Il borgo


Il carrettiere incitava, con la voce e la frusta, il cavallo che ansava penosamente nello sforzo di trainare il carro carico delle nostre suppellettili, sulla vecchia provinciale polverosa pavimentata a macadam che da Cosenza sale verso Pietrafitta per 12 Km., in quel tardo pomeriggio di primavera inoltrata del 1940.

Era partito circa due ore prima; papà, mamma, mio fratello di quattro anni e mezzo, mia sorella di quasi due ed io di sette lo raggiungemmo un pò prima del paese a bordo di una "macchina di piazza", così si chiamavano da noi i taxi allora, e lo precedemmo alla casa dove avremmo abitato fino alla fine della guerra, e dove ci accolse festante una anziana e grassa signora, Concettona, lavandoci la faccia con umidi e schioccanti baci a ripetizione, ed esclamando:

"Cumu su bieddri 'ssi picciriddri, gioooia mia!"(come sono belli questi bambini, gioia mia), e giù altri baci.

Fu la sua unica manifestazione d'affetto; in seguito ogni occasione, con l'alleanza dell'ufficiale postale che aveva casa ed ufficio nello stesso casamento, era buona per angosciare mia madre durante i quattro anni che seguirono.

Si sussurrava che fosse stata l'amante di un mio prozio, fratello di mio nonno Vittorio, don Carlo ormai da un pezzo defunto e che le aveva lasciato in eredità, per servizi resi, la casa di cui lei ora ci affittava due stanze al primo piano, la cucina tutta per noi con un grande camino e un bagno (uno sgabuzzino con gabinetto alla turca, un buco con tanto di coperchio in legno, e secchio dell'acqua) in comune, situato in fondo a sinistra del grande ingresso a pianoterra, di fronte alla cucina.

Intanto arrivò il carro con la roba che il carrettiere scaricò davanti al portone d'ingresso; ci vollero tre ore per sistemare tutto e dopo aver mangiato qualcosa velocemente, stanchi ma felici, almeno io, ce ne andammo a dormire.

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Nel 1940 Mussolini, forte dei suoi fantomatici otto milioni di baionette, alleandosi con la Germania e col Giappone e avendo formato con queste due potenze l'Asse Roma-Berlino-Tokio (1), dichiarò guerra all'Inghilterra e alla Francia, col preciso intento di andare a rompere facilmente le reni alla Grecia, di cavarsela in un paio di mesi e con, almeno, quei due o trecento morti che gli avrebbero permesso di sedersi, con diritto e a parità di diritti, al tavolo dei vincitori; ma a quel tempo la guerra non era uno spettacolo in TV, che dura 15 giorni o al massimo un mese; andò diversamente ed il Duce chiese poi agli italiani di partecipare allo sforzo bellico donando "oro alla Patria"(2); cioè di consegnare, agli organi preposti alla raccolta, tutti gli oggetti in oro come fedi matrimoniali, catenine, braccialetti, nella misura delle loro possibilità e della loro fede patriottica; in seguito furono istituite altre raccolte, gli "Ammassi", di rame, pellami, grano, pancette di maiale e quant'altro che, nelle intenzioni originali, dovevano servire a fare munizioni, dotare di scarpe i soldati al fronte e a dar loro da mangiare.

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Agli inizi del 1940 mio padre venne richiamato in servizio nell'Arma dei carabinieri; aveva 39 anni, nessun santo in paradiso e dovette obbedire; rimpiangeva ora i settanta grammi d'oro, ricevendone in cambio due simboliche "Fedi di guerra" in ferro, dati alla Patria, a quella Patria che lo condannava ora alla rovina, lasciandogli solo il tempo di sistemare i suoi affari rapidamente e come meglio poteva.

Il suo cruccio maggiore, data la sua grande gelosia, era quello di dover lasciare sola, lontana dal suo vigile occhio, quella santa donna di mia madre di dieci anni più giovane di lui, il cui unico eccesso era quello di amarlo ancora, come ai primi tempi del loro amore.

Le ho viste io le lacrime di mia madre in quei quattro lunghi anni di separazione.

Non era di fede fascista - oggi sembra che nessuno lo sia mai stato eppure i fascisti c'erano, sia quelli veri che quelli cui conveniva esserlo - ma doveva sottostare alle adunate del "sabato fascista" ed indossare la camicia nera se voleva continuare senza problemi il suo commercio di alimentari al dettaglio ed evitare la rappresaglia di continue ispezioni da parte dei vigili sanitari, che avrebbero trovato in ogni caso qualcosa che non andava per elevare salatissime multe; io mi divertivo invece da matti a partecipare alle adunate con il mio bravo moschetto di latta ed il pugnaletto di gomma, prima come "Figlio della Lupa" poi come "Balilla" e ricordo come ero fiero quando, in prima elementare, la maestra mi sceglieva per recitare, quando qualche gerarchetto locale visitava la scuola, il giuramento di fedeltà al Duce.

Lo ricordo ancora:

"In nome di Dio e dell'Italia, giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze la causa della Rivoluzione Fascista".

Il gerarchetto sorrideva, mi faceva una carezza sulla testa e mi diceva: "Bravo, piccolo balilla! Sarai un buon italiano."

Ritornavo felice al mio banco ed ero a posto per tutta la giornata ... pensando al mio radioso futuro di italiano.

Mio padre non ebbe mai la tessera del partito che se in un primo tempo era quasi obbligatoria poi diventò un premio per i più meritevoli; in compenso era monarchico ad oltranza, gongolò quando il principe Umberto sfidò a duello alla spada Mussolini e me lo raccontava con orgoglio, quasi fosse stato lui lo sfidante, ed era oltremodo convinto che ci fossero stati brogli elettorali quando poi qualche anno dopo venne instaurata la Repubblica.

Dovette liquidare in fretta e sotto costo la merce in magazzino, ne ricavò 70.000 lire che mia madre fece durare fino alla fine della guerra e delle quali mio padre trovò, al suo ritorno, ancora 20.000 lire, con le quali poté riprendere il suo commercio; affittò per 100 lire al mese la nostra casa ad una signora di Longobucco, che aveva il marito in America e voleva far studiare i figli in città, riservandosi una stanza nella quale stipò tutto quello che non poteva essere portato al seguito e non utile nell'immediato, e ci sfollò in questo piccolo borgo agricolo di circa 1200 abitanti, il cui più importante edifico era costituito da un convento dei cappuccini, giustamente convinto che vi saremmo stati più al sicuro dalle incursioni del nemico; infatti Cosenza fu bombardata dagli Americani tre volte nell'aprile del 1943.

La mattina dopo, tra baci, abbracci, lacrime e con raccomandazioni da ambo le parti, mio padre partì per salvare la Patria, andando a perlustrare dal tramonto all'alba (e rimettendoci la salute) il tratto di linea ferroviaria tra Vibo Valentia e Pizzo Calabro; si temevano possibili ed eventuali sabotaggi ed attentati, mirati ad interrompere quel vitale tratto di ferrovia; il pericolo che ciò potesse veramente succedere era avallato da voci, forse diffuse ad arte dalla propaganda nemica per distogliere l'attenzione dalle vere intenzioni, che quella era un zona nevralgica per un eventuale sbarco di truppe alleate (3); poi le cose andarono altrimenti.

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Io mi accinsi ad esplorare il borgo.

Chiunque pensi che per un ragazzino di sette anni di città, sia pure di 40.000 abitanti quanti ne contava Cosenza all'epoca, la vita possa essere facile in un piccolo borgo agricolo si sbaglia di grosso; un ragazzino di città difficilmente bazzica la strada se la sua è una famiglia attenta come lo era la mia, mentre i ragazzini del borgo vengono mandati in giro per monti e per valli a pascolare pecore, capre e vacche; in materia sessuale sono dei professori avendo assistito ad accoppiamenti tra animali e magari ci hanno pure partecipato ed il ragazzino di città viene sfottuto di brutto per la sua ingenuità; magari lo sfidano pure a far vedere chi c'è l'ha più grande e regolarmente si ritrova perdente e deriso, certamente non per la mancata pratica ma solo perché più piccolo di due o tre d'anni; comunque gioca fuori casa ed è in minoranza mentre quelli sono tutti amici tra loro e conoscono il territorio.

