Il Tunnel


Sembrava non finisse mai.

Da più di un'ora avanzavo al buio, che si faceva sempre più profondo man mano che mi addentravo nel tunnel.

Era cominciata la sera prima la storia; mio padre mi accusava di avergli preso dei soldi di nascosto e, almeno quella volta, io non c'entravo; nei miei ragionamenti di quasi quattordicenne quest'accusa era un'offesa intollerabile e ancor meno perdonabile.

Per di più mi aveva anche picchiato col battipanni, per cui decisi che la mattina seguente, dopo colazione, sarei scappato di casa, avrei coperto a piedi i trenta chilometri fino al mare; lì avrei rubato una barca e, remando fino in Africa, avrei vissuto nella giungla come Tarzan, cibandomi di datteri e banane; se lo faceva lui potevo farlo anche io.

Così impari a non accusarmi quando sono innocente!

Mi addormentai con questo pensiero e mi svegliai deciso a porlo in atto; la notte non mi aveva portato consiglio, aveva anzi rafforzato la mia decisione; per cui, dopo aver fatto il pieno con una abbondante colazione, a base di latte e orzo ed una spessa fetta di pane con sopra un centimetro di marmellata d'arance, ero pronto ad affrontare il viaggio; ed uscii di casa.

Seguito a ruota da mio fratello che, conoscendomi ed avendo assistito alla "battipannata" della sera prima, si era accorto che qualcosa mi frullava in testa.

"Dove stai andando?"

"Lontano da qui", risposi.

"Lontano dove?" insistette.

"In Africa!", e gli spiegai il mio piano.

"Tu sei pazzo, anzi scemo!", esclamò.

"Meglio pazzo e scemo che vivere in questa casa ingiusta!"

"Ma tu i soldi altre volte glieli hai presi."

"Si è vero, ma solo perché glieli ho presi altre volte debbo essere accusato ogni volta che gli mancano soldi? Anche se non sono stato io e magari li ha persi da solo?"

"E poi tra un mese hai gli esami di licenza media e se parti li perdi."

"Non mi serve la licenza media nella giungla."

Aveva solo undici anni e non seppe cosa rispondermi, ma era commosso e si vedeva che era dispiaciuto; un uccello per caso mi centrò con un suo puzzolente omaggio e:

"Ti ha... ca-cato un uc-celloo?", chiese singhiozzando.

"Si, quel figlio di..." risposi; pure gli uccelli ci si mettevano ora!

"Ti p-porterà fortuna".

Mi abbraccio e se ne andò piangendo; lo guardai allontanarsi e per un attimo ebbi la tentazione di seguirlo, di rinunciare; ma poi ripensai alla grave ingiuria e mi voltai dirigendomi verso il mare, verso l'Africa, verso la mia nuova e più dignitosa vita; altro che il battipanni! Mi aspettavano i leoni, le scimmie, le liane, l'avventura.

La libertà.

Ti faccio vedere io, ti faccio!

Intanto l'avventura cominciava con una merda di uccello in testa.

Non ero sicuro di ricordare bene la strada per il mare, pur avendola percorsa in auto quando ci trasferivamo per il mese di villeggiatura, per cui mi incamminai lungo la ferrovia; sapevo che avrei dovuto attraversare un lunghissimo tunnel, ma ero certo di arrivare e mi misi a seguire le rotaie sotto il sole di Maggio che diventava sempre più caldo col passare delle ore; fortunatamente ero vestito con i pantaloncini corti ed una camiciola a mezze maniche ma sudavo lo stesso, avevo sete e bevevo ad ogni sorgente o fontanella che incontravo, ma non ero stanco e continuai baldanzoso e curioso di quello che vedevo intorno a me; per lo più campagna, qualche casa colonica, alberi che costeggiavano la ferrovia e da cui coglievo, di tanto in tanto, un frutto ancora mezzo acerbo.

