maggiore consapevolezza dei diritti umani e della libertà religiosa nei Paesi musulmani?
Un'evoluzione è
possibile, a patto che si passi da quella che ho definito «l'ideologia
islamica» a un «islam liberale». Per gli ideologi, invece, i diritti dei
musulmani vengono prima di quelli altrui. A mio giudizio occorre proteggere tutti
sulla base dei diritti umani, ma chi scrive qualcosa di non gradito agli
ideologi viene subito tacciato di aver violato i «diritti islamici».
Quanto alla libertà religiosa, andrebbe rispettata e non soppressa, poiché
anche nel Corano viene affermato il pieno rispetto della libertà di fede.
Qualcun altro; ha
voluto costruire una tradizione non basata sul Corano.
Il risultato e che,
invece di identificare la religione e la comunità si sono legati insieme?
La religione e lo
Stato e ciò ha causato un conflitto tra la comunità islamica e lo Stato.
Eppure, il governo,
invece di porre il popolo di fronte alla realtà, continua ad assecondare chi è
stato conquistato, per ignoranza, da queste false affermazioni. L'idea di un
"islam liberale» è stata accusata di condurre all'ateismo e al
secolarismo, ma è falso.
Io sono
musulmano, mi sento vicino al sufismo, e credo che la religione avrà un futuro,
non nel senso di una comprensione meccanica del suo messaggio, ma sulla strada
dell'unificazione tra gli uomini. Anche la posizione dei «dhimmi», cioè dei
popoli di religione ebraica e cristiana, che implicava da parte della
maggioranza islamica il diritto di proteggerli, è un concetto superato da
quello di cittadinanza.
Ma,
siccome nel Corano non si parla di cittadinanza, poiché allora non vi era il
concetto dello Stato, la Umma (la comunità musulmana, n.d.r) tenta di
distruggere lo Stato senza aver nulla con cui sostituirlo, È quello che accade
anche in Occidente, dove i musulmani non si sentiranno mai cittadini dello
Stato, a meno che non cambino mentalità.
Ed è anche, secondo lei, uno dei motivi che conducono alla solidarietà e all'appoggio finanziario e armato di Paesi musulmani in occasione dei conflitti nei Balcani, ultimo quello in atto nel Kosovo?
Certo. I musulmani
si sentono minacciati perché pensano in modo tribale. Se pensassero in maniera
globale si sentirebbero cittadini di uno Stato senza avvertire una diminuzione
dell'autorità.
Il fatto è che oggi
il fanatismo è diventato una moda e la dottrina dell'islam è dominata dagli
estremisti militanti.
I musulmani non
vogliono imparare, ma è un atteggiamento contraddittorio: la soluzione rimane
quella di riscoprire lo spirito critico e di indagine. La fede per essere vitale
deve essere legata al cuore delle persone.
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