il guardarobe ricchezza e libertà nominare le differenze io, te, noi mi sento più me stessa.. la madre, l'amore, i soldi L'eredità delle donne - home page ...mandaci un email

Questo incontro nasce da un antico desiderio di Francesca , Flaminia e Ilaria che solo ora si è potuto realizzare, grazie alla spinta di Donatella che ha espresso il desiderio di andare, e subito, con una richiesta precisa: conoscere la sua posizione sul dibattito.Donne dell'altro mondo aperto da Luisa Muraro, Chiara Zamboni e Ida Dominijanni Perché Gabriela Marsili? Francesca
" Per me è stata ed è una figura di riferimento; la mia prima mediazione, la prima donna che mi ha insegnato il pensiero della differenza, dieci anni fa ai suoi corsi al Virginia Woolf. Questo incontro l'ho desiderato molto per due ragioni: Per ristabilire con lei una relazione in prima persona e "più da vicino". Perché mi è particolarmente preziosa la sua visione libera e in movimento del mondo, della relazione tra donne, e perché questo può portare ricchezza a me e altre. C'è anche una terza ragione: per me: avere la possibilità di far nascere una relazione non fissata e in divenire, tra maestra e allieva.
Donatella
"In un momento della mia vita in cui si stavano modificando relazioni importanti avevo bisogno del suo modo, della suo sguardo che mi appariva particolarmente libero, non schierato su posizioni prefissate. Perché anche nei pochi incontri precedenti mi ha sempre colpito la sua capacità di ascoltare proprio te, di vedere proprio te, di rispondere alle tue "domande", alle richieste alle urgenze anche non verbalizzate Quelle parole stanno scendendo nella mia vita .

 

"e io entrata lì mi sono sentita per la prima volta in vita mia in patria, nella mia terra".
Incontro con Gabriela Marsili

Francesca
Quando e come hai incontrato il pensiero della differenza sessuale?

Gabriela
L'ho incontrato sui trent'anni. Ma già prima mi ero sentita femminista in senso reattivo, polemico e di conflitto con gli uomini. Fu nella relazione con mio padre. Io sono stata una "figlia di padre": perché prediletta dal padre, perché primogenita e perché - come spesso succede quando gli uomini non sanno controllare l'eccellenza femminile - considerata un'eccezione. Le donne sempre inferiori agli uomini, superiorità del maschile, eterna inferiorità del femminile: tutto ciò era pacificamente teorizzato da mio padre, uomo nato nel 1905; però io ero una bambina speciale. (Come dice Luisa Muraro, solo gli uomini ne incontrano tante di donne eccezionali, perché definiscono eccezionale ogni donna di cui la loro intelligenza, e spesso anche il loro amore, non possano misconoscere certe capacità). Dunque io ero speciale. Tant'è che appena undicenne venivo ammessa in camera operatoria - mio padre era chirurgo - per assistere alle operazioni. Avevo il mio camice e la mia benda. Ascoltavo le spiegazioni di anatomia. E, da bravo soldatino, non svenivo. Tutto questo produsse una mia decisione (o meglio, una decisione che credevo essere mia, e che invece era il risultato di un desiderio indotto, e dell'amore edipico che mi legava a mio padre): comunicai che dopo il liceo avrei studiato medicina per fare chirurgia. Non ebbi nemmeno la prudenza di dire pediatria!.

La cosa mi fu proibita in forme categoriche. Prima col discorso: "Anche se sei speciale sei una donna, e come tale non puoi fare un mestiere da uomo perché trascureresti una delle due, la professione o la famiglia, e magari non te la formeresti neppure, una famiglia". In seguito - siccome restavo zitta oppure rispondevo che avrei visto da me come gestirmi la vita - mio padre se ne uscì con un discorso ben più severo: "Ti impedirò di prendere medicina: dovresti andare a studiare fuori, e io non ti finanzierò". Il mio perdurante silenzio venne interpretato come ostinazione. E allora il passaggio successivo fu: "Se pensi che per studiare medicina chiederai dei soldi a prestito da amici o parenti con l'idea di restituirli quando avrai cominciato a guadagnare, sappi fin d'ora che questa non è più la tua casa. Ne esci e non ci torni più". Dato l'amore che mi legava a papà, fu questo il punto che mi vinse. Un punto affettivo. Gli altri argomenti non mi avrebbero piegata. Neanche quelli coi quali mi si voleva indorare la pillola. Neanche quello per cui, data la mia sensibilità, la chirurgia mi avrebbe fatto soffrire: "Spesso al tavolo operatorio si debbono prendere in pochi secondi decisioni drammatiche, di vita o di morte... Se ti si dice di rinunciare, è per il tuo bene...".