Era una lotta ... ma eravamo o no in guerra?

Fortunatamente c'erano altri ragazzini di città, sfollati nello steso borgo con i loro genitori, con cui potevo meglio intendermi e poi scoprii nuovi giochi non praticabili in città: u strummulu, a carriata, u stiriddru, e a carrozza.

Quest'ultima era un'asse di legno dotata di tre ruote, pure di legno, due posteriori fisse ed una anteriore, articolata e dotata di un manubrio che si azionava con i piedi e con una corda legata lateralmente come le briglie del cavallo, a fare da ruota direzionale, ben ingrassate negli assi per farla andare più veloce in discesa; per farle durare di più, sulle circonferenze le ruote venivano rivestite con delle fettucce in lamiera inchiodate a far da copertoni ed il massimo era quando qualcuno riusciva a reperire dei vecchi cuscinetti di camion che incastrava al centro delle ruote e precorreva le Ferrari, che ancora non esistevano; le sospensioni non erano raffinate, la tenuta di strada era alquanto precaria ed il macadam non lesinava sulle sbucciature a ginocchia e gomiti.

Mai posseduta una carrozza; l'andarci sopra dipendeva dal grado di amicizia col fortunato che ne aveva una.

Ma era anche l'Ape dell'epoca e serviva in questo caso ai grandi, quelli più poveri che non possedevano neanche u ciucciu, l'asino, per trasportare fascine, legna, sacchi di patate ed altro; la tecnica di costruzione però differiva notevolmente ed era molto più seria ed affidabile visto che serviva al trasporto di merci; intanto era più ampia e le ruote di un diametro maggiore, le tavole meglio piallate, più grosse e rinforzate da longheroni, i chiodi più robusti e le rifiniture erano più accurate e qualcuna veniva considerata lussuosa se le ruote, oltre che verniciate, venivano rivestite con fettucce in gomma, invece di quelle in lamiera, ricavate da vecchi pneumatici.

Vederle e provarne rispetto era automatico, come vedere oggi una Lamborghini o una Rolls Royce, farci un giro sopra non sfiorava la mente di nessuno perché era già occupata dal pensiero delle pesanti mani paterne.

U strummulu era la trottola (altezza cm. 7,5 cm, diametro 5,5 cm, di forma ovviamente conica che finiva con un perno di cm. 1,5, peso 100 grammi circa) in legno di faggio, noce o castagno però con un minaccioso e temibile perno appuntito in ferro, forgiato da un grosso chiodo di cavallo (il falegname con tornio ed il maniscalco ben disposto a modellare un perno quando non era incazzato erano tra gli artigiani più popolari), che veniva lanciato con forza, dopo averci accuratamente arrotolato attorno, dopo averlo ben sputazzato, una cordicella, sullo strummulu, nel preciso intento di spaccarlo, del malcapitato proprietario cui era toccato in sorte di porlo al centro di un cerchio disegnato sulla terra battuta; va a convincere mamma a comprarmene uno nuovo, poi... dovevo piangere per un mese!

E comunque avere lo strummulu anche solo scorticato dal perno nemico veniva considerata un'onta infamante; insomma quel perno era quasi un simbolo fallico.

Una variante di questo gioco era che ogni partecipante poneva al centro del cerchio, di circa un metro di diametro, un soldo (equivaleva a 20 centesimi e 5 soldi facevano una lira - non era poco in mano ad un bambino, era come se oggi avesse in tasca 5.000 lire) facendo un mucchietto; poi quello che aveva vinto la conta lanciava a supramanu, cioè con forza dall'alto in basso, il suo strummulu sul mucchio cercando di centrarlo per far schizzare fuori dal cerchio più monete possibile poi, siccome l'attrezzo continuava a girare vorticosamente per almeno cinquanta secondi, lo faceva abilmente scivolare tra le dita più volte raccogliendolo sul palmo della mano e dal palmo lo ributtava giù, cercando di spingere col perno fuori dal cerchio le monete ancora dentro; tutte le monete messe fuori dal cerchio erano sue; poi toccava al secondo e così via fino a che le monete venivano messe tutte fuori; avessi mai recuperato il mio soldo almeno!

Pagavo lo scotto del novizio; io ero la burba e loro i nonni.

Poi ci voleva anche una grande abilità a far girare vorticosamente u strummulu É e per questo c'erano tre tecniche: suttamanu, tiralazzu e quella, in parte descritta sopra, a supramanu.

La più facile, per i principianti, era quella a suttamanu, cioè sottomano, che si eseguiva tenendo la mano con lo strummulu sotto il livello dell'anca e lo si lanciava al suolo tirando contemporaneamente verso se stessi la cordicella, per imprimergli una rotazione più veloce.

Crescendo l'esperienza si passava a quella detta a tiralazzu, tirare il laccio verso se stessi lanciando dall'altezza della spalla stavolta e si guadagnava qualcosa in velocità di rotazione; scoprii in seguito che con il nome di questa tecnica veniva definita anche quella pratica sessuale con la quale non si va fino in fondo, scientificamente nota come "coitus interruptus" o "ante portam", e poiché non erano in molti, del volgo pietrafittese o cosentino, a conoscere il latino fu detta a tiralazzu, tirare indietro la ... cordicella; ma anche il volgo più colto che conosceva il latino usava di preferenza questa espressione dialettale.

I veri campioni però, i più esperti disdegnavano queste due prime tecniche; umettavano con la saliva i due o tre centimetri sfilacciati e dotati di uno strettissimo nodo della parte iniziale della cordicella, la avvolgevano strettamente attorno alla parte in legno del cono, partendo dalla base del perno, sputandoci sopra coscienziosamente per aumentarne l'aderenza (ma questo succedeva anche per le altre due tecniche), infilavano il mignolo nel cappio della parte terminale per non farsela sfuggire e si esibivano in lanci devastanti e spettacolari a supramanu, partendo con la mano da sopra la testa, come se dessero un fendente (allo stesso modo del lanciatore nel baseball solo che miravano a due metri verso terra); lo strummulu toccava il suolo con un tonfo sordo, un nitido e sibilante ronzio imitava quasi la sirena dell'allarme aereo e la rotazione durava almeno un minuto; era durante queste esibizioni ad alto livello che, quando la mira riusciva, un crac sinistro annunciava l'ingloriosa fine del misero strummulu posto a terra e due lucciconi apparivano negli occhi dell'infelice proprietario.

La perfetta centratura e perpendicolarità del perno, ottenuta dopo ore di pazienti colpetti laterali dello stesso contro un pietra, aumentava di molto il valore dell'attrezzo e l'invidioso rispetto verso il suo proprietario; u strummulu girava veloce, sibilante, senza la minima oscillazione orizzontale ed era carezzevole sul palmo, era na pullula, una farfalla; al contrario se non era centrato bene saltellava sbilenco, ti faceva male al palmo ed era nu terramu, un terremoto ... e suscitava ilarità generale e scherno verso l'inetto ed incapace che non sapeva centrarlo.

U stiriddru consisteva in un pezzo di legno dalle dimensioni di un sigaro avana, appuntito alle estremità su cui si picchiava con una mazza in legno facendolo saltare e colpendolo a volo con la stessa mazza; potevi giocarci da solo per allenarti, non ti divertivi molto ma non c'erano problemi oppure, e qui cominciavano i guai, giocavi con altri e vinceva chi lo mandava più lontano; ma non era così semplice.

Intanto erano dei veri e propri tornei, parteciparvi costava un soldo e partecipavano tutti quelli che erano disposti a puntarlo il soldo; poi una volta che lo facevi saltare dovevi riuscire a colpirlo a volo, ma lo dovevi anche colpire centrandolo bene e con sufficiente forza per mandarlo ad una distanza prestabilita di trenta passi o 60 volte la lunghezza della mazza; poiché il gioco si svolgeva sulla strada il colpo doveva essere tanto preciso da far restare u stiriddru nella carreggiata, perché se andava fuori venivi eliminato ed il rientro in gioco costava un altro soldo; il non raggiungere la distanza minima prestabilita era un altro motivo di eliminazione e di esborso di un altro soldo per rientrare ancora; ed era qui che succedevano le liti perché, per equità, dicevano, c'era quello, l'arbitro imparziale, preposto alla misurazione dei lanci di tutti, che misurava a modo suo in maniera manifestamente partigiana e cortigiana.

