Meriggio
- A mezzo il giorno
- sul Mare etrusco
- pallido verdicante
- come il dissepolto
- bronzo dagli ipogei, grava
- la bonaccia. Non bava
- di vento intorno
- alita. Non trema canna
- su la solitaria
- spiaggia aspra di rusco,
- di ginepri arsi. Non suona
- voce, se ascolto.
- Riga di vele in panna
- verso Livorno
- biancica. Pel chiaro
- silenzio il Capo Corvo
- l'isola del Faro
- scorgo; e più lontane,
- forme d'aria nell'aria,
- l'isole del tuo sdegno,
- o padre Dante,
- la Capraia e la Gorgona.
- Marmorea corona
- di millacevoli punte,
- le grandi Alpi Apuane
- regnano il regno amaro,
- del loro orgoglio assunte.
-
- La foce è come salso
- stagno. Del marin colore,
- per mezzo alle capanne,
- per entro le reti
- che pendono dalla croce
- degli straggi, si tace.
- Come il bronzo sepolcrale
- pallida verdica in pace
- quella che sorridea.
- Quasi Lètea,
- obliviosa, eguale,
- segno non mostra
- di corrente, non ruga
- d'aura. La fuga
- delle due rive
- si chiude come in un cerchio
- di canne, che circonscrive
- l'oblìo silente; e le canne
- non han sussurri. Più foschi
- i boschi di San Rossorre
- fan da sé cupa chiostra;
- ma i più lontani,
- verso il Gombo, verso il Serchio,
- son quasi azzurri.
- Dormono i Monti Pisani
- coperti da inerti
- cumuli di vapore.
-
- Bonaccia, calura
- per ovunque silenzio.
- L'Estate si matura
- sul mio capo come un pomo
- che promesso mi sia,
- che cogliere io debba
- con la mia mano,
- che suggere io debba
- con le mie labbra solo.
- Perduta è ogni traccia
- dell'uomo. Voce non suona,
- se ascolto. Ogni duolo
- umano m'abbandona.
- Non ho più nome.
- E sento che il mio vòlto
- s'indora dell'oro
- meridiano,
- e che la mia bionda
- barba riluce
- come paglia marina;
- sento che il lido rigato
- con sì delicato
- lavoro dall'onda
- e dal vento è come
- il mio palato, è come
- il cavo della mia mano
- ove il tatto s'affina.
- E la mia forza supina
- si stampa nell'arena,
- diffondesi nel mare;
- e il fiume è la mia vena,
- il monte è la mia fronte,
- la selva è la mia pube,
- la nube è il mio sudore.
- E io sono nel fiore
- della stiancia, nella scaglia
- della pina, nella bacca
- del ginepro; io son nel fuco,
- nella paglia marina,
- in ogni cosa esigua
- in ogni cosa immane,
- nella sabbia contigua,
- nelle vette lontane.
- Ardo, riluco.
- E non ho più nome.
- E l'Alpi e l'isole e i golfi
- e i capi e i fari e i boschi
- e le foci ch'io nomai
- non ha più l'usato nome
- che suona in labbre umane.
- Non ho più nome né sorte
- tra gli uomini; ma il mio nome
- è Meriggio. In tutto io vivo
- tacito come la Morte.
-
- E la mia vita è divina.
(Gabriele
D'Annunzio, da Alcyone, 1903)
Da notare il contrasto con le descrizioni della natura di
Ungaretti, testimonianze di diverse sensibilità...
Mentre per D'Annunzio l'identificazione esclude ogni
presenza umana fino a determinare una divinizzazione
dell'uomo, per Ungaretti, è occasione di scoprire se
stesso.
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