Certo, rinunciai. Ma al costo di sentirmi infelicissima e sacrificata. E ci fu con mio padre un duro conflitto nell'ultimo mio anno di liceo, con discussioni quasi quotidiane, di solito a pranzo e dopopranzo, interminabili, aspre. Proprio in quell'anno imparai che per la maggioranza degli uomini le donne sono davvero esseri biologicamente inferiori; o almeno, essi vogliono pensare così, pur se temono che così non sia: l'idea che l'inferiorità femminile possa non esistere li spaventa: ed ecco che se ne difendono con l'imposizione, con il potere violento del ruolo genitoriale e della disponibilità economica, e da ultimo con il ricatto affettivo. Compresi che dentro un simile meccanismo non avrei fatto grandi progressi e che il mio sarebbe rimasto semplicemente uno degli infiniti conflitti generazionali che hanno opposto tante figlie a tanti padri. Perciò mi dedicai a ciò che dopo medicina mi piaceva di più.

All'università scelsi di studiare lettere, cioè le materie in cui alle medie ero sempre riuscita meglio. Nel corso del tempo mi accorsi di aver fatto la scelta migliore. Insegnare, ecco ciò che poteva rendermi felice. Mi accorsi, ripeto, che medicina era stato un desiderio indotto, e mi convinsi che mio padre, tutto sommato, aveva fatto bene ad opporsi, anche se non per le ragioni che lui credeva giuste.

Ho spostato sulla scuola la mia passione del dire e del fare autonomo. Per quindici anni ho potuto dedicarmi alla sperimentazione didattica, di ordinamento e di strutture. Elaboravo cioè nuovi piani e metodi di studio, prefigurando la riforma della scuola secondaria superiore in corso attualmente (e, aggiungo, squallidamente, perché se ne sta dando una gran brutta versione). Immaginate la borgata romana di Primavalle nei primi anni '70. Il liceo Castelnuovo. E la sua versione sdoppiata, il XXII liceo scientifico, che poi si chiamò Antonio Gramsci e finì distrutto da un incendio doloso durante le violenze del '77. Il clima politico era quello che era; eppure condussi là insieme a vari colleghi un'esperienza meravigliosa che dette frutti conoscitivi e umani straordinari, e che mi consentì, tra l'altro, di entrare in relazione con Miki Staderini, la donna che avrebbe poi fondato il Virginia Woolf. Chiamai Miki a lavorare con noi al nostro progetto di liceo sperimentale.

Miki veniva a insegnare filosofia, pedagogia, psicologia, scienze umane. Fiorì questa relazione significativa fra me e lei, che era già nel femminismo della differenza e aveva organizzato a casa sua un gruppo di autocoscienza. Quando poi fondò, in via del Governo Vecchio, il centro culturale Virginia Woolf - lo fondò con l'assistenza di suo padre notaio: anche lei era una "figlia di padre" - mi chiese di farne parte come docente. Potei assistere all'assemblea finale del primo anno di corsi: eravamo nel maggio o giugno dell' '80: fu, per me, un'emozione incredibile. Le docenti e anche molte partecipanti raccontavano che cosa era stato quell'anno, esponevano problemi, indicavano prospettive, formulavano desideri, e anche critiche; fu un'assemblea tumultuosa, molto viva; io, entrata lì, mi sono sentita per la prima volta in vita mia in patria, nella mia terra.

Sì, fu un'emozione incredibile al Governo Vecchio. Per ciò che vi si diceva, per come lo si diceva, per la passione della conoscenza che vi aleggiava, per la qualità e quantità delle donne presenti: tante, vive... Era per me come aver raggiunto una terra promessa, senza, per di più, che nessuno me l'avesse promessa: l'avevo riconosciuta e l'avevo trovata, ecco tutto. Allora entrai al Woolf per non uscirne più. Sono stata là per quindici anni. Quello era il vero femminismo; quello mi ha fatto sentire libera. Prima ero una che doveva faticosamente conquistarsi ogni giorno lo spazio per esistere, pensare e agire, e naturalmente avevo sviluppato infinite risorse, perché comunque anche questo serve: energie, strategie, fantasie, accorgimenti... però non era la libertà. La libertà è stata lì. Il Woolf era un luogo che consentiva a ogni donna di dire ciò che in nessun altro luogo avrebbe mai detto. Lì ho capito che quello era il percorso, e quelle le persone con cui si poteva farlo, nella più assoluta fiducia. Al Woolf si produceva qualcosa che in nessun altro luogo si sarebbe potuto produrre, perché solo lì c'erano condizioni di libertà vera. Il separatismo; il separatismo per me è stata una tappa ineliminabile.

