Capitolo Primo

 

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IL CONTESTO:

CUR DEUS HOMO?

 

 

 

 

 

 

 

 

I. ANSELMO D'AOSTA E LA POSIZIONE DEL PROBLEMA

 

     Per tratteggiare lo sfondo sul quale si muove l'nterrogativo principale della nostra ricerca, affrontiamo il senso di Cristo nel piano divino, partendo dal momento in cui la tematica acquista spessore di oggetto autonomo nella riflessione teologica.

     È quanto avviene nell'undicesimo secolo con S. Anselmo, nato ad Aosta, monaco nell'abbazia del Bec, arcivescovo di Canterbury[1].

     Nello stile essenziale ed equilibrato che caratterizza l'intera sua opera[2], il dottore medievale redige il Cur Deus homo, in forma di dialogo col discepolo Bosone, sotto la pressione di coloro che lo avevano udito svolgere oralmente il tema, e desideravano attingere al repertorio delle sue argomentazioni.

     Egli si chiede "per quale ragione o necessità Dio si sia fatto uomo e perché -come crediamo e professiamo- abbia ridonato al mondo la vita con la propria morte, dal momento che avrebbe potuto farlo o per altra persona angelica o umana, o con  un semplice atto di volontà"[3]. L'indagine sui motivi dell'incarnazione si pone perciò in termini diversi da quelli in cui verrà impostata successivamente nel dibattito tra scuola tomista e scuola scotista. S.Anselmo apre con la propria riflessione la strada alla problematica successiva, ma egli non si domanda affatto se -senza il peccato- ci sarebbe stata egualmente l'incarnazione. Unico suo intendimento è dimostrare la necessità di questa, nel senso che essa non è in contrasto con la ragione, e che anzi dalla ragione è quasi postulata. Si tratta di dimostrare che solo attraverso la morte in croce di un Dio-uomo era possibile restituire l'uomo alla sua dignità originaria[4].

     Il vescovo di Canterbury segue il metodo delle rationes necessariae, un metodo di tipo filosofico che tuttavia ha per oggetto un problema teologico: "il libero agire del libero Dio con l'uomo liberamente creato e ricondotto alla libertà mediante Cristo"[5]. Non va dimenticato che per sant'Anselmo filosofia e teologia non sono discipline estranee o parallele, ma costituiscono entrambe articolazioni di una sapientia intesa in senso agostiniano, come ricerca del buono e del vero, cioè in ultima analisi di Dio. "Fides quaerens intellectum" pare essere stato il titolo originario del  Proslogion. E Bosone nel dialogo col maestro dichiara: "Non sono venuto affinché tu mi dissipi i dubbi della fede, ma mi mostri le ragioni della mia certezza"[6].

     Anselmo si adopera così a mostrare la logica interna delle verità di fede, tra loro connesse in modo tale che da una possono dedursene altre e tutte tra loro raccolte formano un insieme armonioso e coerente: "non per arrivare alla fede per mezzo della ragione, ma per il piacere di contemplare e di capire "[7] quanto si crede.

     Il primo problema che la trattazione affronta, è la teoria tradizionale di un'incarnazione suscitata dai "diritti del diavolo", frequente nei Padri. In seguito al peccato di Adamo ed Eva, il diavolo avrebbe conquistato un diritto sull'umanità. Per liberarci, sarebbe stato necessario pagargli un prezzo. La redenzione sarebbe avvenuta quando il diavolo ha tentato di impadronirsi del Dio-uomo, perdendo così i suoi diritti. Ma di tale teoria Anselmo si libera immediatamente. Infatti,

"forse si potrebbe parlare così se il diavolo o l'uomo fossero indipendenti o sudditi di qualche altro e non di Dio. Siccome invece sia il diavolo che l'uomo sono di Dio e non possono esistere che in dipendenza di lui, che cosa avrebbe dovuto fare Dio con un essere  che gli apparteneva, nei riguardi di esso e in esso? (...) L'uomo infatti aveva meritato una punizione, e nessuno poteva punirlo più convenientemente di colui a cui aveva dato il suo consenso per peccare. Il diavolo però non aveva alcun diritto di punirlo; anzi lo faceva tanto più ingiustamente  in quanto non vi era spinto dall'amore della giustizia ma dall'istinto del male"[8].

     Dunque "cur Deus homo?", si domanda il vescovo di Canterbury. Questi si muove nel quadro medievale di un ordo universi che l'uomo, peccando, ha stravolto, offendendo al contempo l'onore di Dio. Non però l'onore divino considerato in se stesso, che non è soggetto né ad aumento né a diminuzione, ma il suo riflesso nell'ordo universi:

"Quando ogni creatura rispetta il suo ordine -quello stabilito dalla natura o dalla ragione- si dice che essa obbedisce a Dio e lo onora; e lo si dice soprattutto della natura ragionevole, alla quale è dato di capire quello di cui è in debito. E quando vuole ciò che deve, onora Dio; non perché gli dia qualcosa, ma perché spontaneamente si sottomette al suo volere e al suo comando e conserva, per quanto dipende da lei, il posto assegnatole  nella universalità delle cose  e la bellezza dello stesso universo.Quando invece non vuole ciò che deve, per quanto può, disonora Dio, perché non si sottomette spontaneamente al suo comando e disturba per quanto può l'ordine e la bellezza dell'universo, sebbene in nessun modo danneggi e deturpi il potere e la dignità di Dio"[9].