Credo che il primo esempio di sudditanza psicologica arbitrale si sia manifestato in quelle occasioni; la paura delle botte, il non essere più portati sulla carrozza, il timore di non avere più lo strummulu rispettato dal temibile perno erano motivi sufficienti per fare trenta passi piccoli, fingendo di farli grandi, per far restare in gioco quello capace di queste ritorsioni e fare veri enormi passi lunghi per eliminare gli avversari del potente; a questo aggiungi i legami di amicizia tra compaesani e la coalizione degli agricoli contro i cittadini.

Il torneo finiva, tra mugugni e scontenti, quando finivano i soldi e restava solo uno a raccogliere la gloria e le monete, grazie a quell'arbitro cornuto che, se non lo era ancora, di fatto lo sarebbe certamente diventato un giorno.

Brutto stronzo!

A carriata consisteva nell'appendersi alla sponda posteriore di un camion di passaggio poggiando i piedi sulla ruota di scorta o su una eventuale barra e lasciarsi carriare (scarrozzare) per un paio di chilometri, riempirsi di polvere bianca tanto da sembrare poi un albino e scendere quando una curva a gomito costringeva il camion a rallentare; al ritorno se eri fortunato prendevi un camion che andava nel senso opposto se no te la facevi a piedi; era il gioco preferito ed il più divertente e soprattutto non spendevi un soldo, anche se i camionisti minacciavano botte da orbi quando se ne accorgevano, perché temevano che ci facessimo male e per le conseguenze che ne sarebbero derivate per loro, e non mancavano le sicure botte di mamma che si accorgeva della polvere.

Ma non si giocava sempre, solo nei ritagli di tempo lasciati liberi dalla scuola la mattina e dal catechismo (l'ortina, deformazione dialettale di "dottrina") nel pomeriggio e non c'era verso di sfuggire al prete, che se non mi vedeva lo diceva a mamma ed erano altre botte.

Cominciavo a convincermi che tutto ciò che mi divertiva e mi piaceva era male e tutto quello che mi annoiava e non volevo fare era bene; tra il Paradiso e l'Inferno, da quel che vedevo del bene, forse era meglio l'Inferno. Però ...

... dopo la prima comunione, se non volevo finire all'Inferno, c'era l'obbligo di confessarmi e di comunicarmi almeno una volta al mese; durante la confessione, che era garantita segreta, il prete mi chiedeva sempre se avessi commesso "atti impuri" ed io, che non sapevo ancora cosa fossero, rispondevo invariabilmente di no; lui si accontentava della risposta e mi lasciava andare con la penitenza di qualche preghiera, ma non senza avvisarmi che a compierli, quegli atti, rischiavo la cecità, la perdita della memoria e che potevo diventare scemo; intuivo che gli "atti impuri" avessero a che fare con la pisciarella ed ogni qual volta me la toccavo per far pipì cercavo di toccarla il meno possibile e mi tranquillizzavo solo quando constatavo di vederci bene come prima.

Molto contrastati e pieni di botte i bei tempi felici della mia infanzia! ... ma a quei tempi ancora nessuno aveva insegnato ai genitori che bisognava lasciare il bambino libero di esprimersi.

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Nello stesso caseggiato dove abitavamo c'era l'ufficio postale e il titolare con la famiglia abitava pure lì; non furono dei buoni vicini e da subito non andammo d'accordo; erano liti continue e ricordo che in occasione della prima comunione, non potevamo ne mangiare ne bere dalla sera precedente, la figlia maggiore dell'ufficiale postale, Argìa che distribuiva acqua da bere agli assetati ragazzini dopo la funzione, mi manifestò la sua acredine rovesciandomi l'acqua sul mio bel vestitino bianco; ho anche il fondato sospetto che il titolare della Posta trattenesse qualche giorno in più le lettere di mio padre tanto per dare un dispiacere a mamma; dodici anni dopo vendicai me e mia madre picchiando con molto gusto, davanti alla scuola magistrale, Damiano suo figlio, mio coetaneo e nemico giurato.

Gli feci uscire il sangue dal naso.

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Sulla parete del caseggiato di fronte, scritto a caratteri cubitali con vernice verde, si leggeva: "Credere ! Obbedire! Combattere!" E più sotto, in nero: "Dio stramaledica gli Inglesi".

Io non sapevo a chi credere, ma dovevo obbedire a mia madre e combattere contro quello che cercava di spaccare il mio strummulu e contro il prete che mi costringeva a stare in sagrestia; non sapevo perché Dio dovesse stramaledire gli Inglesi piuttosto che il prete ma in seguito, per gl'Inglesi, mi sono trovato a dover dare ragione a Mussolini, almeno in qualche caso; poi alla fine del '43 comparve, sulla stessa parete un'altra scritta, in rosso stavolta e molto più grande:"E' finita l'erba!" sembrava quasi un grido di liberazione e di esultanza e il significato mi restò oscuro per molto tempo, anche perché vedevo che di erba ce n'era ancora nei prati.

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Pietrafitta è un borgo collinare che si sviluppa in lunghezza dall'alto verso il basso, suddiviso in frazioni; la più in alto, "i Francuni", poi scendendo "u Campitieddru" (il campetto), "a Rota" (la Ruota) e "u 'Mbruscinaturu" dove c'era un abbeveratoio per gli animali e dove gli asini si 'mbruscinavano, cioè si rotolavano per terra forse per togliersi dalla pelle mosche, tafani e affini e che quando, dopo ripetuti fischi per incitarli, non volevano più bere, si sentiva esclamare: "Quannu u ciucciu 'un vo biva ha voglia ca fishchi!" (che tradotto in volgare suona: "Quando l'asino non vuol bere hai un bel fischiare ... non cavi ragno dal buco", che poi equivale a "Non c'è più sordo di chi non vuol sentire").

I Francuni vantavano la presenza di un antico e semi diroccato castello, detto d'i cuccuveddre, cioè delle civette, e da cui si vede bene Cosenza, distante sette chilometri in linea d'aria e trecentocinquanta metri più in basso, adagiata nella conca, attraversata dal Crati e dal Busento e circondata dalle montagne; era qui che confluivano ragazzini curiosi e adulti preoccupati quando nell'aprile del 1943 le superfortezze volanti americane passavano con un possente e cupo rombo sopra il borgo, sbucando da dietro le montagne, per andare a bombardare la città nella valle; gli adulti preoccupati per le case e i beni, i ragazzini curiosi di vedere le colonne di fumo che salivano al cielo dopo le scoppio delle bombe; quando un botto era particolarmente forte, che quasi se ne avvertivano le vibrazioni sotto i piedi, si sentiva esclamare: "Miiiinchia cchi bumma!" (caaaspita che bomba!); per fortuna almeno la metà delle bombe che caddero su Cosenza restarono inesplose e molte furono rinvenute anche anni dopo, l'ultima dopo quasi sessant'anni, e fatte brillare dagli artificieri del locale CAR.

Le zone che ebbero i danni maggiori furono la stazione ferroviaria dove ci furono parecchi morti, il vecchio ospedale civile sulle cui macerie sorge oggi il nuovo municipio, distrutto il ponte sul Crati che univa la città vecchia alla nuova e il collegio arcivescovile, di fronte al negozio di mio padre che trovò la saracinesca in zinco deformata dallo spostamento d'aria e con una grossa scheggia conficcata al centro (scheggia che per anni fu conservata ... poi non so che fine abbia fatto); non c'era contraerea ma in compenso dal campo di aviazione di Cecìta, nei pressi di Camigliatello silano, poi trasformato in lago dalla SME (Società Meridionale Elettrica), si levavano in volo i caccia tedeschi che ingaggiavano battaglie aeree con le superfortezze ma non ho mai visto cadere un aereo in volo.

Furono quelle le uniche tre volte in cui vidi la guerra da vicino o meglio da lontano; la vera guerra ci scavalcò, la Calabria non venne considerata strategicamente importante dai tedeschi, e dalla Sicilia si spostò a Salerno, Napoli, Montecassino, Anzio, Roma, Bologna e man mano verso il Nord, dove la guerra la sentirono veramente e durò più a lungo; almeno due anni in più e con la complicazione che i Tedeschi, prima alleati, dopo l'armistizio firmato l'8 settembre del 1943 dal Maresciallo Badoglio (4), consideravano gli Italiani traditori e l'Italia zona di occupazione militare.