Donatella
A proposito del tuo modo di vivere la pratica della differenza: osservandoti - anche di recente alla Libreria delle Donne mentre si presentava un numero di Via Dogana - ho notato un certo tuo prendere le distanze da ciò che si dice. Intervieni poco nei dibattiti. Io stessa non ti ho mai sentita parlare in pubblico, seminari a parte...

Gabriela
E' vero, io tendo a non intervenire; tendo molto, invece, a capire che cosa le donne stanno facendo; ad esempio se vanno avanti o se stanno ancora misurandosi tra gruppi, cosa che non desta in me alcun interesse. Del resto ho sempre avuto una posizione mia, tanto che al Virginia Woolf,, sorridendo, si diceva: "C'è il gruppo A, c'è il gruppo B, e poi ci sono i corsi di Gabriela Marsili...". Io mi sono sempre "collocata", mai "schierata"; ciò mi dava riconoscibilità e al tempo stesso garantiva la mia libertà. E' stato, forse, perché la mia storia personale non ha avuto fasi in cui io abbia fatto parte, dall'interno, di organizzazioni politiche o altro.

Secondo me, ogni schieramento comporta il rischio grave di cadere in una logica binaria distruttiva. Chi si schiera va apparentemente alla ricerca di un'identità più precisa e nobilita questa sua ansia parlando di necessità di chiarezza e di coerenza; nella pratica assume un atteggiamento pedissequo, che impoverisce e mùtila... Infatti ogni percorso umano è sempre, di necessità, molto articolato, e mai può fissarsi in due posizioni alternative e contrastanti. Voglio dire: per quel che è stata finora la mia vita, e per come ho attraversato, sempre mossa da un desiderio di conoscenza, anche i decenni di esperienza al Virginia Woolf, trovo che se c'è una cosa che non può essere assunta dalle donne della nostra tradizione occidentale e patriarcale, questa cosa è il principio di non contraddizione: perché tutto quello che fa ordine in modo "apollineo" in realtà mùtila, e non dice la complessità della vita. La vita è fatta di intrecci. Lo so che è certamente più difficile scegliere ogni volta piuttosto che una volta per tutte; però, se non si vuole tradire se stessi e insieme la realtà, bisogna assumerseli questo onere e questa fatica. Credo che diventare adulti significhi - se proprio bisogna dare ogni tanto una definizione - accettare, appunto, la complessità. Quando siamo bambini, la complessità non la sappiamo, ma la viviamo, anzi la soffriamo, tutte le volte che il mondo ci chiede posizioni nette, e l'obbedienza a regole magari ragionevoli, ma che lasciano fuori e senza spiegazione troppe cose. Quando siamo adulti dobbiamo invece avere coscienza di quanto ci portiamo dietro, e rispettare questa ricchezza di relazioni.

Francesca
E sul pensiero della differenza e le donne che lo hanno "scritto"?

Gabriela
Il pensiero della differenza: se cominciamo con Carla Lonzi ha più di trent'anni. Una trentina se pensiamo a Hélène Cixus. Se pensiamo a Luce Irigaray ne ha venticinque (Speculum è del '75) e altrettanti se pensiamo ad Adrienne Rich. Tutto ciò, però, dopo Simone De Beauvoir, che rappresenta il pre-pensiero della differenza. Lei è, diciamo, l'ultima voce autorevole che ha sostenuto che donne non si nasce ma si diventa; che, cioè, il femminile è un prodotto culturale e sociale; mentre Irigaray, in chiara interlocuzione con De Beauvoir, ha sostenuto che donne prima si nasce poi si diventa. Non basta insomma nascere donne: a questo fatto bisogna saper dare un senso, cioè capire che cosa significhi avere un corpo di donna e inoltre la mente e la sensibilità femminili che con quel corpo sono intrecciate. Se poi consideriamo le italiane d'oggi, Muraro e varie altre, vediamo che il pensiero della differenza è incarnato da donne tra i sessanta e i sessantacinque anni e che, Cigarini ad esempio, già erano in relazione con Carla Lonzi, e stanno quindi da un trentennio su questo percorso. All'epoca già non erano più delle ragazze: erano donne che avevano fatto i loro studi; donne che avevano attraversato e posseduto la cultura tradizionale.