     Occorre dunque ripristinare l'ordine turbato, occorre prestare una soddisfazione all'onore di Dio offeso dal peccato. In caso di mancata soddisfazione, Dio dovrebbe infliggere una pena, senza poterla peraltro condonare, ché ciò sarebbe contrario alla sua giustizia.

     Ma essendo infinito l'onore di Dio, essendo dunque infinita anche l'offesa recata a Dio e infinita la corrispondente soddisfazione richiesta, come riuscirà a prestarla l'uomo, che è finito? L'uomo deve soddisfare, ma solo Dio lo può. Si postula perciò qualcuno che sia al contempo perfetto Dio e  perfetto uomo[10].

     Se così si intende la necessità dell'incarnazione, non si motiva ancora -però- la morte in croce. Il dottore medievale spiega che una vita condotta in obbedienza non sarebbe stata sufficiente, perché a ciò è tenuta ogni creatura, appunto in quanto creatura. Occorreva un quid pluris, una prestazione supererogatoria a cui Gesù non era obbligato, e che potesse ascriversi a nostro merito, per compensare col suo peso positivo -dall'altro piatto della bilancia- il peso negativo del peccato dei progenitori.

     Tale prestazione è la morte in croce. Gesù non vi era tenuto perché, essendo immune dal peccato, era anche immune dalla morte. Sottoponendovisi liberamente, merita dal Padre un contraccambio. E "a chi più convenientemente assegnerà [Dio] il frutto e il premio della sua morte se non a coloro per la salute dei quali [il Figlio] si è fatto uomo?"[11] L'architettura snella e serrata del disegno anselmiano è in tal modo giunta a compimento.

     A sant'Anselmo va ascritto anzitutto il merito di aver liquidato la inaccettabile teoria dello jus diaboli. È ammirevole la chiarezza con cui illustra la concatenazione tra le verità di fede. Va sottolineato inoltre come alla sufficienza redentiva del sacrificio del Dio-uomo egli congiunga sempre l'impegno del credente.

     Ma nelle riflessioni del Cur Deus homo c'è molto che corrisponde alla cultura del tempo e che alla sensibilità odierna riesce difficile accettare. In primo luogo l'orizzonte giuridico in cui è inscritto il rapporto tra Dio e l'uomo, sul modello piuttosto del rapporto tra feudatario e vassallo, secondo uno schema che non soltanto disciplina le relazioni tra due soggetti, ma diventa fondamento di stabilità per l'intero assetto sociale.

     In secondo luogo, le argomentazioni del dottore di Aosta fanno perno piuttosto sull'amore del Figlio, sulla sua generosità nel donarsi spontaneamente. Rimane in ombra  l'amore del Padre, il quale finisce con l'apparire come un signore medievale terribile e spietato, che solo l'immolazione di una vittima può placare. Evidentemente tale immagine di Dio è tanto lontana dalla Scrittura quanto dalle intenzioni del vescovo di Canterbury. Di fatto però la teoria della soddisfazione si è diffusa nei secoli successivi sviluppandosi sotto l'angolatura delle pretese del destinatario dell'offerta più che sotto l'angolatura della generosità dell'offerente, con riflessi inaccettabili.

     Pertanto la qualificazione in termini quasi oggettuali dell'evento della redenzione, l'accentuazione dell'archetipo giuridico, il rifiuto di ammettere una misericordia divina capace di remissione gratuita, l'obbedienza ad una idea di giustizia conforme più alle istituzioni medievali che alla descrizione che ce ne offre la Bibbia rappresentavano elementi che senza svuotare la rilevanza del contributo del vescovo di Canterbury, ne postulavano però il superamento e una diversa impostazione[12].

     È quanto accade ad esempio con San Tommaso.

 

 

II. LA LINEA TOMISTA

 

     Tommaso d'Aquino[13]  aveva già commentato da giovane professore le Sententiae di Pietro Lombardo. Alla fine della  vita ritorna sulla questione di cui ci occupiamo, nella terza parte della Summa, dedicando l'articolo 3 della questione prima all'interrogativo "utrum, si homo non peccasset, nihilominus Deus incarnatus fuerit"[14].

