Capitolo
Secondo
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IL
CUR FILIUS HOMO
NELLA TEOLOGIA MEDIEVALE.
BONAVENTURA DA BAGNOREGIO
I. IL SECOLO TREDICESIMO
Bonaventura da
Bagnoregio è attivo in un periodo di vivaci mutamenti che dal piano sociale si
riflettono anche in campo ecclesiale e teologico. Tratteggeremo uno schizzo del
secolo in cui egli si è mosso, prima di affrontare la sua risposta al tema
della nostra ricerca[1].
Sino al secolo
dodicesimo, la teologia si era svolta essenzialmente all'interno dei monasteri,
veri gangli nel sistema sociale ed ecclesiale del feudalesimo. Lontano dal
flusso della vita comune, nel raccoglimento di un clima intensamente orante, si
era sviluppata una riflessione impregnata d'affettività, tutta orientata
all'unione del singolo con Dio e dunque non particolarmente interessata
all'edificazione di un sistema dalle categorie scientificamente esatte .
Nel tredicesimo secolo
però il sistema feudale oltrepassa la soglia di una decadenza irreversibile. Il
baricentro della vita politica oscilla dall'Impero ai comuni, e quello della
vita economica passa dalla campagna alla città. La risposta nell'ambito
ecclesiale è rappresentata dagli Ordini mendicanti, che con la loro
itineranza accompagnano nella sua
fervida mobilità una società ricca di contatti e scambi, ormai fuori dalla
portata evangelizzatrice dei monasteri, frenati dalla tradizionale stabilitas loci. Nel campo delle
istituzioni teologiche, l'importanza della città stimola dapprima la crescita
delle scuole erette presso le cattedrali e successivamente la costituzione
delle Università come corporazioni, vere e proprie associazioni di docenti e di
studenti. È soprattutto in tale ambito che d'ora in poi si svolgeranno la
ricerca e l'insegnamento.
Oltre a nuove strutture
scolastiche, il contatto con la vita cittadina determina da un lato la maggiore
sensibilità alle problematiche con cui la fede deve confrontarsi, dall'altro
un'accresciuta attenzione alle esigenze di scientificità nell'esposizione e
nella trasmissione della fede. Il fenomeno è associato alla comparsa di
Aristotele sulla scena della cultura occidentale grazie alle versioni dalla
lingua araba. Pur continuando Platone ad irradiare la sua luce attraverso
Agostino e l'agostinismo, specialmente lo Stagirita affascina gli
intellettuali, per la capacità di offrire con il suo sistema una comprensione
ben organizzata e sintetica del sapere.
Quantunque con alterne vicende e con diseguali gradi di accoglienza, il corpus aristotelico fa alfine ingresso
nella Facoltà di teologia[2].
La nuova sensibilità
stimola inoltre un notevole sviluppo della quaestio.
Quella che nella teologia monastica, concepita essenzialmente come commentario
alla Scrittura, secondo lo schema della lectio
divina, è una riflessione personale del commentatore, che solo
saltuariamente fa capolino, assurge ora ad una dignità autonoma. Il processo si
svolge nel modo seguente[3].
La
lectio è il commento ad un testo,
snodantesi su tre livelli: la littera,
che è l'ordinamento della costruzione del testo così come materialmente giace;
il sensus, che è il significato che risulta dalla
prima lettura del testo; la sententia,
in cui il commentatore sviluppa una propria e più ricca interpretazione, la cui
pienezza richiede esposizione ed esegesi. Ai tre livelli corrispondono
altrettante glosse, interlineari nei primi due, marginale nel terzo livello.
Gradualmente,
la glossa marginale si sgancia dalla lectio,
diventandone indipendente. Poiché accade però che le varie glosse talora si
contraddicano, nasce la quaestio come problema ermeneutico, non
più esigenza personale del commentatore, ma rimedio alle contraddizioni. Essa
perde così in spontaneità, ma acquista in scientificità e, ormai svincolata da
un testo da commentare, si modella su uno stampo spiccatamente speculativo.
Giungendo ad un piano elevato di formalismo, diventa il canale principale in
cui scorre la riflessione teologica.
Vi sono quaestiones di un primo tipo, dette disputatae, dibattiti aperti a docenti
e studenti della Facoltà, sotto la direzione di un maestro che, per guidare la
discussione, doveva possedere un'ampia visione sistematica. Vi sono poi le quaestiones quodlibet, proposte cioè da
un qualunque soggetto (a quolibet) su
un qualunque oggetto (de quolibet),
dal carattere dunque non sistematico e quasi improvvisato.
Le discussioni avevano
il fascino del confronto serrato e dell'argomentazione brillante, ma dato lo
svolgimento orale potevano mancare -specialmente le quodlibet- di profondità e spessore. Per ovviare a tale carenza si
redigono delle Summae di quaestiones, tra le quali un posto
assolutamente singolare occupano le Sententiae
di Pietro Lombardo[4].
L'opera, composta tra
il 1155 e il 1157, vive una
vicenda forse irripetuta nella storia della teologia, diventando in pochi
decenni il testo ufficiale di insegnamento nella facoltà di teologia di tutte
le università, per il ciclo di baccellierato, sino a tutto il secolo XVI,
quando verrà soppiantata dalla Summa theologiae di san Tommaso[5].
Pietro Lombardo
organizza le sue Sententiae in
quattro libri, a loro volta articolati in capitoli, successivamente ripartiti
in distinctiones. Nel primo tratta
della Trinità, degli attributi divini, dell'azione della Trinità ad extra. Il secondo è dedicato alla
creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo, nonché alla grazia ed al
peccato. Il terzo affronta i temi della incarnazione e della redenzione, delle
virtù teologali, del decalogo. Infine l'ultimo libro, sui sacramenti in genere
ed in specie, e sui novissimi. Il piano dunque non è molto preciso, né
sufficiente, essendo privo ad esempio di una sezione dedicata
all'ecclesiologia. Il Maestro delle Sentenze inoltre adopera talvolta una terminologia imprecisa e non molto
solide sono le sue basi filosofiche. Quali dunque le ragioni del successo, che
rende l'opera l'equivalente nel campo teologico di ciò che fu nel campo
giuridico il Decretum di Graziano[6]?