Dopo tre ore avevo percorso, camminando un po' sulle traversine, un po' sul sentiero di ghiaia che costeggiava la ferrovia, circa quindici chilometri; qualche volta provavo a fare l'equilibrista su di una rotaia ed una volta poggiai un orecchio sulla rotaia, per sentire se arrivava il treno, e sentii un rumore fortissimo; il treno, a centocinquanta metri, arrivava sferragliando e sbuffando alle mie spalle e feci un salto indietro sul sentiero; un vero divertimento.

Questa si, che era vita!

E cammina cammina ero arrivato alla stazione di San Fili e qui cominciavano le difficoltà; era lì il tunnel, lungo sette chilometri, che quando l'avevo percorso in treno mi era sembrato dritto, e mi ci avvicinai timoroso; sette chilometri al buio non sono uno scherzo e stetti almeno un quarto d'ora a guardarne titubante l'ingresso nero, da cui veniva fuori un'aria fredda che sentiva di fumo, e a decidere se forse non era meglio scavalcare la montagna invece di affrontare la galleria; guardai la montagna impervia e riconsiderai il tunnel.

Entrai ed avanzai per circa cento metri, seguito dalla confortante luminosità che mi lasciavo alle spalle, e mi sembrò di vedere, lontanissimo, un puntino luminoso. "Certamente l'uscita", pensai, e ciò mi confermò che il tunnel era dritto ma, mi dissi, una volta dentro avrei trovato il buio pesto e mi sarebbe stato difficile proseguire senza vedere dove mettevo i piedi, solo seguendo il puntino luminoso; mi serviva qualcosa per mantenere la direzione giusta, la linea retta.

Ritornai indietro uscendo dal tunnel e mi misi a cercare non sapevo nemmeno io cosa; mi guardai intorno e vidi un mucchio di immondizie e, nel mucchio, una vecchia scopa col manico di legno; pensai che avanzando nel tunnel e strisciando un bastone contro il muro avrei potuto mantenere sempre la stessa distanza dalla parete e quindi una direzione costante; presi la scopa e ne ruppi il manico, ottenendo un bastone di circa un metro e così armato, entrando dal lato destro del tunnel, iniziai la traversata.

Il bastone si rivelò utilissimo quando la luce alle mie spalle cominciò a diminuire d'intensità; lo tenevo con la mano destra contro il muro e andavo benissimo avanti senza deviare ed in relativa tranquillità, perché c'era il pericolo dell'arrivo di qualche treno; non mi avrebbe schiacciato perché mi sarei incollato al muro ma il fumo emesso dalla locomotiva non sarebbe stato piacevole da respirare, oltre al fatto che mi sarei trovato non solo al buio ma anche nel fumo e nel vapore.

Avanzavo in un vago chiarore, che diminuiva sempre di più, da almeno una mezz'ora quando il puntino luminoso, verso cui avanzavo con fiducia, lo vidi ad un metro dai miei occhi; non era il foro di uscita ma una lanterna a petrolio di servizio; davanti a me il nero più completo.

"E mo' che faccio?"

Rimasi per un pezzo a guardare la lanterna, il buio profondo davanti a me ed il rassicurante vago chiarore alle mie spalle, che mi invitava a ritornare sui miei passi; stavo per cedere alla tentazione ma ricordai la grave, imperdonabile ingiuria paterna e ... prosegui, sia pure esitante.

Avevo anche cercato di prendere la lanterna ma era inamovibile, imbullonata a due staffe infisse nel muro; perciò rinunciai alla luce e ricominciai ad avanzare, cautamente, verso l'ignoto.

Il tunnel non era dritto e c'era almeno una curva, ma potevano essercene altre per quel che ne sapevo; per di più cominciava a venir meno anche il vago chiarore dell'ingresso alle mie spalle, non solo perché aumentava la distanza ma perché stavo iniziando a percorrere la curva del tunnel, un'ampia curva verso destra; infatti dopo un po' la fioca luce alle mie spalle scomparve del tutto e mi ritrovai nel nero di seppia.