Mentre fu considerata moltissimo dagli Alleati che vi si installarono da padroni vincitori più che da alleati, imponendo con prepotente violenza e tracotanza nuove regole di vita agli indigeni e depauperando la Sila del legname dei suoi secolari pini.

I molti film sulla guerra che in seguito vedemmo ed anche la rivista Victory (ne ricordo ancora il particolare odore d'inchiostro), stampata dagli Americani, ci mostravano truppe di liberazione alleate festanti, amichevoli e simpatiche, recanti aiuti e doni ("Timeo Danaos Dona Ferentes"), chewing gum, whisky Johnnie Walker red label, sigarette Luky Strike, Camel, Philips Morris, Boston e Liberty, container di abiti smessi in America, il piano di aiuti UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) (5), le AM lire, la penna biro, il jazz, Frank Sinatra, e tanto altro ancora, come i negri ed i Marocchini affamati di carne bianca ma neanche loro la disdegnavano (non si deve dimenticare quanto successo a Napoli, si legga al riguardo La pelle di Curzio Malaparte (6), nè la vergogna della pineta di Tombolo in Toscana (7)); in realtà erano truppe di occupazione e ci trattarono da morti di fame, quali in effetti eravamo, da vinti come chi ha perso la guerra e ripagandosi degli aiuti dati con l'installazione di basi militari strategiche sul sacro suolo della Patria (mi si consenta la retorica); ancor oggi, dopo sessant'anni, siamo quelli che hanno perso la guerra, un paese di serie B, non certo una grande potenza alla pari con chi la guerra l'ha vinta.

Dopo sessanta anni.

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Non posso affermare, almeno per quel che mi riguarda, che in Calabria si sia patita veramente la fame, forse l'hanno sofferta di più in città ma in un borgo agricolo c'era sempre da mangiare; certo c'era scarsità di generi di prima necessità come pane, pasta, olio, zucchero che erano razionati e la cui vendita venne in seguito regolamentata in città dalle carte annonarie, le tessere, ma ortaggi, patate, castagne e maiali abbondavano; una grande quantità di grano e farina finiva agli "ammassi" per le truppe al fronte, dicevano, ma buona parte prendeva altre strade meno militari e più private e la si ritrovava al mercato nero a prezzi iperbolici.

Un giorno mio nonno, in una delle sue rare crisi di generosità, mi invitò a consumare insieme a lui parte del pollo ucciso quel giorno dicendomi :

"Vieni stasera e non dimenticare di portarti il pane."

A mia madre caddero le braccia ma mi diede la mia razione di pane; del pollo in brodo mi toccò il collo, la punta delle ali e le zampe (fortuna che mia madre mi aveva messo da parte la cena); le cosce, sovracosce ed il petto a lui ed i resti di quello che lasciò se li spolpò mia nonna, che non sedette a tavola con noi ma ci serviva in piedi e si rivolgeva al marito col Voi, Vussuria; per lei amarlo, servirlo, parlargli, il tutto con rispetto e gratitudine, era un privilegio.

Mio nonno, quarto dei sette figli del medico condotto del borgo, era un vecchio autoritario ed ignorante (dei sette figli, secondo i costumi dell'epoca, solo uno, Francesco, aveva studiato diventando poi notaio a Cosenza) signorotto di campagna, medio proprietario di qualche terreno agricolo, facente parte dei notabili del paese e come tale rispettato, che amava definirsi agricoltore ma lasciava la zappa ai suoi coloni e comunque era molto competente in colture agricole; produceva e in gran parte vendeva il suo vino, il suo olio, faceva fare le sue conserve e le provviste per l'inverno.

Faceva allevare sei maiali ogni anno, uno per le sue necessità, uno per i coloni (che se ne volevano altri se li compravano in proprio, ma in questo caso ne dovevano una parte a lui perché venivano allevati con prodotti della SUA terra) e quattro per la vendita, sia vivi che macellati e trasformati in salsicce, soppressate e prosciutti.

Taccagno quanti altri mai e di un egoismo feroce, del suo benessere non ne avemmo il minimo godimento e ancor meno fu espansivo in termini affettivi; non amava che gli prendessi un grappolo d'uva, quando andavamo insieme nella vigna, ma a volte era capace di offrirmelo lui e dovevo dire "grazie nonno", forse voleva insegnarmi l'educazione, non so.

In paese aveva anche un orto e da un basso muretto di recinzione, quando capitava, io vi buttavo delle immondizie e alla lunga se ne era fatto un bel mucchio; su questo erano nate due o tre zucchine che lui aveva adocchiate ma le avevo adocchiate anche io e me ne ero appropriato, in fondo l'immondizia ce l'avevo buttata io ed erano mie, per farci dei porcellini con quattro stecchini a zucchina; non trovandole più se ne lamentava in giro, inveendo contro il dilagare incontenibile della disonestà, e l'ufficiale postale, avendo visto i miei tre porcellini, glielo andò a riferire; fui costretto a nascondermi per almeno un mese e a subire il sarcasmo dello sghignazzante ufficiale postale.

Il naso sanguinante di suo figlio Damiano mi ripagò anche di questo.

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Il pane da bianco diventava sempre più scuro col perdurare del conflitto, sottraendo al maiale la crusca non setacciando più farina; ci si lamentava di questo ma non sapevamo di precorrere i tempi attuali in cui si raccomandano il pane e la pasta integrali (non ricordo con esattezza ma nel 1945 o nel 1946, dopo tanto pane nero, vedemmo apparire il pane di una bianchezza abbagliante; era fatto con farina di noci di cocco essiccate, bello a vedersi ma non sapeva di pane e non sapeva neanche di cocco, sapeva di niente); al maiale restavano le ghiande e le castagne curce, cioè che non si spellavano, mentre le 'nserte (inserte o innestate) più grosse e saporite le mangiavamo noi bollite (vallane) o arrostite (ruseddre); gli togliemmo anche quelle secche e spellate, i pistiddri, ottime e nutrienti lessate ed il cui caldo brodo leggermente salato ci ristorava nelle fredde sere presilane.

Qualcuno provò anche a tostare le ghiande per farci il caffè; se l'esperimento fosse andato a buon fine il maiale avrebbe rischiato di morire magro.

Anche le lame da barba, le lamette "Tre Teste", che oggi non si trovano più, si cercava di farle durare più a lungo possibile provando a ridare loro il filo tagliente sfregandole contro l'interno di un bicchiere.

Chi riusciva ad avere sufficiente farina (o grano che portava al mulino ricevendone in cambio l'equivalente in farina), faceva il pane in casa impastando nella grande maìddra, la madia, farina con acqua sale e lievito di pane; poi si facevano le grosse pagnotte di circa due chili, su cui si incideva profondamente una croce con una lametta, e per l'occasione si facevano anche le fresine ed i taralli e si portava il tutto al forno che era poco distante da dove abitavamo; una volta cotto il pane veniva conservato per almeno un mese al cannizzu, un graticcio intrecciato di canne appeso al soffitto e stranamente anche l'ultimo pane si conservava abbastanza morbido anche se raffermo; ricordo distintamente l'odore del legno di pino o castagno che bruciando scaldava il forno, l'odore del pane caldo e, quando il pane era cotto e tolto, si infornavano, nel forno ancora caldo, fichi imbottiti con noci, le famose crocette, castagne, olive, eventuali tegami di agnello, pollo o di pasta con le uova sode e le melanzane ed anche dolci se era il periodo pasquale o natalizio; ma ancor più nitidamente ricordo la vecchia fornaia uscire sulla strada davanti alla porta, fermarsi a gambe larghe con le mani sui fianchi, guardando con aria intenta lontano davanti a se come se cercasse di vedere qualcosa, e da sotto le lunghe gonne del suo vestito tradizionale uscire un rivolo schiumoso di orina:

"Oooohhh!", feci io stupefatto.

"Va joca, guagliù" (va a giocare, ragazzo), disse sorridendo; andai a giocare ma mi chiedevo come facesse a far pipì giù dritto a terra senza che le colasse lungo le gambe e senza schizzarla sul davanti delle gonne.

E comunque non doveva portare le mutande.

No, non doveva portarle.