Per tutte, la prima fase è stata di riattraversamento di quella cultura come condizione per poterne prendere le distanze. Dovevi conoscerla e possederla, quella cultura. Dovevi anzi averla amata, e con passione, perché solo così arrivavi a capire la necessità di non lasciartene imprigionare e di sfuggire al suo fascino. E' un fatto che le donne della differenza sono state, tra le intellettuali, non solo le più colte, ma pure le più innamorate della cultura tradizionale, e poi, fra i loro trenta e sessant'anni, hanno avuto la grande opportunità di venirne fuori. L'hanno avuta perché si sono trovate a vivere in un' Italia senza dubbio più libera sotto l'aspetto politico e sociale. Un' Italia in cui l'accesso all'istruzione era ormai progressivamente e tumultuosamente per tutti, per le donne anche più che per gli uomini, e in cui la cultura tradizionale, da almeno un secolo, versava in una crisi profonda; crisi sui fondamenti e crisi sulla strutturazione del soggetto. Gli stessi protagonisti della cultura maschile erano in crisi: la ragione classica, un tempo compatta e luminosa, non aveva retto a due guerre mondiali e agli stermini, né dava più risposte ad un mondo che si stava già globalizzando. Da un pezzo le creature sensibili incarnavano questo fallimento. Se consideriamo la grande cultura maschile dell'Ottocento, ebbene il decadentismo esprime in pieno la coscienza della crisi: tutta la galleria degli inetti, dei suicidi, dei folli, dei drogati, prima di diventare fenomeno di massa e di squallida periferia è stato fenomeno di élite, di intellettuali tra i più raffinati. E' stato ciò a rendere possibile il formarsi della soggettività femminile. Altrimenti le donne oggi sarebbero ancora quelle di una volta: votate all'isolamento, al suicidio, alla follia. Ci sarebbero ancora tra loro le Emily Dickinson, di cui il mondo poteva ignorare l'esistenza, e le Virginia Woolf e le altre, che pagavano in termini di sofferenza personale così drammatica la loro eccezionalità, e che non riuscivano a indicare ai grandi numeri e alle donne "normali" un praticabile percorso di salvezza.

La generazione del pensiero della differenza si è potuta costituire anche perché ha sentito l'inadeguatezza e anche il pericolo dell'emancipazione femminile, iniziata due secoli fa con la rivoluzione francese. L'emancipazione è l'autostrada lungo la quale viaggia ancora la maggior parte delle donne. Inizialmente si raccomanda, seduce e si fa scegliere perché garantisce i diritti; alla fine però produce rigetto e consapevolezza dei suoi limiti. Ma proprio qui emerge l'aspetto elitario del pensiero della differenza, e non poteva essere altrimenti: è solo quando si esce dal bisogno che si può accedere al desiderio. Certo ci volevano il diritto all'istruzione, la libertà di parola,
di voto e quant'altro: ma non al prezzo di una omologazione al genere maschile, e quindi di una sostanziale lesione della libertà femminile. Con l'emancipazione tu donna non sei libera di essere te stessa, tu sei soltanto ammessa al mio universo, mio, maschile... Tutta qui la politica dell'eguaglianza. Non si riflette che l'uguaglianza non fu mai pensata perché esistesse tra uomini e donne, ma perché esistesse tra uomini; è un prodotto storico del mondo maschile; è un essere uguali tra uomini. Ha voluto questo, la rivoluzione francese; e l'ha subito dimostrato in modo clamoroso escludendo le donne proprio dai famosi diritti. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino nella sua formulazione linguistica si poneva come neutro universale: e invece era un maschile ben marcato, valeva solo per il maschio uomo, per il cittadino maschio, non per la donna. Questa è l'insanabile inadeguatezza dell'idea di uguaglianza, idea che, pertanto, non può interessare le donne.

Le donne non solo sanno la differenza e la rivendicano come ricchezza rispetto agli uomini, ma la sanno tra di loro, sanno la singolarità. E la sanno perché questo il materno ti dice: che i figli non sono tutti uguali. Non sono uguali in sé - ciascuno e ciascuna - e non sono uguali per la madre, come la madre non è uguale per tutti loro. Ovviamente questo non significa che si debbano creare delle disparità; significa che si è capaci di fare in modo che ciascuno abbia il suo. Provvedere a tutti e a ciascuno. Io credo che il punto più alto del marxismo, il punto dove ha mostrato, non so per quali oscure vie, di sapere che cos'è il materno, sia questo: "a ciascuno secondo i suoi bisogni e da ciascuno secondo le sue capacità". E' una delle formulazioni più alte.

Francesca
Che poi è il concetto della relazione...

Gabriela.
E' il concetto della relazione. Sempre ricordando che finché si sta schiacciati sui bisogni non si va ai desideri. Storicamente: fino ad oggi non si è riusciti a rispondere ai bisogni senza garantire la parità dei diritti; proprio questo fa sì che ancora l'uguaglianza e la parità abbiano un fascino, e che il pensiero della differenza sia minoritario.