Il tuffo
(ovvero: da quella domenica ad oggi)


Chi pensa che sia il destino a guidare la nostra vita non tiene conto dell'esistenza della volontà e della facoltà di scegliere.

Sono le nostre azioni presenti che determinano il nostro futuro ed a fare il nostro destino.

Una sola delle nostre azioni, compiuta in un certo luogo, ad una certa ora di un certo giorno, può modificare radicalmente ed irreversibilmente il corso della nostra vita.

In bene o in male.

Sempre una nostra azione avrà il suo peso, grande o piccola che sia; grande come un assassinio o un gesto eroico, piccola come uno starnuto o un tuffo, appunto.

Ma perché scegliamo di fare una determinata azione o di non farla?

Questo dipende dalle circostanze, dal saper valutare le cose, dall'intelligenza, dal carattere, dalle preferenze, dal gusto per il rischio. In ogni caso siamo noi che scegliamo, non il destino.

Ma non era destinato che si scegliesse di fare o meno una certa azione? Questa è una sottigliezza a dir poco capziosa e cavillosa, oltre che oziosa ed inutile. Non serve scaricare sul destino la propria responsabilità.

Non so come sarebbe andata se non avessi fatto il tuffo, forse peggio, forse meglio; non lo so.

Ma so come è andata per averlo fatto

**

Prendiamo il treno delle sette, mio fratello ed io, in questa bella domenica di metà Giugno del 1950, per una gita al mare, la prima di quest'anno, con una borsa contenente asciugamani, costumi da bagno e colazioni ... le aranciate o le birre le avremmo comprate al bar della rotonda, per averle fresche.

Arriviamo alla stazione di Paola un'ora dopo e ci precipitiamo di volata in spiaggia, quasi avessimo paura di non trovarcelo il mare.

Ci spogliamo, incuranti della ancor poca gente intorno, infiliamo i costumi da bagno e via in acqua, urlando come Tarzan appeso alla liana, ancora sudati ma chi se ne frega, sguazzando come rane, spruzzandoci l'acqua addosso, nuotando sott'acqua e passando l'uno tra le gambe dell'altro, cercando di stare sotto il pelo dell'acqua il più a lungo possibile per mettere alla prova la resistenza dei polmoni, con gli occhi aperti a guardare nell'acqua limpida il fondale, fatto di piccoli sassi rotondi.

Poi fuori, a sdraiarci sulla grossa sabbia con la faccia al sole del mattino, felici di vivere e di star bene ... ma questo è normale per noi non una eccezione, è un diritto non un dono; forse non sappiamo nemmeno di esser felici; stiamo bene e tanto ci basta.

Diciassette anni io, quindici e mezzo mio fratello; siamo immortali!

Almeno io mi sento immortale.

Fisico integro, fiato lungo, agile, scattante, muscoli sempre pronti a tendersi e a gonfiarsi, già il solo vedere da lontano le ragazze in bikini mi procurano evidenti turbamenti, che mi costringono molto spesso a pancia in giù sulla sabbia o a rituffarmi in acqua per nasconderli ... e chi c'è meglio di me?

Nessuno!

... vorrei vedere!

Passiamo più di metà della mattinata al sole come ramarri, l'ombrellone non ci serve, entrando ed uscendo continuamente dall'acqua; altri vacanzieri della domenica sono arrivati, facciamo amicizia con altri ragazzi e passiamo il tempo scherzando e sfottendoci. Ci esibiamo in prove di abilità fisica, camminando sulle mani o cercando, tirandoci la mano, piede contro piede, di far cadere l'altro; o ancora ci tuffiamo e proviamo, nuotando sott'acqua, a riaffiorare il più lontano possibile dalla riva.

A questo gioco sono senz'altro io il più forte.

Un pescatore con la sua barca, remando parallelamente alla riva in cerca di clienti, ci chiede se vogliamo fare un giro.

"Quanto vuoi?"

"Cento lire."

