La favola di Bollo

(racconto per bambini)


C'era una volta un vecchio signore solitario.

Era molto ammalato; gli facevano male le gambe, camminava con difficoltà appoggiandosi a un bastone ed usciva da casa soltanto per andare a fare la spesa, quando non c'era un amico che potesse farla per lui.

Gli amici lo chiamavano Condor, ma il suo nome era Vittorio; lo chiamavano Condor perché quando era giovane e forte faceva il pilota, volava sui grandi aerei e girava il mondo, come il condor che è l'uccello più grande di tutti e che vive solitario sulle Ande.

Le Ande sono grandi montagne che si trovano in Argentina; sono come le Alpi, forse più grandi e più selvagge.

Era solo perché non era sposato; i suoi lunghi viaggi non gli avevano lasciato il tempo di trovare una moglie e perciò non aveva figli.

Aveva però una nipotina, Soledad del Mar, che tutti chiamavano Sole, di 18 anni, molto molto bella che gli voleva tanto bene e spesso andava a trovarlo, ma non sempre, perché oltre che bella era anche brava e doveva studiare; non aveva molto tempo.

Condor era sempre triste e si annoiava.

Per non annoiarsi troppo aveva comprato un computer e con Internet girava il mondo, come quando faceva il pilota, ma non era la stessa cosa.

Un bel giorno Sole gli fece una grande sorpresa; gli regalò un bellissimo gattino di sei mesi, grande quasi come un gatto adulto; nero con gli occhi d'oro, simpaticissimo, con un carattere molto socievole e con la coda storta, ma non si vedeva perchè aveva il pelo molto lungo.

Era un gatto persiano.

Quando Condor lo vide gli volle subito bene ed il gatto volle bene a lui.

"Ehi Condor, guarda chi ti ho portato", gli disse Sole, mostrandogli il gatto, "visto che sei sempre solo e non sempre gli amici possono venire a trovarti, ti farà compagnia lui".

Condor la ringraziò con uno dei suoi rari sorrisi e Sole se ne andò lasciandogli il gatto.

Rimasti soli il gatto e Condor incominciarono a fare conoscenza e mentre Condor restava seduto in poltrona a guardarlo, il gatto se ne andò in giro per casa a curiosare; poi, finita la ricognizione, si avvicinò, saltò sul bracciuolo della poltrona e, guardando Condor, gli disse:

"Miao",

"Ciao", gli rispose Condor, accarezzandolo sulla testa; forse che quando un gatto dice "miao" vuole dire ciao?

Continuò ad accarezzarlo, il gatto faceva "ron ron" dal piacere e con la testa andava incontro alla mano di Condor; "rroonn, rroonn, rroonn".

Poi gli saltò sulle ginocchia, gli si arrampicò sul petto e strusciò la testa sotto il mento di Condor, che continuava ad accarezzarlo; stette un pò così poi si fece largo tra il bracciuolo ed il fianco di Condor, sistemandosi comodamente; da quel giorno fu il suo posto preferito.

"Ora debbo trovargli un nome", pensò Condor, "come lo chiamerò?"

E incominciò a pensare:

"Condorino?", no! Non è mica un uccellino; forse "Tigre o Tigrotto?" nemmeno, non è cattivo, è tanto dolce! Guarda un po' come mi sta attaccato al fianco, sembra un francobollo.

IDEA! Lo chiamerò "FRANCOBOLLO!". Si ma FRANCOBOLLO è troppo lungo; ecco lo dividerò in due come nome e cognome... si... "FRANCO BOLLO", anzi "FRANK BOLLO", si così va bene. Sarà Frank Bollo quando lo presenterò in società, ma io lo chiamerò solo BOLLO.

E da quel giorno non fu più "il gatto" ma fu Bollo.

Bollo, il figlio di Condor! Perché gli voleva bene come si può voler bene ad un figlio.

Anche Bollo voleva bene a Condor, come se ne può volere a un papà.

Con la presenza di Bollo la vita di Condor cambiò. Aveva la gioia della presenza di Bollo, dei giochi che faceva con qualunque oggetto gli capitasse tra le zampette, con i fili elettrici del computer che pendevano, con la pallina comprata apposta per lui e che perdeva sempre; era molto divertente ma dava anche delle preoccupazioni, perché Bollo non era un gatto da strada o da grondaia che mangia quello che trova, ma un gatto aristocratico, un principino tra i gatti, era di gusti difficili e non mangiava tutto.

Provò a dargli la pasta, niente; gli diede il pesce ma non voleva le alici, preferiva il merluzzo; un giorno gli offrì un pò del suo pollo al forno, lo mangiò con molto piacere e quando lo finì fece "miao" perché ne voleva ancora; allora ali di pollo lesse, disossate e tagliate a pezzettini, magari col riso bollito, tutti i giorni.

Non acchiappava e non mangiava i topi, qualche volta ci giocava ma non troppo, poi li lasciava andare; insomma, come tutti i prìncipi del mondo, era un parassita.

Altra preoccupazione era portarlo dal veterinario, il dottore degli animali, per curare e proteggere la sua salute e quando doveva prendere le medicine faceva delle storie, perché non gli piacevano e scappava quando tentava di dargliele, e allora Condor le mescolava al pollo ed al riso bollito.

Siccome aveva il pelo lungo e lo perdeva lasciandolo dappertutto, Condor lo spazzolava tutti i giorni fino a togliere tutto il pelo superfluo e Bollo, tutto lucido e ben pettinato, si pavoneggiava fiero della sua bellezza.