Forse la lanterna a petrolio, piazzata in quel punto, serviva per segnalare ai macchinisti che la curva era vicina.

L'avventura stava diventando troppo impegnativa e, comunque, poco piacevole; stavo sempre a contatto del muro col bastone, che in quel "calamaio di inchiostro di china" era il mio unico punto di riferimento, e continuai ancora ad avanzare, ripromettendomi di ritornare indietro se mi fossi accorto che c'erano altre curve; quel buio cominciava a pesarmi troppo, mi opprimeva e pensavo a come si dovesse sentire un pesce piccolo nel ventre di una grande balena; la montagna era la balena, il tunnel il suo ventre ed io il pesce piccolo.

Soffocavo e cominciavo ad aver paura.

Continuai per inerzia e testardaggine e dopo altri duecento metri mi sembrò di vedere una certa luminosità, una idea di luminosità perché l'uscita del tunnel era ancora lontana, ma doveva essere finita la curva perché, laggiù in fondo, vidi un punto luminosissimo e capii che quella era veramente l'uscita; mi rinfrancai, perché ora sapevo che il resto del tunnel era in linea retta, ma non ero neanche a metà strada; avevo il conforto di quel punto luminoso ma ero ancora al buio e non vedevo l'ora di essere fuori da quel budello.

E nessun treno era ancora passato.

Cominciai a correre, sempre tenendo il contatto col bastone, per fare prima; era troppo tempo che stavo al buio ed avevo bisogno di luce, di spazi aperti; caddi più volte a terra, fortunatamente senza ferirmi, inciampando in mucchietti di ghiaia che non potevo vedere, ma mi rialzavo e continuavo a correre; spesso ero investito da scrosci d'acqua che piovevano dalla volta del tunnel, perché la montagna doveva esserne piena come una enorme spugna; ma non mi importava, correvo, cadevo, mi rialzavo e correvo.

Dopo una eternità, finalmente, fui fuori.

Sedetti su un masso, al sole per ritrovarmi, scaldarmi e riposarmi; faceva freddo nel tunnel e mi sentivo stanco; le mani, le braccia e le gambe nude erano nere di grasso e di fuliggine, forse anche la faccia ma non mi vedevo, ed avevo una sbucciatura di cui non mi ero reso conto al ginocchio destro; dalla posizione del sole e dalla fame che avevo dovevano essere più o meno le due del pomeriggio; ero partito alle otto di mattina ed erano sei o sette ore che camminavo.

E il mare era ancora lontano.

Lo vedevo tremolare, laggiù in basso, azzurro, bello e sfavillante di sole a sei o sette chilometri di distanza in linea d'aria, ma non avevo le ali; via terra i chilometri erano almeno il doppio e dovevo camminare.

Guardai con rancore e odio l'incolpevole tunnel che avevo appena vinto e con sgomento l'altro tunnel che mi aspettava trecento metri dopo; sarà stato lungo forse solo cinquecento metri ma ne avevo abbastanza di tunnel e di buio; mi buttai lungo il pendio della montagna, attraversando costoni scoscesi, lande incolte, campi coltivati, orti, vigne e frutteti, scavalcando muri di recinzione; incrociai una strada rotabile e la seguii fino ad arrivare alla stazione di San Lucido.

Lì ero a casa; San Lucido era il paese dove tutti gli anni in agosto, fin da quando avevo sei anni, andavo con i miei ad estivare e a fare i bagni, per cui mi era familiare; infatti avevo pensato di prendere la barca di Totonno il pescatore per arrivare in Africa; la moglie, Maria, durante quel mese veniva a casa nostra ad aiutare mia madre nelle faccende di casa.