Con intelligente
discernimento, il Maestro delle Sentenze innesta su basi scritturistiche abbondanti opinioni dei Padri, offrendo
una messe copiosa di auctoritates
facilmente accessibili. Usa con prudenza l'altra colonna del metodo scolastico,
la dialettica. Espone con stile chiaro ed obbiettivo tutte le questioni
significative per il dibattito del suo tempo. Nel proporre soluzioni, si
manifesta sempre fedelmente attaccato alla tradizione ecclesiastica. Così egli
redige una raccolta ordinata e relativamente sintetica di tutta la teologia del
suo tempo. Non è uno spirito creativo, come un Abelardo o un Ugo da S.Vittore,
ma proprio questo che potrebbe rappresentarne il limite, rende la sua diligente
compilazione particolarmente adatta all'uso didattico. Ogni professore
esordiente deve adesso cimentarsi in un corso sulle Sententiae, ciò che suscita la fioritura di una costellazione di
commenti sovente ben più elevati per valore[7]. Tra questi figura san Bonaventura.
II. BONAVENTURA DA
BAGNOREGIO
1. La figura e l'opera
Il "Dottore
Serafico"[8] nasce intorno al 1220 a Bagnoregio, un
piccolo paese al confine tra Lazio, Umbria e Toscana. Nella fanciullezza viene
guarito miracolosamente, come egli stesso racconterà in seguito[9] da un miracolo di Francesco d'Assisi.
Durante l'adolescenza si porta a Parigi per frequentarvi la Facoltà delle Arti
fino al Magistero. Nel 1243 entra nell'Ordine francescano e si iscrive alla
Facoltà di Teologia. Dopo cinque anni di studio, diventa baccelliere biblico,
quindi baccelliere sentenziario, licenziato, fino a reggere la Cattedra
francescana della Sorbona, a partire dal 1254.
Nel capitolo del 1257 viene eletto
ministro generale dei Frati Minori, incominciando un'attività di governo assai
intensa, e viaggiando frequentemente: in Italia, in Francia, in Germania, forse
in Inghilterra. Non trascura però di scrivere e continua ad interessarsi dei
fermenti che attraversano il mondo culturale ed in particolare l'Università
parigina circa la filosofia di Aristotele ed Averroè.
Nel 1273, il papa
Gregorio X lo crea cardinale, vescovo di Albano, incaricandolo di collaborare
alla preparazione del Concilio che si sarebbe tenuto a Lione. Durante lo
svolgimento di questo, muore, il 15 luglio 1274. Sisto IV nel 1482 lo
canonizza. Sisto V nel 1588 lo dichiara Dottore della Chiesa.
Le sue opere
abbracciano una molteplicità di campi[10].
In ambito teologico v'è anzitutto il Super
Sententias, l'opera scaturita dall'insegnamento come baccelliere
sentenziario. Seguono testi dalle dimensioni più contenute ma non inferiori per
impegno speculativo: il Breviloquium,
l'Itinerarium mentis in Deum, il De reductione artium ad Theologiam, le Questioni
disputate De scientia Christi, De mysterio Trinitatis, De perfectione evangelica. Vi sono ancora le Collationes, sermoni pronunciati in diverse circostanze: De decem praeceptis, De septem donis Spiritui sancti, In Hexaemeron. Si annoverano circa altri
sessanta discorsi minori.
. Le opere in campo biblico di
sicura attribuzione sono tre commenti: al vangelo di Luca, al vangelo di
Giovanni, all'Ecclesiaste. Interessantissime le opere di soggetto spirituale,
tra cui spiccano il De triplici via,
il Soliloquium, e il Lignum vitae. Uno spiccato significato
non solo storico rivestono infine gli scritti di tema francescano,
principalmente l'Apologia pauperum, e
la Legenda sancti Francisci nelle due
versioni minor e maior.
Quali
sono le fonti che si intrecciano nel pensiero del Dottore serafico, le auctoritates a cui fa più volentieri
ricorso?[11] In primo piano sant'Agostino, ch'egli
conosce attraverso la mediazione dei propri maestri Alessandro di Hales,
Giovanni della Rochelle e Odo Rigaldi. Lo cita più di 3050 volte e non solo per
rispetto di un'autorevolezza che nessun'altro rivestiva nella stessa misura, ma
per una profonda consonanza spirituale. Entrambi intendono sviluppare, a
partire dalla Scrittura, un'intelligenza della fede che, sorretta dalla
ragione, diventa infine sapienza e contemplazione.
Subito dopo, lo
Pseudo-Dionigi, a vantaggio del quale gioca però l'equivoco del legame con san
Paolo, ciò che gli attribuisce un influsso notevole presso tutti i medievali.
Quindi sant'Anselmo, presso cui Bonaventura attinge il metodo delle rationes necessariae e l'argomento per
l'esistenza di Dio, che appunto dal Dottore d'Aosta prende il nome. Segue san Bernardo, a cui il teologo
francescano si ispira per la concezione della carità. Tracce di influenza si addebitano infine a Ugo da san
Vittore, a Riccardo da san Vittore, a Gioacchino da Fiore[12].
Le opere di san
Bonaventura sono vergate in uno stile nitido e smaltato, e si sviluppano su
architetture accuratamente strutturate in simmetrie e simboli, secondo un
disegno in cui nulla è casuale o soltanto ornamentale. Il lettore moderno può
ammirarvi la stessa armonia che dà respiro perenne alle cattedrali del Medioevo[13].
Tre dimensioni vi si
intrecciano continuamente, come fili a formare una trama di inconfondibile
originalità:
1) la dimensione francescana. Non è solo
l'elemento giuridico dell'appartenenza all'Ordine minoritico, ma una sintonia
profonda d'identità con Francesco
d'Assisi[14]. Col santo fondatore il Dottore serafico
condivise l'ufficio di ministro generale, ma molto più l'esperienza spirituale,
l'esperienza del Cristo della Verna e delle stimmate, il crocifisso in forma di
serafino, il trafitto glorificato. L'Itinerarium
ne è una splendida testimonianza.
2) la dimensione filosofico-teologica[15]. Bonaventura punta ad una sapienza cristiana
in cui filosofia e teologia non procedono parallelamente congiunte da un legame
puramente estrinseco, ma si sviluppano in un'espansione progressiva che ha per
meta Dio. Il teologo non prescinde dal filosofo, dalla capacità cioè di
interrogare l'uomo e scrutare il creato per scorgervi le tracce del Creatore,
in preparazione all'annuncio portato dalla Rivelazione. Ma è in Cristo, 'unus magister omnium' che l'esperienza umana si fa leggibile e la
ricerca filosofica giunge a compimento, secondo un itinerario che dalla
"stabilità della fede" si snoda nella "serenità della
ragione" fino alla "dolcezza della contemplazione"[16]. D'altronde non gioverebbe neppure una
teologia che fosse speculazione pura, inadatta a pesare la distanza che separa
il mistero del Verbo umanato e passionato da un teorema matematico, "la
distanza che esiste tra una verità, la cui ignoranza non nuoce alla nostra
felicità, e una verità che coinvolge la nostra vita, perché assumendola noi
entriamo in un nuovo mondo, dove l'intelligenza e l'esperienza vitale si compenetrano"[17]. Si comprende bene così lo sfociare in una
terza dimensione.