Ma il divertimento più grande era quando si faceva l'ora di andare a dormire; dopo esere stato tutta la sera al suo posto preferito, cioè tra il bracciuolo e il fianco, e Condor si alzava e spengeva la luce, Bollo, che capiva che si andava a dormire, scattava avanti come una freccia per il corridoio, slittava sul pavimento quando curvava verso la stanza da letto e si faceva già trovare disteso lungo lungo e pancia all'aria sul letto.

Condor rideva e lo lasciava dormire sul letto ai suoi piedi. Bollo si raggomitolava felice e... zzz... zzz... zzz.

Insomma, era una bella vita.

Le serate erano meno vuote e passavano più veloci.

Una sera di Capodanno, perché durante le feste era più facile che restassero soli, Condor invitò Bollo a mangiare a tavola con lui, anziché nella sua ciotola in un piattino, e gli diede l'aragosta, che Bollo gradì moltissimo e, come quando c'era qualcosa che gli piaceva, disse "miao", per averne ancora.

Ma si presentò, sei mesi dopo, un grosso problema.

Bollo era cresciuto, era diventato adulto ormai, e per un gatto avere un anno di età è come per un uomo averne diciassette o diciotto. Quindi non era più un bambino o, meglio, un micino; era un vero gatto e cominciava a sentire il richiamo della vita che c'era fuori di casa, per le strade e sui tetti, a volere la compagnia di altri gatti e gatte.

Non gli bastava più stare tra il bracciuolo della poltrona ed il fianco di Condor; era sempre quello il suo posto preferito, ma voleva uscire, andar fuori almeno in giardino poiché Condor abitava al piano rialzato ed aveva un giardino, e miagolava per farsi aprire la finestra o la porta. "Miao... miao... miao".

Condor aveva paura a farlo uscire; temeva che si potesse perdere o che gli succedesse qualcosa di male e non lo faceva andare fuori. Ma tutte le volte che apriva la porta o una finestra Bollo schizzava fuori ed era impossibile riacchiapparlo.

Che poteva fare?

Niente!

Solo guardarlo; ed era uno spettacolo. Era bello guardarlo mentre esplorava il giardino, si arrampicava sull'albero di mimosa o si accovacciava sul muretto di cinta ed osservava curioso quello che succedeva per strada.

"Mah! Finchè resta li poco male", si disse Condor. "... e poi ho il diritto di impedirgli di uscire, di fare le sue esperienze, di conoscere altri gatti? Forse vuole cercarsi una moglie e non fare come me". Ma si può sapere dove va a finire un gatto quando esce? Difficile saperlo e Bollo, anche se bello e principino, era pur sempre un gatto.

A Condor non restava che sperare che non gli succedesse niente di male e che ritornasse sempre.

Infatti, prima che facesse notte, Bollo ritornava; saltava sul davanzale della finestra, grattava con la zampetta sul vetro e Condor andava ad aprire per farlo entrare.

"Dove sei stato finora, Bollaccio che non sei altro? Hai fame eh? E quando hai fame ti ricordi di avere una casa eh, brutto Bollaccio!"

Bollaccio non stava nemmeno a sentire, correva in cucina e trovando la sua ciotola vuota protestava: "miao!"

"Miao un corno, stasera niente pollo e riso, non te lo meriti! Va a mangiare dove seì stato finora, pelandrone!", scherzava Condor fingendo di andarsene.

"Miao... miao... miao" reclamava Bollo e Condor, incapace di continuare lo scherzo, apriva il frigorifero e gli riempiva la ciotola di pollo e riso.

"Toh, mangia! Devi recuperare le forze, Bollaccio!".

Bollaccio si buttava voracemente sulla ciotola e la svuotava coscienziosamente, lasciandola pulita.

Poi, soddisfatto e leccandosi i baffi, saltava sul bracciuolo, si faceva accarezzare, ron... ron... ron..., si sistemava al suo posto preferito e... zzz... zzz... zzz.

Condor lo accarezzava.

Spesso rientrava tutto sporco, come se avesse rovistato nei bidoni dell'immondizia (che razza di principe!) ed allora bisognava usare la spazzola per ripulirlo, o bagnato se pioveva ed era necessario asciugarlo col fon, cosa che a Bollo non piaceva; forse era spaventato dal rumore.

Chissà che battaglie sosteneva fuori, nell'ostile mondo dei gatti? ed anche degli uomini?

Ma una sera Bollo non tornò.

Condor aspettava di sentir grattare al vetro della finestra, ma si era fatto molto tardi e Bollo non si vedeva ancora.

"Avrà pure fame", si disse Condor speranzoso "deve ritornare".

Lo attese alzato fino a tardi poi, stanco, andò a dormire lasciando la finestra socchiusa.

Ma nè il giorno dopo nè il seguente ritornò.

Mancava ormai da tre giorni e Condor non sperò più. Capì che Bollo non sarebbe più tornato, che l'aveva perduto... e pianse.

Sperò che non fosse morto, ucciso da una vettura o da un altro gatto; sperò che glielo avessero rubato e che Bollo continuasse a vivere felice col nuovo padrone, brutto ladro, ma era solo una speranza.

Non seppe mai che fine avesse fatto Bollo.

Pensò che il mondo degli uomini e dei gatti è un mondo difficile e pieno di pericoli, dove ci si può anche perdere; non sempre l'intelligenza, il talento, la costanza e la volontà bastano; ci vuole anche un po' di fortuna.

Bollo non aveva avuto fortuna!

Lo so. E' una favola triste; non sempre le favole sono liete e finiscono bene.

Mi sarebbe piaciuto raccontare che Bollo aveva incontrato una bellissima gattina bianca, che si amarono molto e che vissero felici e contenti per molti anni, circondati dall'amore di tanti bei micini bianchi e neri.

Ma non è andata così.

Questa è una favola triste.

Una favola vera.

***