Siamo in cinque e calcoliamo venti lire a testa; ci guardiamo in faccia e in un attimo decidiamo di fare la passeggiata in barca.

"Dove ci porti?" chiedo al pescatore;

"Laggiù, trecento metri al largo c'è un palombaro che sta recuperando i resti di un peschereccio affondato; stiamo a guardare un po' e poi torniamo," risponde lui;

"Va bene," dico anche per gli altri.

Mi siedo a prua con le gambe che pendono fuori dalla barca e guardo l'acqua fendersi sotto la remata potente del pescatore, apparentemente priva di sforzo; merita le sue cento lire.

Siamo a circa centocinquanta metri dalla riva e l'acqua è così limpida che si vede il fondo; non l'avevo mai fatto prima, così distante dalla riva, ma la trasparenza mi invoglia a tuffarmi e a provarci.

"Lo sapete che io sono capace di raggiungere il fondo qui?" dico agli altri ragazzi ma con l'intento di far sentire soprattutto al pescatore, che subito abbocca, la mia sfida;

"Chi tu?" mi fa lui, incredulo; per lui sono soltanto un ragazzo di città;

"Si io, non ci credi? Fermati e ti faccio vedere;"

"Guarda che ci sono almeno otto metri, non puoi farcela;"

"Fermati, ti dico."

Ferma la barca; mi alzo piazzandomi sul bordo, inspiro profondamente e mi tuffo; vado facilmente giù e sul fondo prendo un pugno di sabbia, che costituirà la prova che ci sono effettivamente arrivato; riemergo con uno spruzzo e sorridendo mostro la sabbia; applausi dei compagni di gita; sbalordimento del barcaiolo. Risalgo agilmente a bordo e continuiamo la passeggiata, tra le felicitazioni generali comprese quelle del pescatore, che vuole sapere dove ho imparato a nuotare così bene.

Tre minuti dopo arriviamo dove c'è il natante del palombaro; è appena emerso ed è seduto sul bordo; si è tolto il casco dello scafandro e sta riposandosi, respirando a pieni polmoni l'aria del mare.

Il pescatore non ce la fa più a tenersi dentro la notizia:

"Ehi, lo sai? questo ragazzo è capace di andare fino al fondo con un tuffo?" dice al palombaro;

"Si? e i pesci parlano! ma non farmi ridere," risponde quello con un'aria di scherno che non mi piace;

"Vai ragazzo, tuffati, fagli vedere!" mi incoraggia il pescatore;

"E' una parola!" dico;

"Come è una parola?, prima ce l'hai fatta ed ora... ?"

"Ma prima eravamo a centocinquanta metri dalla riva e qui siamo almeno al doppio, poi li l'acqua era trasparente e qui non vedo più il fondo e non posso valutare quanti metri di profondità ci sono in questo punto," protesto;

"E quanti vuoi che siano? solo pochi di più; dai che ce la fai!" dice, più fiducioso di me sulle mie capacità o forse perché, in realtà, spera di vedermi fallire la prova.

Rifletto e cerco di convincermi che effettivamente ce la potrei fare, che posso farcela, che senz'altro ce la faccio anche se ho un po' di timore per l'incognita della profondità; al limite, se mi accorgo di non potercela fare, posso sempre abbandonare il tentativo; intanto guardo l'acqua non più trasparente come prima ed intorno a me si fa silenzio; sento mio fratello che mi dice:

"Lascia stare, non farlo; può essere pericoloso."

Conoscendomi, sa che finirò per farlo; pur s'è più giovane di me di quasi tre anni è più maturo di almeno venti; io gli dico sempre che è nato vecchio; quarant'anni dopo continuerò a digli che non è mai stato giovane.

Vedo che il palombaro mi guarda con ancora la sua aria scettica e di scherno; questo mi fa decidere.

Mi alzo e mi piazzo sul bordo della barca.