3) la dimensione mistica. Come in Bonaventura filosofia e
teologia sono intrecciate nell'unica sapienza, così l'uomo di scienza non è mai
dissociato dall'anima orante e contemplativa. La sintesi più mirabile di un
tale approccio è racchiusa nell'Itinerarium,
che nella corrispondenza tra il microcosmo ed il macrocosmo insegna a scorgere
i segni che conducono a Dio. Chi impara a leggere nel creato, nella Scrittura,
nel Cristo stesso, trova la via che giunge alla pace. Il compimento si realizza
nella chiave dell'amore e del dono. Al pellegrino che intraprende il cammino
Bonaventura infatti suggerisce:
"si autem quaeras quomodo
haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non intellectum;
gemitum orationis, non studium lectionis; sponsum, non magistrum; Deum, non
hominem; caliginem, non claritatem; non lucem, sed ignem totaliter inflammantem
et in Deum excessivis unctionibus et ardentissimis affectionibus
transferentem"[18].
La cristologia
bonaventuriana, particolarmente quella delle opere più mature e originali, non
è mai neutra. Costantemente essa si sviluppa su uno sfondo trinitario, a
partire dall'identità del Cristo come Verbo[19].
Questi è innanzitutto espressione del Padre, è "Dio nel
modo dello essere-espresso"[20], espressione naturale, necessaria ed
adeguata del Padre, ed anzi
dell'intera Trinità:
"Tres sunt, qui
testimonium dant in caelo, Pater, Verbum et Spiritus sanctus; et hi tres sunt
unum (1 Jo 5,7). A tribus datur testimonium, sed exprimitur per Verbum, quia
Verbum et Patrem et se ipsum et Spiritum sanctum exprimit et omnia alia"[21].
Il Verbo è inoltre esemplare di tutto il creato. Tutta la
Trinità è indicata esemplarmente nell'unico Verbo, s'intende al modo proprio
del Verbo, che è quello dell'esprimere. Con lo stesso sguardo, infatti, il
Padre conosce se stesso e la sua imitabilità ad extra. Tale sguardo è lo stesso che genera il Verbo, il quale è al
contempo immagine perfetta del Padre ed esemplare di tutte le cose. Il legame
tra Trinità e creazione si annoda nel Verbo che così diventa l'anima e il cuore
di tutto il reale. In ciò sta il fondamento metafisico del cammino di cui l'Itinerarium è la mappa, e che attraverso
il mondo e nel mondo (per speculum ed
in speculum) sa cogliere i
"vestigi", le "immagini" e le "similitudini"
disseminati nella creazione donde si giunge a contemplare Dio.
Infine il Verbo è esemplare divino dell'uomo. Questi,
vertice e sintesi dell'universo, microcosmo in cui si rispecchia il macrocosmo,
reca una duplice impronta del Verbo. La prima è l'immagine, di ordine naturale,
che consiste nella capacità intellettiva e volitiva, per cui il Verbo
rappresenta l'orizzonte infinito in virtù del quale è possibile la percezione
dell'ente finito. La seconda è la somiglianza, che si colloca su un piano
soprannaturale, in quanto il Verbo è la luce rivelativa che ci manifesta il
Padre ed il disegno salvifico[22].
Si evidenzia qui il
ruolo determinante che nella cristologia di san Bonaventura gioca la nozione di
Cristo come medium[23]. Nell'uso del termine confluiscono la
dottrina del medio elaborata dalla logica aristotelica e la
dottrina di sant'Agostino, che lega in stretta connessione 'medio' e
'mediatore'.
Cristo è medio tra la
natura divina e la natura umana, tra Dio e l'uomo, in virtù dell'unione
ipostatica. Per la sua 'mortalitas' comunica
con gli uomini, per la sua 'beatitudo' comunica
con Dio[24]. Cristo è mediatore, in quanto medio a cui è
affidato l'ufficio della riconciliazione, dunque in quanto redentore. E poiché
il medio -in quanto tale- si trova sempre nel mezzo, Cristo è anche centro,
cioè misura, criterio di significato, vincolo che armonizza la molteplicità in
unità. Tale carattere si prolunga dalla sua persona alla sua opera, che lo
costituisce capo dell'umanità, dell'unico corpo mistico in una relazione di
conformità e nella partecipazione dei doni gratuiti[25]
Medium in Trinitate, il Verbo è anche perciò medium in egressu, cioè nella produzione di ogni cosa creata, e medium
in regressu, nel ritorno di tutte le cose al Padre, attraverso la grazia
dello Spirito santo, dovuta alla missione del Figlio incarnato. Lo stesso
Dottore serafico riassume il suo programma cristocentrico all'inizio dell'Hexaemeron:
"Propositum igitur nostrum
est ostendere, quod in Christo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei
absconditi, et ipse est medium omnium scientiarium. Est autem septiforme
medium, scilicet essentiae, naturae, distantiae, doctrinae, modestiae,
iustitiae, concordiae. Primum est de consideratione metaphysici, secundum
physici, tertium mathematici, quartum logici, quintum ethici, sextum politici,
seu iuristarum, aeptimum theologi (...). Primum medium Christus fuit in aeterna
generatione; secundum in incarnatione; tertium in passione; quartum in
resurrectione; quintum in ascensione; sextum in futuro examine; septimum in
sempiterna retributione, sive beatificatione"[26].
Per il Verbo increato tutto viene prodotto, per il
Verbo incarnato tutto viene riparato,
per il Verbo ispirato tutto viene
rivelato[27]. Il Verbo è al centro della Trinità, al
centro del cosmo, al centro della storia, al centro della vita morale, al
centro della metafisica e di tutte le scienze, al centro dell'escatologia.
Siamo dinanzi ad una
riflessione sotto molti aspetti affine alla sensibilità dei contemporanei. La
costante lettura in termini trinitari del mistero di Cristo, rispetta
l'intreccio tra dimensione immanente e dimensione economica. In un tale
scenario si colloca la riflessione bonaventuriana sull'incarnazione in rapporto
alle persone trinitarie.
3. L'incarnazione e le persone della Trinità
Come si è descritto
nella prima sezione del presente capitolo, la teologia del secolo XIII vede la
speculazione pura -per così dire- fare il suo ingresso in teologia, con un
grado di autonomia mai raggiunto in precedenza. Ne è conseguenza e in qualche
modo anche causa l'adozione delle Sententiae
di Pietro Lombardo come manuale nell'insegnamento scolastico, accanto alla
Scrittura.