     Il "Dottore comune" non si aggancia alle affermazioni di sant'Anselmo che, come si è mostrato nel paragrafo precedente, si muove in un'altra prospettiva. Fondandosi sull'autorità di Sant'Agostino[15], egli afferma:

"ea enim quae ex sola Dei voluntate proveniunt, supra omne debitum creaturae, nobis innotescere non possunt nisi quatenus in sacra Scriptura traduntur, per quam divina voluntas innotescit. Unde, cum in sacra Scriptura ubique incarnationis ratio ex peccato primi hominis assignetur, convenientius dicitur incarnationis opus ordinatum esse a Deo in remedium peccati, ita quod, peccato non existente, incarnatio non fuisset. Quamvis potentia Dei ad hoc non limitetur: potuisset enim, etiam peccato non existente, Deus incarnari"[16].

Il teologo domenicano non ignora le motivazioni di chi sostiene che, anche senza il peccato, l'incarnazione ci sarebbe stata egualmente: il fatto che le ragioni della incarnazione siano una pluralità; il fatto che l'onnipotenza divina debba portare a compimento le sue opere e manifestarsi in qualche effetto infinito; l'apertura della natura umana a ricevere la gratia unionis dopo il peccato, e dunque a fortiori anche prima del peccato e indipendentemente da esso; l'eternità della predestinazione divina che non accetta un doppio piano; l'annuncio di Gen 2, 23, che è secondo san Paolo allegorico del rapporto tra Cristo e la Chiesa, e che viene formulato prima del peccato. Tuttavia, secondo l'autore della Summa anche tali motivazioni vanno inserite nella prospettiva del rimedio del peccato.

     Il tono della presa di posizione è moderato, e siamo ben lontani dalle tonalità acri che la querelle sui motivi dell'incarnazione assumerà in seguito. Precedentemente san Tommaso si era pronunciato addirittura in termini probabilisti verso l'opinione contrapposta: "hoc etiam probabiliter sustineri potest"[17]. Egli richiama anche a non enfatizzare più del dovuto il problema, che a suo dire "non est magnae auctoritatis, quia Deus ordinavit fienda secundum quod res fiendae erant. Et nescimus quid ordinasset si non praescivisset peccatum"[18]; ciò che però non gli impedisce dal dichiararsi subito dopo per la negativa: "in quam partem ego magis declino".

     Perciò nonostante la sobrietà delle espressioni e la sottolineatura del carattere ipotetico della questione, la tesi è inequivocabile: l'incarnazione è preordinata alla redenzione, e se Adamo non avesse peccato, non avremmo neppure avuto Cristo. Il mondo appare dunque essenzialmente redento ed accidentalmente cristiano.

     La tesi fatta propria da san Tommaso ha il pregio indiscutibile di aderire all'ordine effettivo in cui si sono svolti gli avvenimenti della storia della salvezza. Valorizza in modo pieno la dimensione del "propter nos et nostram salutem", in quanto l'uomo è posto al centro della volontà salvifica divina, destinatario diretto del progetto trinitario. Rispetta il Golgota come il baricentro dell'autorivelazione, il luogo in cui ci vien schiusa "la divina profondità della sofferenza", secondo l'espressione goethiana[19]. Essa ha inoltre dalla sua una messe copiosa di testimonianze scritturistiche, che collegano con stretto nesso incarnazione e redenzione.

     Ma le si devono presentare alcune obiezioni.   In primo luogo è da verificare che in effetti la Scrittura deponga sempre ("ubique" viene affermato nella Summa) a favore di una concezione del Cristo esclusivamente come redentore, dato che lo stesso san Tommaso, citando sant'Agostino[20] nel primo brano che abbiamo esaminato, riconosce come i motivi della incarnazione siano una pluralità. I testi sono certamente in maggioranza numerica, ma non pochi altri -quelli a cui si rifaranno gli scotisti- depongono a favore di una visione più ampia e la scelta non può certo essere affidata ad un peso per così dire quantitativo della Scrittura, bensì qualitativo.

     In secondo luogo, la ricchezza del mistero cristologico subisce una decurtazione indebita. Cristo appare come il restauratore di un'opera che è stata edificata senza alcuna relazione con lui. Il mondo creato, in tale prospettiva, possiede una dignità ed un valore che sono antecedenti cronologicamente e soprattutto logicamente a Cristo, il quale solo a motivo del peccato diventa con l'incarnazione il centro del cosmo e della storia. L'innodiare della liturgia, che canta "felix culpa" si trasforma così da esclamazione poetica in affermazione dommatica: dobbiamo ringraziare precisamente la colpa dei progenitori perché per certi versi al peccato di Adamo e non alla volontà divina di amare autocomunicandosi va legato l'evento del Verbo incarnato.

     Ci troviamo dinanzi una concezione spiccatamente amartiocentrica della cristologia e dell'antropologia che doveva lasciare larghi margini di insoddisfazione e suggeriva una  riflessione diversamente orientata.