"Lascia perdere ti dico," grida quasi mio fratello;

"Zitto! lasciami fare;"

"Fa come cazzo vuoi!" si rassegna, imbronciato.

Non gli rispondo ed incomincio a respirare profondamente, cercando di prendere più aria possibile e, quando mi sembra che in una sola inspirazione non potrei prenderne di più, salto ed entro in acqua perpendicolarmente a testa in giù, mani giunte e piedi uniti.

Comincio a scendere verso il fondo nuotando a rana; probabilmente sbaglio tecnica facendo così, perché non batto i piedi come un vero sub, ma questo ancora non lo so; continuo a scendere e devo aver fatto già parecchi metri perché la luminosità diminuisce; di colpo l'acqua si fa più fredda e comincio a sentire ronzii nelle orecchie, per la pressione che aumenta; la visibilità si riduce ancora e c'è solo un chiarore spettrale che diventa sempre più grigio scuro, man mano che scendo; il fondo non si vede ancora e fa sempre più freddo; non sono mai arrivato così in profondità prima e comincia a farmi male il petto; sono quasi pentito ma continuo; lascio sfuggire un po' d'aria, per alleggerire la pressione interna, e decido con rabbia di risalire quando a circa due metri mi sembra di vedere il fondo.

"Dai che ci sei, non abbandonare ora!" mi impongo.

Continuo, tre bracciate ancora e tocco il fondo, finalmente; ma debbo ancora risalire e già sento disperatamente il bisogno di respirare. Penso a mio fratello, che in ansia aspetta di vedermi riemergere; sempre più mi convinco che forse avrei fatto meglio ad ascoltarlo.

Con rabbia afferro un pugno di sabbia, mi giro, do una grande spinta con i piedi e ricomincio la salita, verso la luce, verso l'aria.

Risalgo velocemente, aiutandomi con il movimento delle gambe e delle mani, sempre a rana ma con la destra chiusa a pugno, perché stringo la sabbia, la preziosa sabbia che mi accorgo sta sfuggendo dalle dita strette; la preoccupazione di non poter dimostrare di essere arrivato al fondo, se non me ne resta almeno qualche granello, mi distrae per un paio di secondi dalla sofferenza per la mancanza d'aria; continuo a salire, si fa più chiaro ed intravedo lontano la superficie che tremola, la sagoma della barca ... ma fin dove sono arrivato! all'inferno?

Più salgo e più la necessità di respirare si fa urgente e la superficie si avvicina troppo lentamente; continuo a lasciar sfuggire piccoli quantitativi di anidride carbonica, perché di ossigeno ce ne deve essere rimasto ben poco nei miei doloranti polmoni; le orecchie ronzano e mi fanno male, soprattutto la destra, e la testa comincia a girarmi; vedo lampi di colore rosso, giallo e verde; mi viene voglia di bere un sorso ma rinuncio subito; penso che se mi va di traverso comincerò a tossire e ci metterò poco ad affogare.

Intanto continuo a salire e la superficie è vicina ormai; sembra vicina ma ci sono ancora quattro metri da fare, i quattro metri più lunghi e lenti che abbia mai percorso, ma sono salvo; luce molto forte, acqua più calda e tre lunghissimi secondi dopo emergo alla vita, al sole, all'aria.

Inspiro voracemente e con sollievo tutta l'aria possibile.

Dopo i primi rantolanti e sibilanti respiri, sembro un mantice di fucina, la mia prima preoccupazione è di far vedere sul mio palmo quel che resta della sabbia raccolta sul fondo, poi mi attacco con una mano al bordo della barca e continuo a respirare, incredulo di poterlo fare; non salgo agilmente a bordo a forza di muscoli come prima, ma mi tirano su, grondante acqua da tutti i buchi; mi siedo, continuo a riprendere fiato e cerco di far uscire l'acqua dalle orecchie, che seguitano a farmi male e non ci sento bene... poi, con un pfssshhh liberatorio, mi torna l'udito... intanto scrosciano gli applausi; li accetto con finta modestia ma dentro di me mi gonfio come un pavone; qualche anno dopo Cassius Clay griderà, dopo la conquista del titolo mondiale dei massimi,

"I am the king of the world!" io non lo grido, non ne ho la forza, ma lo penso; mi sento un dio, sia pure un dio mezzo morto ma un dio.