Sulle Sententiae si cimentano docenti dal
calibro senz'altro superiore a quello del loro autore, come Alessandro di
Hales, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e, appunto, Bonaventura da Bagnoregio.
In questi casi i commentari saranno ben più di una semplice glossa con finalità
di esplicazione o di approfondimento, e diventeranno trattati con una specifica
consistenza strutturale e di contenuto, dato che ogni baccelliere sentenziario
segue un criterio personale nella distribuzione delle proprie osservazioni.
Sarà peraltro merito di una tale disciplina d'umiltà intellettuale se poi i
commentari alle Sententiae di
Bonaventura e Tommaso sfoceranno nelle prove ben più mature ed originali
rispettivamente del Breviloquium e
della Summa.
Il Dottore serafico
ascolta dal 1243 al 1249 i corsi di Oddo Rigaldi e Guglielmo di Melitona. Nel
1250 diviene egli stesso baccelliere sentenziario e 'legge' l'opera del
Lombardo sino al 1252, incominciando col libro I, passando attraverso il IV ed
il II, per terminare col III, cui appartiene la problematica del quale ci
interessiamo[28].
Il metodo espositivo
bonaventuriano raggruppa all'interno di ogni libro le riflessioni in distictiones, ognuna delle quali
comprende:
1. la divisio textus, in cui si espone
succintamente il pensiero del Maestro, come Pietro Lombardo viene comunemente
denominato;
2. la tractacio quaestionum, che enumera le quaestiones destinate a successivo
svolgimento;
3. gli articula, che raggruppano un certo
numero di questioni omogenee;
4. infine i dubia, ove si affrontano difficoltà
suscitate dalla lettura del testo di Pietro Lombardo.
All'interno della distinctio, la singola quaestio si snoda di solito in quattro
tappe:
a) la esposizione della
tesi a cui favore l'Autore si schiera, con l'illustrazione del problema
affiancato da testi scritturistici, citazioni di auctoritates, argomenti di ragione;
b) la esposizione della
tesi contraria, con un inventario delle posizioni dei predecessori;
c) la conclusione di
san Bonaventura, preceduta sempre dal verbo 'respondeo';
d) gli 'ad obiecta', che confutano gli
argomenti contrari.
Dunque nella prima
distinzione del terzo libro delle sue Sentenze, Pietro Lombardo dedica il primo
capitolo alla domanda "quare Filius
carnem assumpsit, non Pater, vel Spiritus Sanctus", e il secondo
capitolo alla domanda "utrum Pater
vel Spiritus Sanctus potuerit incarnari vel possit"[29]. Incidentalmente osserviamo come si rispetti
uno schema in cui la speculazione di ordine positivo è anteposta alla
speculazione di ordine ipotetico.
Alla prima domanda si
risponde con tre motivazioni. Innanzitutto era conveniente che, come Dio aveva
fatto ogni cosa per mezzo della Sapienza, così per mezzo della sapienza ogni
cosa restaurasse. In secondo luogo, conveniva che ad essere mandato nella carne
fosse il Figlio in quanto egli proviene dal Padre, mentre il Padre non proviene
da alcuno. Infine, perché a colui che era Figlio di Dio nella divinità,
spettava essere anche figlio dell'uomo nell'umanità.
Alla seconda domanda,
si risponde semplicemente che anche il Padre e lo Spirito avrebbero potuto e
potrebbero tuttora incarnarsi. Non se ne fornisce alcuna motivazione[30].
Su tale fondamento si
sviluppa il commento di san Bonaventura, il quale però inverte la successione
di Pietro Lombardo, anticipando la questione di ordine ipotetico a quella di
ordine positivo. Nella prima distinctio
troviamo pertanto il primo articulus
intitolato "De incarnatione quantum
ad unionis possibilitatem", ove la quaestio
quarta reca l'interrogativo "utrum
quaelibet trium personarum possit incarnare per se ipsam". Il secondo articulus, dal titolo "De incarnatione Verbi quantum ad
congruitatem", reca invece una quaestio,
la terza, che si domanda "quae trium
personarum fuerit ad incarnationem magis idoneam"[31]. Riteniamo più congrua la successione di
Pietro Lombardo, ma per comodità rispetteremo nell'esposizione quella del
Dottore serafico, trattando sinteticamente la prima e più diffusamente la
seconda.
a. Potrebbe incarnarsi qualsiasi persona della Trinità?
Bonaventura afferma
all'inizio della quaestio che ciò è
possibile, come aveva già affermato il Maestro delle Sentenze, e propone
quattro motivi[32]:
1. La distanza che
separa la creatura dalla persona del Figlio, non è maggiore di quella che la
separa dalle persone del Padre e dello Spirito. Dunque, se tale distanza non è
stata un impedimento per l'incarnazione del Figlio, non lo sarebbe stata
neppure nel caso dell'incarnazione di un'altra delle persone divine.
2. Se la possibilità
dell'incarnazione si collega alla dignità della persona divina, occorre
riconoscere che come essa conveniva alla dignità del Figlio, ancor più sarebbe
convenuta alla dignità del Padre, dal quale il Figlio riceve ogni cosa.
3. Perché avvenga
l'incarnazione si postulano (a) due estremi suscettibili di unione, (b) una
persona in cui si compia l'unità, (c) una potenza immensa capace di congiungere
i due estremi. Ora, afferma Bonaventura, tali tre requisiti erano presenti nel
Figlio ma anche nel Padre e nello Spirito.
4. Infine, se la persona
del Figlio ha potuto incarnarsi è stato o in quanto è persona o in quanto è
Figlio. Ma non in quanto Figlio, essendo egli tale rispetto al Padre, non
rispetto alla creatura. Dunque in quanto persona, e tuttavia non diversamente
sono persone il Padre e lo Spirito, i quali pure -per conseguenza- potevano incarnarsi.
Bonaventura si
confronta anche con la posizione contraria, di cui prima espone e poi
controbatte le argomentazioni, nel modo seguente.
1. Solo il Figlio
poteva incarnarsi perché, se si fossero incarnati il Padre o lo Spirito Santo,
ci sarebbero stati due Figli nella Trinità. Ne avremmo avuto una qualche
diminuzione della eguaglianza intratrinitaria, essendo il Figlio generato
eternamente più eccellente dell'altro generato nel tempo. Ne avremmo avuto
anche una certa confusione, poiché -se si fosse incarnato il Padre- avremmo
potuto dire di questi che è ingenerato (eternamente) e generato (nel tempo),
non diversamente dunque dal Figlio, anche lui generato (eternamente) e
ingenerato (nel tempo). Tutto ciò sarebbe stato sconveniente e, secondo la
sentenza di sant'Anselmo, "quodlibet
autem inconveniens, apud Deum est impossibile"[33]. Non poteva esserci pertanto l'incarnazione
del Padre o dello Spirito, "non
propter defectum potentiae, sed propter dignitatem potentiae"[34].