 

    

III. LA LINEA SCOTISTA

 

     La controversia sui motivi dell'incarnazione viene tradizionalmente etichettata come uno scontro tra teologia domenicana e teologia francescana. Non possiamo soffermarci sulla effettiva esistenza, almeno da parte francescana, di una teologia uniformemente caratterizzata in senso carismatico quando non addirittutra ideologico, quasi un monolite privo di articolazioni diversificate. Certamente Francesco d'Assisi, pur non essendo un teologo in senso professionale, aveva una sua visione del mistero di Dio. Questa però non si rispecchia uniformemente nella teologia dei frati minori succedutisi nel corso dei secoli. 

     Ad ogni modo è interessante sottolineare che, prima di Duns Scoto, non può ancora propriamente parlarsi di contrapposizione tra le scuole dei due Ordini. La tesi di san Tommaso sul "cur Deus homo" era infatti condivisa anche da san Bonaventura mentre la tesi che sarebbe stata in seguito legata al nome di Scoto era già stata fatta propria da sant'Alberto Magno[21].

     Giovanni Duns Scoto, il "Dottore sottile"[22], nasce in Scozia, vive tra la Francia e l'Inghilterra, muore in Germania. Negli anni 1297-1300 è a Cambridge, dove in qualità di baccelliere per la prima volta commenta le Sentenze di Pietro Lombardo. Ripete quest'insegnamento ad Oxford nel biennio successivo e ne stende personalmente una redazione scritta, che verrà denominata Opus oxoniense. Nel 1303 tiene il corso sulle Sentenze a Parigi. Sono gli studenti stavolta a organizzare gli appunti delle lezioni nell'opera che è nota sotto il nome di Reportata parisiensia. Tra le due versioni v'è sostanzialmente coincidenza, fatta salva la maggiore chiarezza ed ampiezza di questa rispetto a quella.

     Nel III libro del Commento alle Sentenze dell'Oxoniense[23] la terza questione della settima distinzione è dedicata all'interrogativo "utrum Christus praedestinatus sit esse Filius Dei". Confrontandosi con l'ipotesi delle molte auctoritates  secondo le quali tale predestinazione preesige la caduta dell'uomo, e per le quali dunque senza questa non ci sarebbe stata la venuta di Cristo perché non necessaria, Duns Scoto rileva che la predestinazione dell'anima di Cristo alla gloria non presuppone alcun peccato precedentemente noto. Essa anzi precede la conoscenza previa divina così dei peccati come anche delle buone opere. Dio infatti vuole ordinatamente e vuole prima il fine (la gloria) anziché il mezzo (la redenzione dalla colpa). Pertanto,

"non propter illam solam [redemptionem] videtur Deus praedestinasse illam animam ad tantam gloriam, cum illa redemptio sive gloria animae redimendae non sit tantum bonum, quantum est illa gloria animae Christi; nec est verisimile tam summum bonum in entibus esse tantum occasionatum propter minus bonum, nec est verisimile ipsum prius praeordinasse Adam ad tantum bonum quam Christum, quod tamen sequeretur; imo ulterius sequeretur absurdius, scilicet quod praedestinando Adam ad gloriam, prius praevidisset ipsum casurum in peccatum quam praedestinasset Christum ad gloriam, si praedestinatio illius animae tantum esset pro redemptione aliorum, quia redemptio non fuisset nisi casus et delictum praecessisset.

"Potest igitur dici quod prius natura quam aliquid praevidebatur circa peccatorem sive de peccato sive de poena, Deus praeelegit ad illam curiam caelestem omnes quos voluit habere angelos et homines, in certis et determinatis gradibus, et nullus est praedestinatus tantum, quia alius praevisus est casurus, ut ita nullum oporteat gaudere de lapsu alterius"[24]

     Notiamo subito che Duns Scoto evita di porre l'interrogativo in chiave ipotetica, come aveva fatto Tommaso d'Aquino e come faranno gli stessi suoi discepoli nella stesura dei Reportata. Egli si colloca in una prospettiva diretta e positiva: l'incarnazione è ordinata alla gloria di Cristo e tutto l'universo converge a tale culmine. Cristo è il primo voluto, il primo nelle intenzioni di Dio, il quale "omnis ordinate volens, prius vult finem quam media"[25]. È anteriore nel disegno divino ad ogni realtà creata e non può dipendere in alcun modo da una creatura  o da un'azione di questa. L'incarnazione è scissa da qualunque merito o demerito dell'uomo, sorgendo dalla intenzione divina di glorificare il Figlio: dunque anche se Adamo non avesse peccato il Verbo si sarebbe fatto uomo.

     A fondamento biblico viene addotto l'inno di Col 1, 15-18, che esalta Cristo nel suo ruolo universale di capo e primogenito. Egli è l'immagine di Dio, che preesiste a tutte le creature, prende parte alla creazione e conduce gli uomini a Dio. Anche l'inno di benedizione in Ef 1, 3-14 presenta Cristo come il ricapitolatore, fondendo la redenzione e l'adozione a figli in un unico decreto eterno di benevolenza. Appropriata è inoltre l'affermazione della predestinazione ad essere figli nel Figlio, primogenito di una moltitudine di fratelli, secondo Rom 8, 29.