"Come ti senti, fesso?" mi ridimensiona mio fratello;

"Tra un po' starò bene," gli rispondo ancora affannato.

Poteva mancare il rompipalle, per rovinare la festa?

Mi sento meglio ora; penso al mio record appena conquistato e non so di quanto sia; non sarà certo mondiale ma non deve essere poca cosa; guardo il palombaro, dalla cui faccia l'espressione di scherno è sostituita da una di simpatia e rispetto e gli chiedo gridando con le mani a far megafono davanti alla bocca:

"Quanto può essere profondo qui?"

"Più o meno venti ... ventuno metri," mi risponde dopo breve riflessione.

Però mica male, mi dico, non sarà il record mondiale ma almeno quello dell'Italia meridionale si.

Venticinque anni dopo il siracusano Enzo Maiorca scenderà fino ad ottanta metri, ma in tuta da sub, attaccato a trenta Kg. di piombo che lo portano giù velocemente e le pinne ai piedi che lo aiutano a venir su più rapidamente; in più si allena tutti i giorni, per mesi, ed ha una organizzazione complessa, di tecnici e medici, intorno a lui.

Io solo col costume da bagno, senza piombo, senza pinne, senza allenamento e senza organizzazione complessa; solo con l'aiuto dello scherno del palombaro e del tifo della mia barca.

Vorrei vedere lui in queste condizioni.

Condizioni di vera apnea!

Sono fiero di me.

Dopo aver salutato il palombaro ritorniamo a riva e non si parla più del mio record; paghiamo il pescatore, che mi saluta con la deferenza che si deve ad un vero campione, e ci mettiamo a divorare le nostre colazioni; stiamo morendo di fame.

Passiamo il resto del pomeriggio ad arrostirci al sole ed a fare qualche altro bagno; mi bruciano le spalle per il troppo sole; poi si fa l'ora di riprendere il treno per tornare a casa, ma la giornata mi riserva ancora spazio per un'altra impresa.

I sei vagoni del treno sono trainati da una locomotiva a vapore molto vecchia; a metà strada tra Paola e San Lucido inizia una forte salita che la locomotiva, asmatica, affronta con l'aiuto della cremagliera ed il treno sale a passo d'uomo.

Vedo degli alberi di pesco carichi di frutta a portata di mano; la misera velocità del treno, la mia voglia più che di pesche ma di dimostrare la mia capacità di riprendere il treno in corsa mi fa saltare giù, cogliere cinque o sei pesche e correre appresso al treno per risalirci con un temerario balzo; solo che la pendenza sta diventando meno ardua ed il macchinista, simpatico burlone ... che lo possano! ... avendo assistito alla mia manovra, manda più vapore ed il treno aumenta la velocità di quel tanto da non consentirmi di riacchiapparlo; per di più non sto correndo in pista ma su di uno stretto sentiero pieno di ghiaia, vicino al treno e col rischio di cadere; fortuna che la stazione di San Lucido è a duecento metri e quando il treno è già in stazione io sono ancora a metà strada; tuuut ... tuuut ... tuuut mi sfotte il macchinista, fingendo di ripartire, facendo una grande nuvola di vapore.

Arrivo barcollante, in un bagno di sudore e più affannato che non prima per il tuffo; risalgo, butto via le pesche e mi metto a sedere, sconsolato.

"Tu non imparerai mai!" mi fa mio fratello che, comincio a sospettare, non è certo un mio acceso tifoso, un mio sostenitore; ma è anche la voce della mia coscienza perché, sotto sotto, sono d'accordo con lui.