All'argomento
Bonaventura controbatte che l'incarnazione consiste nell'assumere un corpo, ma
si deve ammettere che Dio potrebbe prendere la carne da una donna altrimenti
che come da una madre, e perciò anche senza esserene figlio: non
necessariamente, dunque, anche in caso di incarnazione del Padre, ci sarebbero
stati due Figli nella Trinità.
L'argomento anselmiano,
continua Bonaventura, dev'essere poi rettamente inteso, e cioè in riferimento a
ciò che è sconveniente in Dio "secundum
se": ciò in alcun modo potrebbe essere conveniente, e pertanto è anche
impossibile. Non si può dire altrettanto di ciò che è sconveniente "secundum nostram aestimationem",
poiché Dio potrebbe rendere ciò conveniente[35].
2. Solo il Figlio
poteva incarnarsi -continua nell'esposizione della tesi opposta il Dottore
francescano- perché l'incarnazione è essere destinatario di una missione nella
carne[36]. Ciò è però impossibile per il Padre, il
quale non ha chi nei suoi confronti potrebbe essere autore della missione.
Secondo l'obiezione
bonaventuriana questa definizione dell'incarnazione si attaglia in concreto
all'incarnazione del Figlio, ma non all'incarnazione in generale. Questa, senza
un riferimento particolare a qualcuna delle persone trinitarie, "non dicit plus quam uniri carni in
unitate personae"[37], e ciò è possibile anche al Padre.
3. Infine, un
sillogismo: ciò che è proprio di un'unica persona, non può convenire ad altri;
l'incarnazione è propria solo del Figlio e solo a lui conviene; dunque è
impossibile che l'incarnazione convenga alle altre persone della Trinità.
Bonaventura replica con
un esempio. Se Pietro è l'unico figlio di Paolo, l'essere-figlio-di-Paolo sarà
proprio esclusivamente di Pietro, ma non perché non convenga ad altri in
assoluto, bensì perché non vi conviene attualmente. Così si deve dire
dell'incarnazione riguardo al Figlio, non perché non avrebbero potuto
incarnarsi il Padre o lo Spirito, ma perché nei fatti ad incarnarsi è stato il
Figlio.
b. Quale delle tre persone era più idonea all'incarnazione?
Esporremo dapprima le
due posizioni, per cui a incarnarsi erano più idonei il Padre o lo Spirito, con
le confutazioni di san Bonaventura, e poi più analiticamente le ragioni di
convenienza addotte dal Dottore francescano per l'incarnazione del Figlio[38].
1. La persona del Padre
era più idonea ad incarnarsi. Infatti, a colui cui pertiene la creazione,
spetta anche la ri-creazione; poiché la creazione soprattutto s'attribuisce e
conviene alla potenza del Padre, a lui spettava anche ri-creare nell'opera
dell'incarnazione.
Inoltre, a colui che
genera, spetta anche l'adozione a figli. E siccome l'incarnazione è ordinata
alla filiazione adottiva -secondo Gal 4, 5-, al Padre che è il generante non
generato, compete anche incarnarsi.
Infine, poiché il
Figlio riceve dal Padre tutto quello che ha, e poiché nell'incarnazione la
persona divina acquista la natura umana, conviene che sia il Padre ad
incarnarsi, in quanto conviene che sia lui ad avere qualcosa di cui manca il
Figlio, anziché il contrario.
Al primo argomento
Bonaventura replica che il Padre è autore così della creazione come della
ri-creazione; e come per mezzo del Verbo tutto ha fatto, per mezzo del Verbo
tutto ha ri-fatto. Ma non ne viene che debba incarnarsi il Padre, perché l'incarnazione non riguarda
tanto la persona dell'autore quanto quella del mediatore, cui appunto spetta
anche incarnarsi.
Simile è la linea
dell'obiezione al secondo argomento. Certamente infatti l'incarnazione è per
l'adozione a figli, ma questa si realizza attraverso la cooptazione all'eredità
del Figlio eterno, che di questa eredità è il principale destinatario e per
mezzo del quale gli altri possono diventarne compartecipi.
Quanto al terzo
argomento, afferma il Dottore serafico, occorre distinguere ciò che si dice
ricevuto dal Figlio per origine naturale da ciò che si dice ricevuto per unione
gratuita. Nel primo senso, ciò che è nel Figlio, è anche nel Padre in se
stesso, perché appunto il Figlio dal Padre tutto riceve. Ma nel secondo senso
-per cui il Figlio riceve tutto dal Padre non come dal generante ma come dal
principio effettivo-, poiché in tal senso il Figlio è minore rispetto al Padre,
e poiché si addice piuttosto al Figlio essere minore secondo la natura umana,
in tale stesso senso conveniva al Figlio avere qualcosa che non aveva il Padre.
2. La persona dello
Spirito era più idonea all'incarnazione. Quanto concerne la grazia, concerne
specialmente lo Spirito Santo, osservano i sostenitori di tale tesi. E siccome
il farsi uomo di Dio è la massima grazia possibile, farsi uomo spetta allo
Spirito.
Ancora: è nello Spirito
d'amore che noi siamo resi figli e, secondo Rom 8,15, esclamiamo: Abbà, Padre!
Dunque compete allo Spirito incarnarsi per renderci figli.
Da ultimo, poiché
essere inviati implica una certa subordinazione ("subauctoritas") in chi è inviato, essere inviato nella
carne si addice meno al Figlio che allo Spirito, in cui tale subauctoritas è maggiore.
Alla prima e alla
seconda argomentazione, Bonaventura risponde che l'opera dell'incarnazione, in
quanto somma grazia deve bensì essere attribuita allo Spirito, senza che si
debba dedurre la necessità dell'incarnazione della sua persona[39].
Alla terza
argomentazione va replicato che, prima della adozione a figli, viene la
liberazione degli schiavi. Siccome la persona del Figlio viene dal Padre, e la
persona dello Spirito viene dal Padre e dal Figlio, conveniva che prima fosse
mandato il Figlio nella carne e poi lo Spirito nel cuore e nella mente.
Sgombrato così il campo
dalle opinioni concorrenti, san Bonaventura espone la propria tesi:
l'incarnazione conveniva maggiormente alla persona del Figlio per sei ragioni
appartenenti ad un doppio ordine: quello dell'incarnazione in sé e quello
dell'incarnazione ordinata all'umana redenzione. Esaminiamo in dettaglio queste
motivazioni.