     Viene modellata una visione meno angustamente amartiocentrica, che suscita senz'altro più simpatia nella sensibiltà moderna[26]. Cristo non è soltanto un rimedio conseguente al peccato, ma ha un ruolo centrale nel piano di Dio. Il Verbo incarnato è il senso profondo della creazione, ne è il principio, il cuore e il destino.

     La salvezza non è così soltanto la liberazione dal peccato e dalle conseguenze di questo, ma il conferimento all'uomo di una pienezza che egli si scopre che predisposto a ricevere e a cui anela. Di tale pienezza ci sarebbe stato bisogno indipendentemente dal peccato, in considerazione della condizione creaturale e della sua strutturale limitatezza. Tra creazione e salvezza si stabilisce così un rapporto felicemente integrato, più aderente alla prospettiva biblica complessiva.

     Anche alla posizione scotista si possono tuttavia muovere dei rilievi. Se essa infatti certamente valorizza in tutta la sua ricchezza il mistero cristologico, sembra d'altro canto mortificare la posizione dell'uomo nella storia della salvezza: il "propter nos" viene trasferito in un angolo della scena su cui si gioca il dramma.

     Non diversamente dalla posizione a cui si contrappone, viene presupposto un duplice piano nel disegno divino. La concretezza dell'impegno di Dio nella redenzione, con tutto il peso della passione e della morte, vengono retrocessi ad un elemento supplementare, quasi l'incidente di un percorso che comunque si sarebbe svolto sino alla propria meta. Il mondo è essenzialmente cristiano e solo accidentalmente redento.

     Infine, l'incarnazione viene considerata in una prospettiva ipotetica, secondo un piano divino ricostruito pittosto secondo speculazione, lasciando quasi in secondo piano la realtà storica, il modo effettivo in cui si è svolta la vicenda della nostra salvezza.

     Anche la linea scotista non lascia del tutto soddisfatti. Quale risposta dunque al Cur Deus homo?

    

IV. IL SENSO DI CRISTO NEL PIANO DIVINO

 

     Prima di offrire una proposta interpretativa, mettiamo a confronto nei loro tratti essenziali le proposte che si contendono il campo[27].

     La posizione tomista esclude che l'incarnazione si sarebbe verificata se l'uomo non avesse peccato. L'incarnazione infatti è preordinata alla redenzione, e senza necessità di questa non sussisterebbe neppure necessità della prima, che è ridotta al rango di semplice supporto. Tale linea interpretativa  rispetta l'ordine concreto in cui si sono svolti gli avvenimenti della storia della salvezza, valorizzando la destinazione del piano divino al vantaggio degli uomini. È sorretta inoltre da un grande numero di testimonianze scritturistiche. Essa suppone tuttavia nello stesso piano divino il Cristo come un secondo fine. Il Verbo incarnato è posto nell'ordine della redenzione, e -in quanto egli interviene solo per restaurarla dai danni cagionati dal peccato- la creazione ha un suo senso anche a prescindere da Cristo. La prospettiva è dunque antropocentrica o, meglio, amartiocentrica.

     La linea scotista dichiara invece che l'incarnazione si sarebbe comunque avuta, essendo Cristo il primo voluto, il primo amato da Dio. Non dipendendo da alcuna creatura né da alcuna azione postiva o negativa di una creatura, il Verbo si sarebbe incarnato anche senza il peccato. La tesi assicura una più soddisfacente integrazione tra il mistero trinitario, la cristologia e la soteriologia, ed è sorretta anch'essa da congrue testimonianze bibliche. Sviluppa un cristocentrismo compiuto, più vicino ad esempio alle prospettive del Vaticano II[28]. Anche in essa si annida però la ammissione di un doppio momento nel piano divino. È poi trascurata la concretezza storica degli avvenimenti salvifici, con una marginalizzazione del Golgota, svuotato quasi del suo ruolo di centro di gravità nell'autorivelazione di Dio.

     Ci troviamo dinanzi ad un conflitto senza possibilità di combinazione? O l'alternativa è più apparente che reale? Il Cristo è principalmente Capo o principalmente Redentore? Il mondo è essenzialmente redento ed accidentalmente cristiano o essenzialmente cristiano ed accidentalmente redento?

      Per rispondere, dobbiamo rifarci ad un cristocentrismo che obbedisca ai seguenti principî:

     1. Principio della positività. È urgente scavalcare la prospettiva ipotetica che di fatto ha dominato i due orientamenti, per non rimanere sul loro terreno logorato e sovente angusto. Non giova domandarsi: "ci sarebbe stata l'incarnazione se Adamo non avesse peccato?", ma -in una prospettiva positiva-: "quale è il senso dell'evento Cristo? Perché il Verbo si è fatto carne?"