**

Ci sono molte cose oggi che "temporibus illis" non c'erano ma ce n'erano altre che oggi non ci sono più.

Dove sono finite le lucciole?

Si usciva nelle sere estive davanti casa sullo spiazzo antistante appena rischiarato da un lampione a muro con la lampadina blu, imposta per l'oscuramento anti incursione aerea (in città, oltre alle lampadine dei lampioni ed ai fari delle poche vetture, anche i vetri di balconi e finestre erano verniciati di blu e vi si incollavano strisce di carta gommata per non farne schizzare tutt'intorno le schegge in caso di bombardamento), per stare in compagnia con altre persone, e c'erano centinaia di lucine, che lentamente circolavano tra noi, le lucciole appunto; le potevo facilmente catturare con la mano e le mettevo in un bicchiere, che ricoprivo con un piattino, per fare il pieno di luci e vederci di notte nel buio della stanza, ma dopo un po' morivano e si spegnevano; non ne ho prese più.

Non sono più ritornato a Pietrafitta dopo la fine della guerra, se non anni dopo, per andare al cimitero a visitare i miei sepolti lì, e non so se nelle notti estive circolano ancora le lucciole e quelli a cui ho chiesto sembra che non sappiano di cosa parlo; di sicuro a Cosenza non ne ho viste.

Non c'erano le banane, i kiwi, gli avocado ma c'era tutta la frutta di stagione da cogliere direttamente dall'albero e non dal fruttivendolo; mele, pere, anche quelle dette spadone che maturano d'inverno, fichi bianchi e neri, pesche, albicocche, prugne, ciliegie e mamma faceva le varie marmellate; poi in autunno noci, castagne e l'uva malvasia, zibibbo e quella nera con la quale si faceva la mostarda, da non confondere con la senape, la marmellata d'uva; con i fichi bianchi secchi e imbottiti di gherigli di noci o mandorle ed infornati si facevano le crocette, specialità presilana ancora e soprattutto oggi molto apprezzata, addirittura anche industrializzata, ma non è la stessa cosa.

In inverno niente frutta locale tranne quella secca, come uva passa, noci, fichi infornati; Pietrafitta, con i suoi quasi 700 metri sul livello del mare, era troppo in alto per coltivare agrumi e gli aranci e i mandarini ce li venivano a vendere gli ambulanti con le carrette trainate da cavalli dalla città e anche un altro frutto sparito, lontano cugino del bergamotto, il piretto.

Ma l'inverno era la stagione più importante per il borgo.

Era la stagione dei maiali e delle frittole.

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Nell'economia di un borgo il maiale rappresentava un fattore importantissimo ed un ciclo quasi continuo di eventi, come l'acquisto, la castrazione, la crescita, l'uccisione e la produzione di salumi insaccati, prosciutti, capicolli e che ricominciava nello stesso ordine a partire da marzo fino a culminare nella fase più importante in gennaio e febbraio successivi.

I contadini erano i più grossi acquirenti per almeno tre motivi; intanto avevano bisogno di molto letame per concimare la terra; poi avevano famiglie ben numerose ed era una cosa comune vederne di quelle composte da nonno, nonna, padre, madre ed almeno dodici figli, quando erano famiglie normali, ma ne ho viste anche con diciotto figli ed una volta mia madre, alla domanda posta ad una contadina:

"Ma lei signora quanti figli ha?", si sentì da questa rispondere dopo un breve calcolo aritmetico mentale:

"Tra morti e vivi ... ventidue o ventitré ... credo."

Al formarsi di queste famiglie numerose non era estranea l'assenza delle televisione per cui i coniugi andavano a letto al tramontare del sole (vero anche che si alzavano la mattina all'alba) e si sa cosa può succedere a letto se c'è solo quello per distrarsi, ma non erano estranee le 500 lire che il Duce (8) elargiva alla nascita di ogni nuova futura baionetta per rimpiazzare, previdente, quelle che dovessero perire; preconizzava una Italia di ottanta milioni di italiani e i contadini gli davano sotto, anzi dentro e ... senza tiralazzu.

Ultimo motivo, ma non meno importante, era che tutto quello che eccedeva i loro bisogni lo vendevano in città alle salumerie e avevano anche clienti privati che annualmente venivano nelle campagne del borgo a comprare prosciutti, capicolli, soppressate, salsicce e tutto ciò che fosse in odore di genuinità; per cui compravano ogni anno dai cinque ai sei maialini, sia al mercato bisettimanale di Cosenza che dagli ambulanti.

Per il privato cittadino o paesano, la cui famiglia non eccedeva le sette o otto persone erano soprattutto le disponibilità economiche che determinavano l'acquisto di uno, due, massimo tre maialini piccoli di 20-30 chili ognuno, di preferenza maschi e venivano acquistati dai "porcari" ambulanti, che nei mesi di aprile, maggio, giugno giravano per i vari borghi, garantendo la buona razza dei loro maiali, la loro salute e che crescendo sarebbero diventati grossi e grassi almeno quanto un elefante.

Poi c'era anche chi lo comprava in settembre, già adulto e cresciuto ma magro, di ottanta o novanta chili, e lo tenevano negli ultimi tre o quattro mesi all'ingrasso.

Mia madre ne comprava solo uno, eravamo in quattro, e per non essere imbrogliata dal porcaro si faceva consigliare da mio nonno sull'acquisto; il cavalier Vittorio accondiscendeva a dare con sufficienza il suo illuminato parere sulla bestia migliore tra quelle in vendita, guardava attentamente, valutava, poi indicava un esemplare col dito e, una volta perfezionato l'acquisto, si guidava il maialino legato per una zampa posteriore e incitato con una frusta fino al catuoiu (porcile). Il maialino di buona razza doveva essere nero perché di carne più gustosa, (oggi questa razza non si trova più, le hanno preferito quella bianca perché dà una più alta resa in peso), tunnu e ricuotu, tondo e raccolto (corto) piuttosto che lungo, e doveva avere i quarti posteriori ben larghi.

Il porcile poteva essere una baracchetta in legno, se posta in un orto, o un basso, un piccolo locale facente parte del casamento a livello della strada, dotato di una tinozza per l'acqua e di uno scifu (il truogolo) che era ricavato da un grosso tronco di castagno o pino scavato, sul tipo di una canoa ma più rozza, lungo più o meno un metro, in cui veniva versato il pastone costituito dai resti del nostro pranzo o cena (ma non restava un granché, piuttosto era la lavatura dei piatti), crusca con acqua, castagne, ghiande, pistiddri (castagne secche spellate) e che era tenuto fermo al suolo, fissato tra paletti di legno perché è risaputo che "quannu un puorcu è abbuttu arruozzula u scifu", quando il maiale è sazio rovescia il truogolo ... che poi, riferito agli uomini, significa che "chi ha troppo spreca".

Ero io a portargli da mangiare due volte al giorno ma non mi piaceva farlo perché il porcile ovviamente puzzava, anche se veniva pulito ogni settimana da un contadino con una scopa di saggina, con secchi d'acqua e con un rastrello e una pala per togliere la paglia sporca, che era il suo compenso in letame, e sostituirla con quella pulita che serviva da lettiera.

Ma non bastava alimentarlo; se volevamo che ingrassasse, ed anche per evitare che crescendo diventasse pericoloso e aggressivo, si doveva chiamare u grastaturu per farlo castrare; costui era un povero diavolo che, ogni anno in questi mesi di maggio e giugno, girava per i vari borghi per esercitare la sua "nefanda" arte chirurgica, con una bisaccia, uno zaino militare a tracolla, armato di un affilatissimo coltello a serramanico e di un piccolo secchio, ricavato da una lattina vuota di pomodoro con un manico fatto con il fil di ferro, in cui metteva il ricavato dei suoi interventi, cioè i testicoli dei maiali su cui interveniva castrandoli e che costituivano la sua paga; non sono in grado di precisare se mangiando quella enorme quantità di testicoli di maiale sia diventato un super verre o un super testicolo lui stesso.

Dopo di che il maiale ingrassava tranquillamente, in attesa dei mesi fatali di gennaio o febbraio.