I. Motivi "de ipsa incarnatione in se"
1. L'incarnazione dell'Immagine di Dio.
"In quantum est Imago,
quia homo assumtibilis erat ratione dignitatis imaginis; et quia Filius est
Imago Patris, ideo magis conveniens erat Filii personam assumere
creaturam".
Il primo argomento è un
eccellente campione della forma di pensiero di Bonaventura, in particolare del
suo esemplarismo[40]. Tale concezione metafisica interpreta il
mondo sensibile in funzione di una realtà ideale che ne è il modello e
l'esemplare. Innegabilmente influenzato dalle sue radici platoniche,
l'esemplarismo bonaventuriano si inserisce però in un contesto cristiano. La
creazione viene così distinta dalla generazione. Questa è infatti una
processione ad intra, per la quale il
Logos procede dal Padre come
principiato dal principio, rimanendo nell'unità dell'essenza divina. La
creazione è invece una processione ad
extra, per la quale la creatura procede da Dio come effetto da causa. Esemplare
eterno dell'atto creativo è lo stesso Logos.
Ora, l'uomo, già in
quanto creato e indipendentemente dalla redenzione, è immagine di Dio (Gen 1,
26-27). Ma la funzione che l'uomo svolge nel non-Dio (per anticipare una
terminologia rahneriana), corrisponde ad una funzione che già esiste in Dio, e
compete al Figlio, "immagine del Dio invisibile" (Col 1, 15)[41]. Se dunque Dio si risolve ad autocomunicarsi
immanentemente attraverso l'incarnazione, cioè nella carne dell'uomo -immagine
di Dio ad extra-, tale compito dovrà
spettare a colui che immagine di Dio ad
intra, al Figlio appunto. Attraverso l'incarnazione, il Figlio diviene
pienamente, immanentemente e conclusivamente l'Imago Dei, l'uomo paradigmatico, l'Adamo certior et verior, di cui l'Adamo protoplasto era soltanto
allusione e pegno. La frase che san Giovanni mette sulla bocca di Pilato: "Ecce homo!", diventa così la
proclamazione che nel Verbo incarnato l'uomo e la creazione trovano la loro
compiutezza.[42]
Il Dottore serafico non
sviluppa la motivazione in tutti i suoi aspetti, ma è abbastanza chiaro che
siamo lontani dalla tendenza cripto-nominalista che in precedenza[43] gli ha fatto affermare che -incarnandosi-
Dio avrebbe potuto prendere carne altrimenti che nascendo da una donna. La
stessa tendenza, soltanto cento anni dopo, si sarebbe radicata nella
scolastica, spingendo a sostenere che Dio avrebbe potuto assumere anche una
pietra, se l'avesse voluto, per autocomunicarsi immanentemente nella creazione.
Una tale conclusione sarebbe stata respinta come aberrante da Bonaventura: "Homo assumptibilis erat -infatti- ratione dignitatis imaginis".
2.
L'incarnazione della Parola.
"Rursus, quia Filius Dei
Verbum est Patris, sic procedit ab ipso ut Pater se manifestet per ipsum; et
ideo, sicut ad intentionis manifestationem verbum intelligibile copulatur voci
sensibili, sic ad divinitatis revelationem Verbum Patris congruum fuit uniri
carni".
La Parola di Dio come
mezzo di attuazione della volontà di YHWH è un tema fondamentale in tutto
l'Antico Testamento[44]. Attraverso il suo dabar, Dio fa agire gli angeli (Sal 103, 20), presiede ai cicli
della natura (Sal 147, 18), e guida il corso della storia (Is 24, 3; Ger 39,
16; 44, 29s). Parola e azione sono tra loro strettamente collegate, quasi due
aspetti di una medesima realtà. YHWH si fa conoscere ed agisce attraverso la
sua Parola: agisce manifestandosi, e si manifesta agendo. Il dabar così non è tanto la
somministrazione di una conoscenza, quanto lo strumento attraverso il quale
l'opera salvifica divina si realizza (Ez 12, 25.28). Talvolta la Parola è
personificata, proprio per segnalarne più cospicuamente il carattere dinamico
ed efficace (Sal 119, 89; 147, 15ss; Sap 1, 7). Il suo ruolo attivo è
splendidamente sottolineato nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1, 1
- 2, 4a). Vi si ricollega il Prologo del vangelo giovanneo, che descrive il Logos nell'itinerario storico-salvifico,
conferendo a tale categoria della presenza di Dio l'espressione più compiuta
nell'ambito neotestamentario.
San Bonaventura allinea
l'angolatura di questo secondo argomento a quella del primo ed utilizza il dato
biblico nel contesto dell'analogia psicologica della conoscenza[45].
Prima ancora d'essere
la Parola perché rivelatore del Padre nell'ambito creaturale attraverso la
storia della salvezza, il Figlio è la Parola perché è colui che sorge quando il
Padre dice se stesso, all'interno della Trinità. In Dio infatti il frutto della
conoscenza è sostanziale, è una persona distinta. Il Figlio è tale in quanto
Verbo, perfetta e totale autoespressione del Padre per mezzo della conoscenza.
Se dunque il Figlio, in quanto verbum
mentale, è l'autoespressione del Padre nella vita divina, ne viene
coerentemente che quando il Padre vuole autocomunicarsi nel non-Dio, cioè nella
creazione, dovrà farlo per mezzo di colui che è la sua autoespressione
nell'ambito immanente. Come vi è connessione tra la parola che si forma
nell'intelletto, all'interno della persona, e quella che viene pronunciata in
modo accessibile ai sensi, così dovrà esservi connessione tra il Verbo eterno e
la manifestazione immanente di Dio, nella carne: "sicut ad intentionis manifestationem verbum intellegibile
copulatur voci sensibili, sic ad divinitatis revelationem Verbum Patris
congruum fuit uniri carni". La funzione del Figlio come rivelatore
nell'incarnazione e in tutta la storia della salvezza, affonda dunque la sua
radice nella posizione del Verbo nei rapporti intratrinitari.
Come abbiamo mostrato
illustrando il suo cristocentrismo trinitario, il nostro Autore svilupperà con
maggiore compiutezza in opere successive il ruolo del Verbo increato ed
incarnato in rapporto alla creazione[46], ma il nucleo del suo pensiero è già qui
integralmente contenuto.
3. Il Figlio eterno si
incarna come figlio nel tempo.
"Postremo, quia Filius est
semel genitus ab aeterno et sic congruebat Deum carnem assumere ut esset de
genere hominum, et ita hominis filium, et ideo decebat ipsum magis incarnari
quam Patrem vel Spiritum Sanctum. Et hoc quod dicit Augustinus, in libro De Trinitate[47], et
Magister, in littera, quod Dei Filius «non quaesivit nisi matrem in terris,
quia iam habebat Patrem in caelis»".