Non gli rispondo; penso che un campione, capace di affrontare e vincere gli abissi marini, è stato sconfitto da una vecchia, asmatica locomotiva; non c'è giustizia! Non c'è più religione! Il mondo alla rovescia!

Chiudo gli occhi e mi addormento.

Sogno che il treno si allontana e che io gli corro dietro, mentre il macchinista ride e fa tuuut ... tuuut ... tuuut e butta fuori tutto il vapore che può ... io entro, correndo disperatamente, nella nuvola di vapore che si trasforma in acqua, acqua fredda con in alto la superficie che tremola, lontana ed irraggiungibile, ed ho bisogno di respirare e sto soffocando... e mi risveglio di soprassalto, affannato e sudato, alla stazione di Cosenza.

Splendida giornata di merda, cominciata bene, con un grande record, e finita male, battuto da una locomotiva asmatica.

Ancora non so quanto male sia finita, ma lo saprò.

Tra qualche anno.

**

Vado a letto e dormo un sonno senza sogni, senza interruzioni fino all'indomani mattina; il sonno del giusto ... il sonno di chi è stanco, come un antico eroe omerico capace di vincere e di perdere nella stessa giornata.

Mi sveglio tardi e dopo aver fatto colazione e pranzo, essermi tolto dalle spalle larghi lembi di pelle cotta dal sole, come se fossi una patata lessa, alle tre del pomeriggio sono di nuovo sulla breccia a giocare a calcio con una palla di pezza, in piazza Prefettura sotto un sole cocente, per tre ore filate correndo insieme ad altri incoscienti come un matto e, quando mi chino per allacciarmi una scarpa, sento come una puntura, un fastidio sotto la scapola destra; mi gratto e continuo a giocare e, quando mi riabbasso, risento questa specie di puntura, come se una pagliuzza si fosse insinuata tra la canottiera e la pelle; ma perché la sento solo quando mi chino?

Mi tolgo la canottiera e non vedo nessuna pagliuzza; torno a grattarmi per vedere se è incollata alla pelle per il sudore e niente; mi riabbasso ed eccoti la puntura.

Comincio a preoccuparmi ma continuo a giocare.

Tornando a casa, passo davanti allo studio del dottor Roberto Rucci, medico generico della mutua, amico di mio padre con cui gioca spesso a poker a casa nostra, ed entro per farmi visitare. Mi ausculta con lo stetoscopio, mi fa respirare più volte a fondo poi, con un sorriso quasi divertito, mi dice:

"Eh eh, caro mio, hai dell'aria fuori dal polmone!"

Come sarebbe aria fuori dal polmone? Questo è scemo!

"Mi scusi dottore, ma per esserci aria fuori dal polmone vuol dire che ho un polmone bucato! ... è possibile?" dico.

" Eh eh eh ... certo che hai un buco nel polmone, se no come potrebbe esserci dell'aria fuori?" mi fa.

E me lo dice ridendo! E questo è un amico di papà? Ma un buco nel polmone è una cosa grave e dovrebbe essere preoccupato per il figlio di un suo amico! E invece ride! Ma guarda sto scemo!

"Grazie dottore, mi scusi il disturbo."

"Figurati! Salutami tuo padre."

"Non mancherò. Grazie ancora e arrivederci."

A distanza di anni, quando ci ripenso, ancora non mi rendo conto del meccanismo del pensiero del dottor Rucci. Se ne è fregato? Strano! E' o no un amico di papà? Allora perché dopo tre giorni non dice ancora niente a papà?: "Mariano, guarda che tuo figlio ha questo e quest'altro." Niente! Non è andato neanche a chiedergli il pagamento della visita. E' uno scemo? un incosciente? soltanto un menefreghista? Un medico troppo abituato ai mali altrui e che deve curare il popolo percependo il solo stipendio della mutua? Non lo so!

Ma la sua diagnosi mi fa paura.