Arrivava l'estate, passava l'autunno ed il maiale cresceva, mangiava e cresceva e in inverno era diventato enorme; dai 20 chili iniziali, dal piccolo grazioso animale che avevo visto a maggio era diventato un mostro (il cavalier Vittorio aveva visto giusto) di quasi 150 chili di cui potere andar fiero perché avere il maiale più grande, più grasso di quelli degli altri, era motivo di vanto; ma quello che aveva il maiale rachitico di solo un quintale trovava il modo di consolarsi dicendo, con l'aria saputa di chi sa quel che dice:

"Si, u miu è cchiù picciriddru però è cchiù sapuritu; tu frichi u tuu, è tuttu grassu!" (si, il mio è più piccolo però è più gustoso; te lo sbatti il tuo, è tutto grasso!); se ne deduceva agevolmente che era più intelligente e fortunato lui che aveva cinquanta chili di maiale in meno.

Si aspettava solo il vero freddo, la neve per ucciderlo e questo per evitare che la carne andasse a male nei tre o quattro giorni che erano necessari per portare a termine tutto quel che c'era da fare; dalle salsicce alle frittole.

In quei giorni ero spesso triste pensando alla fine che lo attendeva; una cosa era comprare delle braciole di maiale in macelleria ed un'altra era ricavarle da quello che, dopo avergli portato da mangiare tutti i giorni e due volte al giorno per otto mesi, mi riconosceva quando arrivavo ed era diventato quasi un amico.

Mi è sempre rimasta l'impressione che, nei giorni che precedevano la sua fine, il maiale dimagrisse e che quasi presentisse qualcosa di brutto; sentiva gli altri maiali gridare da lontano quando li uccidevano ed io vedevo che a quelle grida smetteva di botto di mangiare ed ascoltava.

Brigitte Bardot non era ancora nata, il WWF non esisteva ancora e la Società protettrice degli animali se c'era non arrivava fin da noi a difendere il maiale, che non era una razza in via di estinzione, ma è certo che veniva ucciso in maniera veramente barbara e oscena; potevano anche spararglielo un colpo di pistola in testa, no?

No! Si sarebbe rovinato il cervello.

Nei giorni che precedevano l'evento, mia madre prendeva accordi con un paio di contadine e con un paio di uomini, magari mariti o figli delle stesse donne, esperti nella lavorazione del maiale e si fissava il giorno; le donne venivano il giorno prima per aiutare a preparare le pentole, la caldaia, lavare la maiddra, quella che serviva per il pane, la legna per il caminetto, carbone per i fornelli, stracci puliti, vassoi, zuppiere, ceste, cestini e quanto altro poteva servire.

Ed arrivava il giorno del sacrificio.

**

Arrivavano la mattina presto, alle sette, portando una serie di affilatissimi coltelli di foggia e dimensioni diverse; le donne in casa accendevano il caminetto e mettevano nel camino la quadara, una caldaia o pentolone, con almeno 100 litri d'acqua sul treppiedi per scaldarla, mentre gli uomini fissavano al muro fuori casa, ad un robusto anello in ferro già esistente, una carrucola e a questa attaccavano u gammieddru, una specie di omino, simile a quello per appendere gli abiti nell'armadio, ma molto più grande e robusto, in grado da sopportare il peso di almeno tre quintali, avente alle punte estreme due robusti ganci per appenderci il maiale per i tendini delle zampe posteriori e tenerle allargate; vicino mettevano su due cavalletti la maiddra mentre all'interno nell'androne, subito fuori dalla cucina, approntavano due tavoli su cui avrebbero posto le due metà del maiale.

Poi andavano a prenderlo al catuoiu.

Lemme lemme, ancora ignaro o forse presago, arrivava portandosi dietro i suoi 150 chili, grugniva grufolando e fiutando il terreno, cercando da mangiare; gli offrivano un canestro contenente un po' di ghiande tra le quali era nascosto il cappio di una robusta corda e, quando questo gli andava tra le fauci, tiravano per stringerlo e glielo avvolgevano rapidamente intorno al muso per impedirgli di mordere; poi, magari aiutati da qualche volenteroso di passaggio, dopo avergli legato anche le zampe lo rovesciavano a terra, gli si sedevano sopra per non farlo muovere ... e intanto gridava... e, messagli la gola in vista, l'esperto prendeva lo scannaturu, un lungo, sottile, affilato e appuntito coltello, e lo scannava.

Un fiotto di sangue sgorgava dentro un recipiente già pronto, mentre il maiale continuava ad emettere grida soffocate e gorgoglianti e ad ogni grido il sangue schizzava più violentemente; un altro uomo metteva a nudo i tendini delle zampe posteriori, ci infilava i ganci del gammieddru e, tirando in due o tre la corda della carrucola lo issavano perpendicolarmente al muro, seguendo col recipiente lo sgorgare del sangue, per non perderne una goccia.

Ci metteva cinque buoni minuti a morire dissanguato, tra sussulti e gorgoglii sempre più deboli fino a che restava immobile; poi lo lasciavano li appeso per almeno un'ora aspettando che l'acqua della quadara bollisse, per fare colazione, per raccogliere l'ultima goccia di sangue.

Poi lo staccavano dai ganci e lo adagiavano nella maiddra e vi buttavano sopra l'acqua bollente e cominciavano a pelarlo con i loro affilatissimi coltelli, cioè a fargli la barba strappando e mettendo da parte i 'nziti cioè le setole più grosse e rigide che erano sulla schiena; perché niente si buttava del maiale; con le ossa, aggiungendo soda, si faceva il sapone e con le setole il ciabattino dotava lo spago incerato di una punta semi rigida, molto utile quando doveva cucire insieme suola e tomaia inserendolo nei buchi fatti con la suglia (la lesina).

Una volta ben pelato da tutte le parti ed ora tutto bianco gli tagliavano la testa, che staccavano con l'aiuto di una accetta quando incontravano la parte cervicale della spina dorsale, e veniva messa sul davanzale della finestra con un limone in bocca; lo riappendevano ai ganci, mettevano sotto l'animale varie bagnarole ed il chirurgo di turno lo apriva da sopra a sotto e gli intestini si riversavano in uno dei recipienti, il gruppo cuore, polmoni e fegato in un altro; una volta svuotato veniva diviso esattamente in due metà con l'aiuto di una accetta, il chirurgo prelevava il suo dovuto che per tradizione consisteva nell'uossu du porcaru, un pezzo di spina dorsale di una ventina di centimetri prelevato dalla parte del coccige con un bel pezzo di carne attaccato; poi le due metà venivano adagiate sui due tavoli davanti alla porta della cucina al freddo, non dentro perché il camino dava calore, ricoperte da due lenzuola, in attesa del giorno dopo per far si che la carne raffreddasse per poterla meglio lavorare; ma quella notte non si dormiva e si faceva a turno la guardia al maiale, per prevenire allegri e gratuiti prelievi da parte dell'ufficiale postale o di Concettona ... o di tutt'e due.

Ma non per questo si riposava in quel primo giorno.

Si lavavano e si rilavavano gli intestini, stomaco, trippa, vescica fino a che erano più che puliti e si mettevano in un recipiente con acqua e sale sul davanzale della finestra, coperti e con un peso sopra per scoraggiare i gatti; mia madre metteva a bollire il sangue con l'aggiunta di zucchero, cacao (reperito chissà come e dove), gherigli di noci e nocciole di Sorrento, per fare uno stupendo sanguinaccio che avremmo mangiato poi a merenda nei mesi a venire, le contadine separavano il cuore dal polmone e dal fegato che finivano anche loro sul davanzale; dalla testa spaccata si estraeva il cervello per farne frittelle, si cucinava un po' del fegato avvolto nella sua retina di grasso con la cipolla, origano e alloro e si faceva il soffritto, sfumato in ultimo con l'aceto forte con le interiora, stomaco e trippa, lo spezzatino col cuore e la milza e un po' di carne di collo ... peperoncino, vino e gassosa.

In fondo non era morto invano.

Poi tutti a casetta.

**

Il giorno dopo incominciava la vera lavorazione del maiale; la carne era abbastanza fredda per poter essere trattata e incominciavano col modellare i prosciutti, che venivano salati e messi in salamoia per almeno quaranta giorni; ritagliavano le pancette, il guanciale dalla testa e venivano anche salati come i prosciutti ma per minor tempo; selezionavano le varie qualità di carne che sarebbero servite per capicolli, soppressate e salsicce, scarnificavano le ossa che finivano nella quadara seguite da orecchie, lingua, reni, zamponi, cotenne sgrassate e non, pezzi di lardo, tutto il resto che non poteva essere usato diversamente ed il secondo giorno volgeva al termine.