Anche il terzo
argomento ricalca la linea dei primi due, legando la missione storico-salvifica
del Figlio alla sua dimensione immanente: a colui che è Figlio unigenito
nell'eternità, spetta farsi figlio nel tempo e nella carne, nascendo da una
donna. L'esclamazione agostiniana, di provenienza omiletica e con una finalità
poetica ed esortativa, viene
utilizzata da san Bonaventura come argomentazione teologica, e
trasferita su un piano metafisico.
I tre motivi sin qui
illustrati, come si è detto inizialmente, trattano dell'incarnazione in sé,
senza riferimento alla caduta dell'uomo. Sappiamo che, quando san Bonaventura,
nello stesso Super Sententias o
ancora nel Breviloquium[48], tratterà direttamente della finalità
dell'incarnazione, inquadrerà il problema in una prospettiva più vicina a san
Tommaso che non al francescano Duns Scoto: l'incarnazione ha una finalità principalmente
redentiva.
Ci lascia stupiti la
risolutezza di tale impostazione, se consideriamo come già nei tre motivi
esposti affiori, sia pure in maniera embrionale, la linea spiccatamente
cristocentrica di cui daranno conto le opere della maturità, allorché,
emancipatosi dalla connessione con il pensiero e soprattutto con la struttura
testuale di Pietro Lombardo, il nostro Autore esalterà liberamente e in tutta
ampiezza il ruolo del Verbo incarnato come mediatore, indipendentemente dalla
necessità di riparare le conseguenze del peccato.
Si potrà allora leggere
che "sicut res exierunt a Deo per
Verbum Dei, sic ad completum reditum necesse est, Mediatorem Dei et hominum
(1Tm 2,5) non tantum Deum esse sed etiam
hominem, ut homines reducat ad Deum"[49]. Ed ancora: "Verbum ergo exprimit Patrem et res, quae per ipsum [Verbum]
factae sunt, et principaliter ducit nos ad Patris congregantis unitatem. Et
secundum hoc est «lignum vitae», quia per hoc medium redimus et vivificamur in
ipso fonte vitae"[50].
Le
affermazioni bonaventuriane sul fine dell'incarnazione, nella formulazione in
cui giacciono, sono ovviamente univoche e intangibili. Ma dobbiamo registrare
anche le affermazioni, che si mostrano aperte ad una prospettiva non
amartiocentrica. Sono ampi spiragli, suscettibili d'essere sviluppati e
organizzati tra loro, che segnalano la compresenza di una tendenza parallela a
quella proclamata ufficialmente dal Dottore serafico, e depongono a favore
della interessante e suggestiva ricchezza del suo cristocentrismo.
II. Motivi "per comparationem ad generis humani
redemptionem".
1. Al Figlio spetta punire e perdonare.
"Si consideremus hominis
lapsum, videbimus quod lapsus fuit appetendo falsam Dei similitudinem et
aequalitatem; et quia Filio primo attribuitur aequalitas, hinc est quod quasi
ex ipso sumsit homo lapsus occasionem; et ideo inde sumere debuit reparationem.
Et hoc dicit Bernardus, explanans illud quod dicitur Ionae 1, 12: Propter me orta est haec tempestas; tollite
me et mittite in mare. Aut certe in hoc quod
homo praesumserat Dei similitudinem, directe contra Filium peccavit; et ideo
Filio magis competebat vindicta et indulgentia"[51].
Il primo motivo
collegato con la redenzione dell'uomo fa riferimento al peccato dei
progenitori. Seguendo il racconto jahvista, questo viene individuato nel
desiderio di "diventare come Dio" (Gen 3,5), di conseguire la
somiglianza e l'uguaglianza con lui. Più esattamente, il peccato sta nel modo
in cui si giunge a tale condizione. Dio stesso, infatti, ha posto nell'uomo
tale desiderio, creandolo "a sua immagine e somiglianza" (Gen 1, 26),
e dunque la realizzazione della vocazione creaturale umana dovrà consistere nel
compiere tale desiderio. Tuttavia, ciò deve avvenire nella verità
dell'obbedienza, nel libero riconoscimento della propria dipendenza creaturale,
nell'accoglienza umile del dono, e non nel segno della ribellione,
dell'appropriazione violenta: questa sarebbe una falsa somiglianza. Ora, il
peccato si radica proprio nell'appetere una
falsam similitudinem et aequalitatem.
A questo punto, san
Bonaventura intreccia il piano biblico con quello ontologico, e associa
l'uguaglianza dell'uomo con Dio, di cui parla il libro della Genesi,
all'uguaglianza intradivina fra le persone del Padre e del Figlio. Nella
condizione del Figlio, il quale gode per natura di quella uguaglianza col
Padre, cui l'uomo ha cercato di pervenire per via della disobbedienza, il
peccato dell'origine trova in un certo senso l'occasione. Infatti, "aequalitas Filio primo
attribuitur". Dunque, poiché la distruzione è connessa alla condizione
del Figlio, compete al Figlio anche la riparazione.
Inoltre, per lo stesso
motivo, la caduta dell'uomo è stata un'offesa rivolta in modo speciale contro
il Figlio, consistendo quasi nel tentativo di usurpare ciò che gli è precipuo.
Essendo il Figlio la parte lesa, è titolare di un diritto a vendicare l'offesa
ricevuta. In quanto tale, però, gli spetta anche il diritto di astenersi dalla
vendetta delle sue ragioni, usando misericordia verso l'uomo e rinunciando alla
soddisfazione del suo credito. Si respira qui il clima giuridico che vige in
buona parte del Cur Deus homo di
Anselmo d'Aosta, donde l'argomentazione proviene[52].
2.
Al Figlio spetta obbedire ed intercedere.
"Rursus, si consideremus
modum reparationis, magis competit Filio. Reparati enim sumus per mediatoris
obedientiam et supplicationem; et quia magis competit filium supplicare patri
et obedire, hinc est quod magis competit personae Filii incarnari quam alii[53]".
Anche la seconda
motivazione si allaccia al trattato di sant'Anselmo e si concentra sui canali
attraverso i quali si è compiuta di fatto la riparazione: l'obbedienza e la
intercessione. Sono aspetti di cui dà conto il Nuovo Testamento. Pensiamo, ad
esempio, per quanto concerne l'obbedienza, alla scena del Getsemani (Mt
26,36-46) o all'inno cristologico di
Fil 2,6-11, specialmente il v. 8, ove la sottomissione culmina nella
morte in croce. Per ciò che attiene alla supplica, si veda invece Eb 5,7-10, in
cui si descrive la passione come un sacrificio intessuto di umile implorazione
e di amorosa fedeltà al disegno divino.