E tre giorni dopo vado dal grande specialista dei polmoni, il dottor Consalvo Gonzales, di chiara origine spagnola, anzi di nobiltà spagnola, interessato più alla politica che alla medicina ma ha fama d'essere un grande medico; di sicuro ha una gran bella presenza imponente, grande fascino, aria aristocratica ed autoritaria; sembra veramente un medico; mi misura la pressione, mi ausculta con lo stetoscopio, mi fa dire almeno tre volte trentatré, mi tasta il polso controllando il numero delle pulsazioni sul suo cronometro d'oro, poi dà il suo illuminato responso:

"Non preoccuparti, non è niente; solo un po' di reumatismo!"

Ah! Lo sapevo io che non poteva essere un buco nel polmone!

Che cazzo mi racconta quel pellegrino della mutua? Un buco nel polmone! Io? Ma fammi il piacere! E poi quella strana sensazione di puntura è sparita. Dunque è un po' di reumatismo; ed ha ragione il Consalvo Gonzales, tanta ragione che il pagamento della visita, lui, è andato a riscuoterlo da mio padre, che mi chiede:

"Perché sei andato da Gonzales, cosa hai?"

"Niente, un po' di reumatismo!"

Tra dodici anni scoprirò che aveva ragione il pellegrino della mutua.

Per l'immediato presente me la debbo vedere con una otite bilaterale; l'acqua del mare, entrata nelle orecchie e ristagnando, mi crea questa schifosa infezione, dolorosa e noiosa, che mi lascerà mezzo sordo, con una menomazione della capacità uditiva dell'ottanta per cento dell'orecchio destro e del dieci per cento del sinistro.

**

Sento come una pugnalata alla parte destra del petto.

Sono in un bar di Parigi e sto bevendo un whisky, chiacchierando con una amica; poso il bicchiere e mi porto la mano al petto, mi piego in avanti con un lamento mentre la mia amica, allarmata e spaventata, mi chiede cosa abbia:

"Non lo so! Mi fa un male cane; forse una fitta intercostale".

È vero che siamo a fine marzo e fa ancora freddo, ma mi sembra esagerato per essere un dolore intercostale. Saluto la mia amica e rientro a casa, ma col passare delle ore il dolore aumenta e mi sento una oppressione che mi toglie il respiro. Decido di andare in ospedale e li mi diagnosticano un emopneumotorace spontaneo e mi ricoverano d'urgenza. Mi tolgono dall'interno del petto circa mezzo litro di sangue (almeno tanto mi pareva) e l'oppressione sparisce insieme al dolore; finalmente posso mettermi sdraiato.

Mi curano con medicine ma non risolvono; decidono di operarmi e scoprono che è una ricaduta.

"Ricaduta?" mi dico, "ma io non ho mai avuto prima uno pneumotorace!"

Di colpo mi viene in mente l'episodio, quasi dimenticato, di dodici anni prima, della puntura alla scapola e la diagnosi del pellegrino della mutua, che oggi si rivela esatta e che non è stata avallata dal nobile Gonzales.

Forse non poteva avallarla perché, nell'intervallo di tre giorni tra le due visite, il buco poteva essersi richiuso.

Fatto sta che la colpevole leggerezza del pellegrino, l'errore forse scusabile (ma poteva farmi fare delle radiografie) del nobile, la mia ignoranza, incoscienza e presunzione (tuffo, corsa appresso al treno e giocare alle tre del pomeriggio per tre ore a calcio sotto il sole in piazza Prefettura) mi portano oggi in quest'ospedale di Parigi.

E da questo primo episodio, in seguito, ben altre conseguenze sono scaturite ... e tutto per un tuffo.

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Morale?

Non tuffatevi mai!

Tuffarsi è pericoloso!

Ve lo dice uno che se ne intende ... non fatevi venire la voglia di sperimentarlo ... l'ho fatto io per voi.

Fidatevi!

Ma ci sarà sempre chi vorrà farlo il tuffo.

***