Salsicce, soppressate e capicolli le facevano il terzo giorno; il capicollo era un pezzo di carne scelta, prelevata appunto tra il capo ed il collo, di forma cilindrica, che veniva strettamente legata insieme a stecche di canna; la carne migliore mista ad un po' di lardo e tagliata a pezzettini piccolissimi, come per un battuto, serviva per le soppressate e quella meno pregiata sempre mista a lardo per le salsicce; se mista col fegato diventava salsiccia di fegato, mentre col cuore, polmoni, trippa, stomaco e milza facevano le vozze o le 'nduglie, meglio note come "salame da sugo" di "soldatiana" memoria, che servivano proprio per fare un meraviglioso sugo di pomodoro con cui venivano conditi gli gnocchi di patate o i fusilli fatti in casa; si consumavano anche lesse con la verdura fatta a minestra.

Quelle soppressate, che hanno reso famosa in Italia la Calabria per i suoi salumi, oggi non si trovano più e lo sprovveduto illuso che gira per le campagne alla ricerca del prodotto genuino gusterà beato la soppressata di qualche salumificio industriale che l'astuto contadino avrà comprato al supermercato e, tolta l'etichetta ed il piombino e messa nello strutto, la rivende a tre volte il prezzo al pollo di turno; quelle fatte da lui se le mangia lui.

Non meno furbe oggi le contadine che comprano le uova a 200 lire l'una, le tolgono dalla confezione originale in cartone pressato, le mettono in un paniere di canna avvolte in una salvietta bianca e girano per le case in città vantandone la freschezza, "su ancora cavude, signò, chisse ti po' puru sucà, è tutta salute" (sono ancora calde, signora, queste te le puoi anche succhiare) ed esigendone 500 lire ognuna.

L'apoteosi culmina nel quarto giorno, quello delle frittole, della grande mangiata collettiva, con invitati di riguardo e comunque che avendo già ucciso il loro maiale ci avevano invitati o che dovevano ancora ucciderlo e ci avrebbero invitati a loro volta.

La grande quadara con tutte le parti inutilizzate del maiale ricoperte a filo di acqua e sale sufficiente (per il sale partecipavo anche io perché mi conferivano l'incarico di ammaccare il sale nell'ammaccaturu, pestello di legno o rame; allora il sale si comprava dal tabaccaio, era monopolio di stato, e veniva venduto in pezzi più o meno grossi che poi ognuno ammaccava in casa per renderlo fine o grosso) e con sotto dei ceppi ardenti di legna di castagno cominciava a bollire; di tanto in tanto si rimescolava il tutto con un enorme mestolone.

Dopo due ore si metteva a bollire la verdura, il cavolo cappuccio o verza e intanto si apparecchiava la tavola, con i cestini per il pane già tagliato a fette, caraffe di vino e, sul ripiano della credenza, finocchi, lupini, noci , castagne, mandorle e crocette; qualche dolce locale come i turdiddri, i scaliddri, ginetti e pitte 'mpigliate ed altra roba ancora avrebbero portato gli invitati, tranne mio nonno che si presentava a mani vuote ma preceduto da 5 litri del suo vino e sedeva di diritto a capo tavola; io il più lontano possibile da lui non essendo sicuro che avesse dimenticato la storia delle tre zucchine.

Quando tutta l'acqua era evaporata ed era rimasto solo il grasso fuso a far galleggiare i pezzi del maiale si cominciava a mangiare; gli uomini, perché le donne servivano in tavola e di tanto in tanto mettevano qualcosa sotto i denti, un po' sedute e molto in piedi; mi sono sempre chiesto dove i convitati mettessero tutta quella roba, visto che dopo due ore continuavano a masticare, e non solo ma prima di attaccare le frittole veniva servita la pasta, poi la verdura con le frittole che venivano tolte dalla caldaia e messe nei vassoi e zuppiere; cotenne sgrassate e le frittole vere e proprio che erano le cotenne col lardo, piedi, lingua, reni, orecchie, coda, ossa con ancora carne attaccata ed ognuno aveva vicino al suo piatto cinque o sei peperoncini di quelli veramente incazzati; qualcuno ne richiedeva anche degli altri.

Tutti esaltavano la bontà del maiale perché, dicevano, che uno buono così non lo avevano mangiato mai, a memoria di frittola; mia madre si affrettava a dire:

"Tutto merito di papà, lo ha scelto lui", e tutti a complimentarsi col cavaliere, che accettava con modestia i complimenti, schernendosi ma guai a non farglielo il complimento e a non riconoscergli il merito; se la sarebbe legata al dito ed il prossimo maialino mia madre poteva sceglierselo da sola, come anche sarebbe stata una imprudenza non complimentarsi per il suo vino tra quelli presenti e portati da altri, che pur essendo produttori essi stessi di vino si sentivano in dovere di affermare:

"Si, il mio vino è buono, ma vogliamo mettere quello del cavaliere! Guardate che bel colore rubino ... e che sapore!" ed un altro esclamava: "Don Vittò, m'avìti i dì cumu faciti pp'u fa accussi bbuonu" (don Vittorio, mi dovete dire come fate per farlo così buono); il cavaliere annuiva soddisfatto e li guardava benevolo e paterno; era un vanaglorioso ma non era un fesso; difficilmente in una trattativa lo fregavi ed i suoi affari li faceva molto bene.

Era un padrone.

Poi si passava alla frutta, ai dolci e ad un ultimo bicchiere di vino, il caffè non esisteva e nessuno voleva orzo; ringraziavano e si congedavano dicendo che quella era la frittuliata più favolosa cui avevano partecipato da anni.

Se restavano altre due ore avrebbero svuotato la quadara!

Il resto della giornata passava a terminare le ultime cose; sparecchiavano, lavavano le stoviglie e, liberati i tavoli, vi si disponevano vasi in terracotta, salaturi, di varia grandezza che venivano via via riempiti e si cominciava con una grossa schiumarola ad estrarre tutto ciò che di solido era rimasto nella quadara e si suddividevano le varie parti; le frittole e parte delle cotenne sgrassate conservate nei vasi e nello strutto sarebbero state consumate a primavera inoltrata con le fave, altri pezzi più magri come cotenne, piedi, lingua, reni, cuore, orecchie e coda si mettevano in gelatina; il grasso fuso, lo strutto affiorante lo si raccoglieva delicatamente e lo si metteva nella vescica e quello eccedente in vari vasi e sarebbe servito per cucinare al posto dell'olio d'oliva, che serviva più sovente per condire le insalate, quando c'era; quando non era più possibile raccogliere il grasso senza raccogliere anche i detriti, quello che restava sul fondo della quadara erano gli scarafuogli, un misto di grasso e minutissime particelle di carne, ottimi da mettere a cucchiaiate in padella, fonderli e friggerci le uova. Appendevano al soffitto a delle canne, per farli asciugare al fumo ed al calore del caminetto capicolli, soppressate e salsicce, i prosciutti e le pancette venivano appesi dopo il periodo di salamoia; davano una ripulita al tutto lavando recipienti, tavoli e pavimento con acqua bollente, davano appuntamento per il prossimo maiale, salutavano e se ne andavano; non li pagavamo perché erano i contadini del cavaliere e si sarebbero rifiutati di accettare soldi da noi e infatti mia madre ci provò ma senza risultato; li pensai che il nonno qualcosa di buono ogni tanto la faceva.

Noi chiudevamo a doppia mandata la cucina, per ovvi motivi, e ce n'andavamo a dormire, stanchi ma consapevoli che per sei mesi avremmo avuto da mangiare.

**

Tre maiali dopo, mio padre fu congedato e ritornò più vecchio di sedici anni anche se era stato via solo quattro, chiese ed ottenne la casa libera dall'inquilina e ritornammo a Cosenza alla fine del 1944.

Avevo undici anni e da lì ricominciò la mia vita in città; ma questa è un'altra storia.

Il ricordo dei miei quattro anni vissuti nel borgo non mi ha mai lasciato; sovente, troppo sovente la mia mente torna a quel periodo.