     2. Principio della storicità. La storia di Gesù di Nazareth racchiude il mistero cristologico. Bisogna riferirsi non ad ipotesi aprioristiche ma al modo in cui il piano divino si è attuato, quello che effettivamente si è svolto, l'unico dal quale apprendiamo il piano divino. Ora, tale unico modo è l'evento Cristo nella sua concretezza. Nella carne di Gesù di Nazareth, nella vita, croce e risurrezione di lui -così come ce ne dà testimonianza il Nuovo Testamento- l'uomo conosce il disegno di Dio sull'umanità, e non da altre fonti.

     3. Principio della integralità, in due direzioni:

     a) verso Dio, nel senso che l'incarnazione non è un evento neutrale per la Trinità. Non il Padre o lo Spirito si sono incarnati: si è incarnato il Figlio, e ciò non è senza un significato. Non ci si dovrebbe domandare genericamente "cur Deus homo?", ma "cur Verbum caro?" o "cur Filius homo?". Di ciò appunto si occuperanno i successivi capitoli della nostra ricerca. L'intera cristologia va riletta in termini trinitari, e l'unica cristologia possibile è quella del Verbo incarnato.

     b) verso l'uomo, perché l'evento Cristo va considerato non solo -unilateralmente- dal punto di vista del riscatto di Adamo, ma in tutta la ricca molteplicità delle dimensioni cosmologica, antropologica, escatologica di cui senza dubbio il Nuovo Testamento ci dà ampie referenze.

     Muovendo da tali premesse,

"sembra  che si debba allora dire che l'intenzione formale di Dio in Gesù Cristo sia di inserire il dono che fa di se stesso all'umanità il più profondamente possibile nella sostanza stessa dell'umanità che egli chiama a condividere la sua vita; in altri termini di rendere la sua autodonazione il più immanente possibile. Ora, il pieno inserimento dell'autocomunicazione di Dio o l'immanenza totale della sua autodonazione all'umanità consiste precisamente nell'inserimento personale di Dio stesso nella famiglia umana e nella sua storia, consiste cioè nel mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio in Gesù Cristo. È ciò che possiamo definire il principio dell' auto-comunicazione immanente di Dio, creatrice e riparatrice"[29].

     Dio non vuole soltanto auto-comunicarsi o redimere, ma desidera farlo per così dire dall'interno e in modo permanente. Egli desidera l'immanenza del dono e del perdono. Vuole comunicare se stesso, creatore, redentore e santificatore, ma inserendosi direttamente nella storia. Ciò accade appunto nell'incarnazione, in Gesù Cristo il quale è Dio in modo umano e uomo in modo divino[30]: in lui il Dio che nell'Antico Testamento era Dio-degli-uomini, diventa Dio-degli-uomini-in-modo-umano.

     Tale risposta alla domanda sul senso del Cristo nel piano divino appare in sintonia con il messaggio biblico[31]. Tornano qui validi i riferimenti a testi cari agli scotisti,  ed altri brani ancora del Nuovo Testamento. Ad esempio,  Gv 3, 16-17, nel contesto di una pagina eccezionalmente concentrata, presenta -sullo sfondo probabilmente del sacrificio di Isacco da parte di Abramo- l'amore del Padre che per salvare il mondo si risolve a dare (wste edoken) il Figlio unigenito, come gesto massimo di una volontà comunicativa e recuperativa.

     Nella stessa linea 1Gv 1, 1-2, che si riaggancia al prologo del vangelo giovanneo, presenta il Logos diventato carne come canale della manifestazione di Dio e principio della vita divina quella a cui l'uomo è chiamato a partecipare entrando in comunione con Dio e col Verbo.

     Pertinente è anche il richiamo al legame che san Paolo instaura tra Adamo e Cristo in Rom 5, ove vien appunto suggerito -attraverso un insistente parallelismo- che il primo Adamo era figura di quello venturo, autentico e definitivo.

     Risplende qui in tutta la sua affascinante modernità la concezione di sant'Ireneo, che anticipa, sebbene per altre vie, le intuizioni che sarebbero state sviluppate solo molti secoli dopo. Per il vescovo di Lione, l'incarnazione si presuppone nel fatto stesso di plasmare l'uomo, avvenendo la plasmazione sulla base di un archetipo che è il Verbo incarnato e glorificato.

"Infatti il Verbo, Artefice di tutte le cose, aveva prefigurato in lui [Adamo] la futura economia dell'umanità di cui si sarebbe rivestito il Figlio di Dio: Dio aveva cioè stabilito in primo luogo l'uomo animale, evidentemente perché fosse salvato dall'uomo spirituale. Poiché preesisteva il Salvatore, doveva venire all'esistenza anche ciò che doveva venire salvato, affinché il Salvatore non fosse inutile"[32].