Arrivai in paese verso le cinque del pomeriggio e sentivo, da una radio ad alto volume, Nicolò Carosio che faceva la radiocronaca del secondo tempo dell'incontro di calcio Italia - Ungheria, 2 a 1 per l'Italia, e mi diressi a casa di Totonno; sulla soglia della casa a pianterreno c'era solo Maria che salutai e che, sulle prime, non mi riconobbe, poi sbalordita:

"Vittorio?" quasi gridò;

"Si!"

"E cchi cci fa cca?" (e che ci fai qui?)

Le raccontai il fatto; mi guardò un po' e:

"Tu si tuttu ciuotu!" (tu sei tutto scemo), "Ma vida nu pocu! Mi figuru a mammata!" (ma guarda un po'! immagino tua madre!)

Mi fece sentire colpevole.

"Ha mangiatu? Trasa ca ti dugnu 'ncuna cosa." (Hai mangiato? Entra che ti dò qualcosa.)

Ero quasi nero di grasso e di fuliggine raccolti nel tunnel e mi sentivo più sporco che affamato; le dissi che sarei andato a fare un bagno al mare e che sarei ritornato da lì ad un'ora.

Feci un bagno gelido a mare, che più che lavarmi diluì lo sporco in modo uniforme; la barca di Totonno, un piccolo ghiozzo che avrei riconosciuto tra mille perché ci facevamo le gite in mare, era li vicino e mi resi conto che ci sarebbero voluti sei uomini per metterla in acqua; poi guardai l'immensità della distesa marina e rinunciai definitivamente ad andare in Africa, a penzolare attaccato alle liane, a lottare contro i leoni, vivere con le scimmie ed a nutrirmi di datteri e banane.

Per la mia avventura era stato sufficiente il tunnel.

Ritornai da Maria che mi nutrì con sei sarde fritte salatissime ed un po' di polenta insipida; tutto quello che aveva, ed era forse la loro cena, ma me lo diede di buon cuore ed io trovai tutto buonissimo per la fame, ma troppo salate lo stesso; mi diede anche cento lire per il biglietto del treno dicendomi:

"Va! Manìati ca sinnò u pierdi e salutami a mammata." (Va! Sbrigati se no lo perdi, e salutami tua madre).

Ed infatti lo persi per qualche secondo; arrivai alla stazione che già partiva e mi rassegnai ad aspettare il treno seguente. Ero partito di mattina col sole, in pantaloncini corti e camicia a mezze maniche; ora erano le sette di sera, avevo freddo ed il treno successivo era alle 20.30.

Quando il treno arrivò ero tremante e a pezzi, non c'era posto a sedere ed un operaio, impietosito dal mio aspetto, mi cedette il suo posto; un signore, che certo non aveva altro da fare, manifestò la sua disapprovazione verso quei genitori che non sanno controllare il loro figli ed io lo guardai come a dirgli di farsi i fatti suoi; mi sentivo solidale con mio padre, perché non era colpa sua se aveva un figlio come me.

Arrivai in città alle ventidue e dieci minuti dopo bussavo alla porta di casa; mi aprì mia madre in lacrime che mi abbracciò e mi disse:

"Ma dove sei stato? Ci ha fatto stare tutti in pensiero! Vai incontro a tuo padre che è andato alla polizia per denunciare la tua assenza."

"No! Io non ci vado, se mi prende mi picchia!"

"Ma no che non ti picchia; è troppo preoccupato."

"Appunto mi picchia! per la preoccupazione che gli ho dato."

"Ma no! Credimi; fortunatamente sei qui, ora vai a tranquillizzarlo!"

"Tu dici?"

"Se non ti sbrighi ti picchio io. Vai!"

Andai e lo incontrai a metà strada; mi fermai e lo aspettai, torreggiava su di me ed aspettavo a testa bassa lo schiaffo o il pugno sulla testa, la mia punizione.

Stette a guardarmi per quel che mi parve un lunghissimo minuto, poi:

"Dove sei stato?" chiese con la sua voce profonda.