Vi fui felice?

A volte si, altre meno.

Più spesso meno.

Di certo erano i miei anni verdi.


Note:

-1-
L'Asse Roma-Berlino nacque sul finire del 1936 (discorso del Duce a Milano del 1° novembre). Il patto Roma-Tokyo nacque invece il 6 novembre 1937, con l'adesione dell'Italia al patto che Germania e Giappone avevano siglato il 25 novembre 1936 per fare fronte comune contro l'accordo Comintern. La dichiarazione di guerra lanciata dall'Italia contro la Gran Bretagna e la Francia è del 10 giugno 1940. L'attacco italiano alla Grecia ebbe inizio 28 ottobre 1940. Circa gli 8 milioni di baionette, il nostro esercito poteva teoricamente schierare in guerra 9.8 milioni di Italiani e 1.2 milioni di "Coloniali", ma disponeva nel 1940 di soli 1.2 milioni di fucili e, presumibilmente, di altrettante baionette.

-2-
L'oro alla Patria. La fantasia nazionale in materia di imposizioni fiscali è senza limiti e durante il periodo bellico, avendo già spremuto dagli Italiani tutto il possibile, il regime non trovò di meglio che "invitare" le famiglie a donare il loro oro alla Patria. Un'attenta campagna propagandistica martellò a lungo la popolazione con tutti i media allora disponibili, mostrando i volti sorridenti di madri e padri che si toglievano le loro fedi nuziali per deporle con gesti assolutamente plateali negli appositi contenitori predisposti per la bisogna. In cambio dei loro anelli matrimoniali, le coppie ricevevano dei semplici anelli di ferraccio "a ricordo delle nozze", ma soprattutto, della "donazione delle loro fedi alla Patria". L'oro, secondo la giustificazione corrente, doveva servire per sopperire alle restrizioni poste all'Italia dalle sanzioni economiche internazionali e consentire il proseguimento di un conflitto che non aveva comunque alcuna possibilità di successo. Ci furono anche quelle coppie di sposi che, avendone la possibilità finanziaria, si recarono dai pochi gioiellieri rimasti, acquistarono delle nuove vere in oro che nulla avevano di personale, donandole quindi alla Patria. Facendo sì il bel gesto, ma tenendosi ben cari gli anelli che effettivamente ricordavano un momento felice della loro vita.

-3-
Dopo la sconfitta italo-tedesca nel Nord-Africa (13 maggio 1943) e la caduta di Pantelleria (11 giugno 1943), tutta la costa meridionale d'Italia venne pesantemente bombardata per mesi dagli aerei anglo-americani, in previsione degli sbarchi che ebbero poi luogo a Gela e ad Avola in Sicilia a partire dal 10 luglio 1943. Seguirono, qualche tempo dopo, quelli di Salerno (settembre 1943) e di Anzio (22 gennaio 1944).

-4-
Fu esattamente il 3 settembre del 1943, in un uliveto nei pressi di Siracusa, che il generale Castellano firmò l'armistizio, controfirmato da parte alleata dal generale Bedell Smith. Lo stesso giorno gli Anglo-Americani attraversarono lo stretto di Messina. Dopo la firma dell'armistizio, sorsero da parte italiana alcuni tentennamenti derivanti dalla paura delle rappresaglie tedesche e soltanto l'8 settembre, su diretta pressione del generale Eisenhower, i termini dell'accordo furono comunicati al popolo italiano, con il seguente messaggio, trasmesso da Roma via radio alle ore 19.00:
"Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza."

-5-
UNRRA. Si trattava di un accordo internazionale siglato nel novembre 1943 da 44 governi "alleati" che intendevano prestare immediata e concreta assistenza ai Paesi particolarmente colpiti dalla guerra. Tramite l'UNRRA ed utilizzando soprattutto le famose navi da carico "Liberty" (alcuni di questi bastimenti, come anche qualcuno degli altrettanto famosi aerei "Dakota", sono rimasti più o meno in esercizio sino a qualche anno fa), giunsero anche generi alimentari da tempo ormai molto rari sulle tavole degli Italiani, quali il cioccolato, le banane, la farina bianca. Nel 1948, su ispirazione del Segretario di Stato americano, generale George Catlett Marshall (premio Nobel per la pace 1953), fu istituito l'omonimo piano di aiuti economici all'Europa (anche noto come ERP, European Recovery Program), che fornì assistenza alla ricostruzione nel periodo 1948-1952, con qualche "coda" negli anni successivi. Occorre infine notare che nel 1944, a seguito degli accordi di Bretton Woods, furono gettate le basi per la creazione della Banca Mondiale, le cui agenzie specializzate (quali ad esempio la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) vennero gradualmente a prendere il posto dell'UNRRA e dell'ERP nella funzione di sostenitrici, per lo più solo finanziarie, delle economie in fase di ricostruzione o emergenti.

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La pelle, di Curzio Malaparte. Con lo pseudonimo di Malaparte, il giornalista e scrittore Curzio Suckert (1898-1957) compose varie opere di narrativa che, per la crudezza dei racconti e per l'assoluta indifferenza dell'autore rispetto alla cultura politica dominante, non sempre riscossero il consenso dell'establishment del tempo. Nel 1949 uscì il suo romanzo La pelle, che descrive in modo estremamente realistico le vicende che avevano accompagnato l'occupazione di Napoli da parte delle truppe anglo-americane. Racconta, ad esempio, di quella stamberga in un "basso", dove una ragazzina spaurita attendeva i clienti standosene seduta dietro una lurida tenda, davanti alla quale l'imbonitore assicurava: "Last virgin in Neaples: put your finger into for one dollar only" ("L'ultima vergine di Napoli: se vuoi controllare, infila dentro il tuo dito, soltanto per un dollaro"). Racconta anche di quando gli scugnizzi con perfetto tempismo smontarono completamente un carro armato Shermann che l'incauto soldato USA aveva parcheggiato nel cortile della casa in cui lo aspettava per una notte di passione una delle sue"signorine" preferite.

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La pineta di Tombolo. Ricorda una pagina triste della nostra storia recente e che, come capita spesso in questi casi, si è cercato in tutti i modi di lasciare cadere nell'oblio. Alla fine della guerra, e per un lungo periodo, nella vasta pineta di Tombolo (in provincia di Pisa, fra la foce dell'Arno e Livorno) erano stati concentrati gli accampamenti di gran parte dei militari statunitensi presenti in Italia. Fu proprio allora che diverse centinaia di "signorine", giunte da molte località italiane e spinte dalla indigenza - e in qualche caso anche dalla prospettiva di accasarsi con qualcuno che le potesse far vivere meglio - frequentarono con assiduità quelle tende, prostituendosi senza alcuna riserva per qualche dollaro, per qualche paio di calze di nylon, o per le sigarette, il cioccolato, il caffé, e il pane bianco. Molti di quei beni finivano poi anche per alimentare gli infiniti canali della "borsa nera". Non furono poche le nascite "miste" che vennero registrate in quel periodo e altrettanto frequenti furono gli incidenti, con diversi morti e feriti, che si verificarono sotto quei pini.

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500 lire del Duce. Grosso modo, 500 lire degli anni '40-'44 potevano equivalere a un milione di lire attuali e non sorprende più di tanto se il regime fascista fosse allora disponibile a donare quella somma a chi avesse messo al mondo un figlio. Secondo una concezione allora in voga, la ricchezza di un Paese era anche data dal numero di braccia che potevano lavorarci. Un concetto che sostanzialmente veniva estrapolato da quello della singola famiglia, nella quale la prole numerosa era quasi sinonimo di tranquillità e benessere futuri. In altri termini, una sorta di assicurazione sulla vecchiaia. Tuttavia, anche ai giorni nostri vi sono alcune amministrazioni comunali che elargiscono premi, più o meno di analoga entità, alle coppie che si sposano o che creano qualche nuova "unità" che possa incrementare un indice di natalità nazionale precipitato ormai a livelli negativi. Si tratta in realtà di provvedimenti del tutto demagogici che mirano ad acquisire un "consenso politico" altrimenti difficile. Comunque, già negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, vigeva l'usanza secondo la quale le Autorità donavano un intero corredino alle madri che avevano messo al mondo figlioletti nella stessa settimana in cui erano nati i rampolli di Casa Savoia.

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