Dio guarda al Verbo incarnato come paradigma del protoplasto, e anche senza peccato l'incarnazione sarebbe dunque stata necessaria affinché nell'uomo 'immagine' di Dio giungesse a compimento anche la 'somiglianza', secondo un'idea di salvezza molto più ampia del senso che ordinariamente vien dato a questo termine. La sria, secondo sant'Ireneo, non è soltanto la liberazione dal peccato, ma l'adempimento della radicale vocazione dell'uomo alla comunione con Dio, l'ammissione a partecipare della vita stessa di Dio[33].

     I fini puramente contestualizzanti che ci hanno spinto a trattare la tematica, ci fanno stimare sufficienti i dati fin qui esposti..

     A conclusione sottolineiamo che il "Cur Deus homo", lungi dall'essere un theologoumenon  ormai da archiviare, rimane un interrogativo di attualità. Oggi, infatti, esso assume inedite sfaccettature nei nuovi contesti in cui i credenti sono chiamati a porre l'annuncio di Cristo, e a renderne ragione. Si pensi alla secolarizzazione del neopaganesimo  e della cultura postmoderna in Occidente, ove la domanda religiosa pare essere censurata dall'orizzonte dei bisogni essenziali dell'uomo.

     Si pensi ancora alle problematiche del dialogo con le altre religioni, all'ordine del giorno specialmente in Asia, ma anche in Africa e ormai sempre più anche in Europa. Come si può giustificare l'unicità del salvatore costitutivo al cospetto della estrema circostanziazione dell'evento-Cristo, sia dal punto di vista dello spazio sia dal punto di vista del tempo? Come si può rivendicare un valore salvifico universale alla persona e alla vicenda di Gesù di Nazareth, così modesta e puntuale per le sue caratteristiche storiche e geografiche?[34]

     Nel variare delle culture nei secoli e nei luoghi, la questione sul senso del Cristo nel piano divino rimane un capitolo essenziale ed anzi il coronamento di ogni cristologia.



[1] Per un profilo biografico di S.Anselmo, cf. Eadmer di Canterbury, Vita di Sant'Anselmo, Milano 1987, redatta da un monaco a lui contemporaneo. V. anche T. Gregory, Anselmo d'Aosta, in: Dizionario biografico degli italiani, III, Roma 1961, 387-399, con bibliografia di F.S. Schmitt.

[2] Cf. l'edizione critica curata da F. S. Schmitt, S. Anselmi Cantuarensis Archiepiscopi opera omnia, Edimbourgh 1946-1961.

[3] Anselmo d'Aosta, Cur Deus homo, I, 1 (67). Citiamo dalla traduzione italiana curata da D.Cumer, Alba 1966, ponendo tra parentesi il numero della pagina.

[4] Sul pensiero di Sant'Anselmo cf. H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, II, Stili ecclesiastici: Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Milano 1978, 191-234; K. Barth, Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenzs Gottes im Zusammenhang seines theologischen Programms, Zürich 1981; M. Parodi, Il conflitto dei pensieri. Studi su Sant'Anselmo d'Aosta, Bergamo 1988; G. Gäde, Eine andere Barmherzigkeit, Würzburg 1989.

[5] H. U. von Balthasar, op. cit., 193.

[6] Anselmo d'Aosta, Cur Deus homo, I, 25 ( 157).

[7] Anselmo d'Aosta, op. cit., I, 1 (67).

[8] Anselmo d'Aosta, op. cit., I, 7 (83s).

[9] Anselmo d'Aosta, op. cit., I, 15 (114s).

[10] Cf. Anselmo d'Aosta, op. cit., II, 7 (174).

[11] Anselmo d'Aosta, op. cit., II, 19 (227).

[12] V. per queste e ulteriori valutazioni, T. Gregory, op. cit., spec, p. 390 e s.

[13] Numerose riviste sono dedicate al pensiero del maestro domenicano. Tra le molte, in Italia: Divus Thomas, pubblicata dal Collegio Alberoni di Piacenza, a partire dal 1924; Doctor Communis, a partire dal 1948 per cura dell' "Angelicum" di Roma. Dedicato alla  bibliografia su san Tommaso il Bulletin Thomiste (1924-1965), che dal 1969 è proseguito dalla Rassegna di Letteratura Tomistica. Tra le monografie,  rinviamo solo a due tra i titoli più recenti: J. A. Weisheipl, Tommaso d'Aquino. Vita, pensiero, opere. Milano 1987; A. Patfoort, Tommaso d'Aquino. Introduzione ad una teologia, Genova 1988.

[14] Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, III, q. 1, a. 3. Citiamo dalla edizione leonina inserita nella versione bilingue dei Domenicani italiani, vol. XXIII, Firenze 1969, 46-51.

[15] Agostino d'Ippona, Sermo CLXXIV, II: "si homo non perisset, Filius hominis non venisset".

[16] Tommaso d'Aquino, op. loc. cit.

[17] Tommaso d'Aquino, Super Sententias magistri Petri, III, d. 1, q. 1, a. 3.

[18] Tommaso d'Aquino, Super Epistulam primam ad Timoteum, c. 1, l. 4.