"A San L-lucidoo", risposi con voce fioca.

"Come? Con che?"

"A piedi."

"Chi tu? Ma fammi il piacere! Cammina va!"

Si avviò e gli tenni dietro in silenzio; una volta a casa se ne andò dritto a letto, senza degnarmi di un ulteriore sguardo; il giorno dopo mi disse che se non mi aveva picchiato non era perché gliene mancasse la voglia, ma perché mi aveva visto talmente malridotto che gli avevo fatto pena; a me andava benissimo così.

Mia madre mi fece mangiare; chiese spiegazioni e le raccontai la traversata del tunnel, delle sarde salate di Maria e delle cento lire che mi aveva dato per il treno; ma soprattutto del tunnel.

Seppi che mio fratello aveva mantenuto un complice silenzio fino a dopo l'ora di pranzo poi, vedendo la crescente preoccupazione dei miei, si era deciso a spifferare il mio fantastico piano.

Mia madre mi mandò a letto e sognai il tunnel.

La mattina dopo mi svegliò alle sette, perché dovevo studiare; ero stanco morto ma, contrariamente alle mie abitudini, non feci storie per non richiamare l'attenzione di mio padre; mi alzai subito e mi misi con la testa sui libri; uscì di casa ancora senza degnarmi di uno sguardo, come se non ci fossi.

A pranzo si cominciò a mangiare in silenzio poi venne il temuto momento delle spiegazioni; raccontai di nuovo la mia avventura, soprattutto del tunnel, di quell'interminabile tunnel, del buio del tunnel, delle sarde e della polenta di Maria, delle cento lire ed il mio racconto dovette suonare reale e veritiero perché mio padre si convinse che, almeno quella volta, i soldi non li avevo presi io; forse si era sbagliato lui.

"Se avevi soldi avresti preso il treno e non ti saresti fatto tutta quella strada e il tunnel a piedi", commentò.

"Ma perché sei scappato?", chiese poi.

"Beh, tu mi avevi accusato ingiustamente e poi volevo essere libero", risposi con gli occhi bassi.

"Sono tuo padre e ti voglio bene; quello che faccio lo faccio per te e a volte posso anche sbagliare ed essere ingiusto, ma ti auguro che questa sia la più grossa ingiustizia che tu debba subire nella tua vita"; disse ed era triste, poi continuò: "Volevi essere libero da che? Da chi? Da me? Lo sarai un giorno, ma la libertà te la devi guadagnare oggi studiando, domani lavorando e, quando l'avrai, dovrai difenderla e ti accorgerai che non è facile essere e rimanere liberi, e dovrai essere tanto maturo da saperla usare la libertà."

Ascoltai il sermone, un po' guardandolo negli occhi e un po' a testa bassa; non ero certo di capire tutto, ma dicevo si con la testa.

"Non ti ho punito ieri perché eri troppo malridotto e non ti punisco oggi perché ti ha già punito il tunnel; comunque, almeno in parte, tu restituirai a Maria quello che ti ha prestato per il treno e non solo le cento lire; la ringrazieremo con cinquemila lire", decise.

Comunque la bufera era passata ed il battipanni non era entrato in azione.

Maria ricevette da mio padre le cinquemila lire, che per l'epoca erano una somma che aiutò moltissimo lei e Totonno.

Venni privato per sei mesi delle mie dieci lire giornaliere e per tre mesi del cinematografo; tutto sommato sarebbe stato meglio il battipanni per un minuto.

L'avventura era cominciata con una merda di uccello in testa ed era finita in merda di vacca.

Molto più tardi capii le parole di mio padre sulla libertà e l'indipendenza. Trovi sempre un tunnel, più o meno lungo, che si interpone per raggiungerle e non sempre riesci ad attraversarlo ma, anche se ce la fai, di sicuro te lo sogni di notte.

Per anni.

***