[19] W. Goethe, Anni di peregrinazione di Wilhelm Meister, II, 1 (cit. in J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1973, 45).

[20] Agostino d'Ippona, De Trinitate, XII, 17.

[21] V. il repertorio di posizioni in J. F. Bonnefoy, Il primato di Cristo nella teologia contemporanea, in: AA. VV., Problemi e orientamenti di teologia dommatica, II, Milano 1957, 207s. Sulle posizioni tomiste, Bonaventura da Bagnoregio; sulle posizioni scotiste, già prima di Scoto, Ruperto di Deutz, Alessandro di Hales e Onorio d'autun.

[22] Tra i contributi più recenti,  v. Bernardino de Armellada, El pensamiento de Juan Duns Scoto, in "Estudios Franciscanos" 89 (1970), 209-227; C. berubé, De l'homme à Dieu selon Duns Scot, Henri Gand et Olivi, Roma 1983; A. B. Wolter, The Philosophical Theology of John Duns Scotus, London 1990. Di grande utilità è altresì la collana Bibliotheca Scholastico-scotistica, edita dall'Ateneo "Antonianum" di Roma, in cui vengono tra l'altro pubblicati gli atti dei convegni della Società Internazionale Scotistica, con bibliografia aggiornata. Le più recenti pronunce magisteriali su Scoto, figura dalla storia per certi versi tormentata, sono raccolte in G. Lauriola, Giovanni Duns Scoto. Recenti documenti, Roma-Monopoli (Ba) 1992.

[23] Citeremo dall'Opera omnia pubblicata a Parigi tra il 1891 e il 1895 dai Frati Minori, sulla base dell'edizione di L. Waddings. A partire è in corso - in verità con ritmi piuttosto lenti - un'edizione critica curata dalla Commissione Scotista sotto la guida di C. Balic sino al 1977, continuata poi da L. Modric.

[24] Giovanni Duns Scoto, Super Sententias, III, d. 7, q. 3 (Opus oxoniense).

[25] Così nell'Oxoniense. Ancora più chiara  l'esposizione dei Reportata, III, d. 7, q. 4: "omnis ordinate volens, prima vult finem, deinde immediatius illa quae sunt fini immediatioria. Sed Deus est ordinatissime volens(...) Primo ergo vult se; et post se immediate quantum ad extrinseca est anima Christi; igitur ante quodcumque meritum et ante quodcumque demeritum, praevidit Christum sibi uniendum in unitate suppositi".

[26] Per una valutazione della tesi scotista su questo punto, v. soprattutto A. Caggiano, De mente Joannis Duns Scoti circa rationem incarnationis, in "Antonianum" 32 (1957), pp. 309-334;  P. Rossini, Il cristocentrismo di Giovanni Duns Scoto e la dottrina del Vaticano II, Roma 1967; A. B. Wolter, John Duns Scotus on the Primacy and Personality of Christ, in: D. McElrath (ed.), Franciscan Christology, New York 1980, pp.139-182; J. B. Carol, The absolute Primacy and Predestination of Jesus and His Virgin Mother, Chicago 1981.

[27] La bibliografia è interminabile. Citiamo solo alcuni tra i contributi più recenti e significativi:  A.Sanna, La regalità di Cristo secondo la Scuola francescana, Oristano 1951; J.-F. Bonnefoy, Il primato di Cristo nella teologia contemporanea, in: AA. VV., Problemi e orientamenti di Teologia dommatica, cit.; G. Martelet, Sur le problème du motif de l'Incarnation, in: H. Bouëssé - J. J. Latour (edd.), Problèmes actuels de christologie, Paris 1965, 35-80; J. B. Carol, Why Jesus Christ?, Manassas 1986 (con un ricchissimo corredo bibliografico).

[28] V. ad esempio P. Rossini, Il cristocentrismo di Giovanni Duns Scoto e la dottrina del Vaticano II, cit.

[29] J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Assisi 1989, 135.

[30]  V. E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, Roma 1981, 27:  "la seconda persona della santissima Trinità è personalmente uomo; e quest'uomo è personalmente Dio. Il Cristo è Dio in maniera umana".

[31] Seguiamo nel testo J. Dupuis, op. cit., 136.

[32] Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 22, 3, trad. di E. Bellini, Milano 1981, 289. Il corsivo è nostro.

[33] V. su questi temi A.Orbe, Antropologia de San Ireneo, Madrid 1969; Id., La definición del hombre en la teologia del siglo II, in "Gregorianum" 48 (1967), 522-576; Id., Introduccion a la teologia de los siglos II e III, Roma 1987;  Id., Espiridualidad de san Ireneo, Roma  1989.

[34] Su di esse v.  esaurientemente J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, cit., in modo speciale 267-291; Id., Dialogo interreligioso nella missione evangelizzatrice della Chiesa, in: R. Latourelle, Vaticano Ii: bilancio e prospettive, II, Assisi 1987, 1234-1256.