Poiché intercessione e
obbedienza denotano indubbiamente un atteggiamento di dipendenza nei confronti
di colui al quale la richiesta è indirizzata, ecco allora apparire più adeguata
all'incarnazione, dato il modo in cui essa doveva svolgersi, la persona del
Figlio, a rispecchiare nel tempo e nell'umanità la posizione sotto un certo aspetto subordinata del
Generato rispetto all'Ingenerato.
3.
Al Figlio spetta renderci partecipi del rapporto con il Padre.
"Postremo, si consideremus
reparationis fructum vel effectum, magis competebat Filio incarnari, quia
incarnatio ad hoc ordinatur ut simus filii Dei. Si ergo posterius per illud
habet reduci quod est prius in eodem genere, congruum fuit ut filii Dei
efficeremur per eum qui est flius naturalis[54]".
Infine un motivo che
considera l'incarnazione dal punto di vista del frutto, l'adozione a figli.
Anche stavolta i riferimenti biblici sono numerosi. Tra i tanti, basti citare
il cap. 8 della Lettera ai Romani o il cap. 4 della Lettera ai Galati.
Notiamo che il nostro
Autore, molto perspicuamente, si esprime in categorie personali. Dal IV secolo
in poi, infatti, si diffonde nella teologia un linguaggio che esprime lo stesso
contenuto, ma in termini impersonali, con il rischio di scivolare in una
teologia neutra dell'incarnazione. Sarà usuale dire che Dio si è fatto uomo per
la nostra divinizzazione. Bonaventura invece, almeno nel brano in esame,
sottolinea che ad incarnarsi è stata la persona del Figlio, e che la
divinizzazione consiste precisamente nell'essere cooptati all'interno del
rapporto che lega il Figlio al Padre, nel diventare figli nel Figlio, godendo
per via di adozione di quanto al Figlio spetta per natura, contemplando non una
generica essenza divina, ma appunto il Padre.
"L'adozione è
dunque davvero in noi il corrispondente di ciò che l'incarnazione è nel Cristo.
L'incarnazione è la nostra adozione in quanto fondata nel Cristo e, da questo
punto di vista, è nostra adozione a sua volta l'incarnazione di Cristo in
quanto operante in noi"[55].
Dinanzi alla
dichiarazione tanto esplicita "incarnatio
ad hoc ordinatur ut simus filii Dei", non possiamo non sottolineare
nuovamente che la dottrina cristologica di san Bonaventura è molto più aperta e
complessa di quanto sembrerebbe doversi dedurre dal tenore esplicito della sua
risposta alla domanda sulla finalità dell'incarnazione. Muovendosi dal medesimo
suo patrimonio cristocentrico, ma in rapporto ad un altro contesto di
sollecitazioni culturali, avrebbe il Dottore Serafico offerto una risposta più
vicina alla sensibilità odierna? Ci piace pensarlo.
4. Conclusioni
È terminato l'esame
delle motivazioni con cui san Bonaventura risponde al quesito che è oggetto
della nostra indagine: perché, fra le tre persone della Trinità, è stato il
Figlio a farsi uomo? La risposta del teologo francescano è indubitabile: si è
trattato di mera convenienza. Era più congruo che diventasse uomo il Figlio,
per ragioni attinenti all'essenza dell'incarnazione e alla sua finalità nei
confronti del genere umano. Ma si tratta sempre e soltanto di congruenza. La
seconda persona era più idonea, ma niente si sarebbe potuto opporre a che anche
il Padre o lo Spirito prendessero carne umana.
San Bonaventura,
pronunciatosi sulla questione da giovane baccelliere sentenziario, non vi
ritornerà più nelle opere della maturità che affrontano il mistero trinitario,
come nella sintesi del Breviloquium,
nelle Collationes in Hexaemeron, o
nelle Quaestiones disputatae de mysterio
Trinitatis. L'argomento, qui, non è neppure sfiorato.
Che dire della
soluzione del problema offerta da Bonaventura?
Come preliminare, ci
sembra imprudente l'inversione tra
le due questioni in cui il problema si sdoppia, rispetto all'ordine di Pietro
Lombardo. Il Maestro delle Sentenze, infatti, si chiede prima quae trium personarum fuerit ad
incarnationem magis idoneam, e successivamente utrum quaelibet trium personarum possit incarnari per se ipsam.
Bonaventura invece inverte l'ordine, trattando la questione ipotetica e poi la
questione legata all'ordine positivo in cui si è svolta la storia della
salvezza.
In secondo luogo, si
respira una certa contraddittorietà tra le argomentazioni usate per risolvere
la questione ipotetica e quella positiva. Nell'una si usano solo -e non
potrebbe essere diversamente- argomenti di ragione, e compaiono nozioni
filosofiche che, venendo impiegate in una prospettiva a priori, conducono ad una teologia neutrale della creazione. Si fa
riferimento ad una distantia verso la
creatura che è la stessa per le tre persone della Trinità, e si afferma che il
Figlio in quanto tale non ha uno speciale rapporto con la creazione. Si
affaccia una inclinazione nominalista nel sostenere che Dio si sarebbe potuto
incarnare in altro modo che nascendo da una donnna, nel distinguere tra potentia Dei absoluta e potentia Dei ordinata, tra ciò che in
Dio è conveniente per ipsum e ciò che è conveniente quoad nos. Viceversa nelle
argomentazioni impiegate per risolvere la seconda questione, si sviluppa la
fisionomia della seconda persona come Immagine, come Verbo e come Figlio, e il
suo ruolo di medio nella Trinità e di mediatore con la creazione,
sottolineandosene la funzione rivelativa con una chiarezza tale che, sebbene
non affermato esplicitamente, sembrerebbe che l'incarnazione del Padre o dello
Spirito Santo, per quanto intrinsecamente non impossibile, apparirebbe tuttavia
priva di senso.
Perché dunque il
Dottore Serafico difende la tesi della possibilità della incarnazione della
prima o della terza persona della Trinità, ma spinge a dedurre che ha un senso
solamente il farsi uomo del Verbo?
Né si incontrano altre
risposte presso gli altri medievali[56]. Se si scorrono le pagine dei commenti alle
Sentenze di Alberto Magno[57], Alessandro di Hales[58], Tommaso d'Aquino[59], Riccardo da Middletown[60], Egidio Romano[61], Dionigi di Rijkel[62], non troveremo impostazioni o soluzioni
diverse. Quale la ragione di ciò?
Sullo sfondo c'è
certamente la preoccupazione di salvaguardare la libertà divina, evitando ogni
sorta di costrizione nell'azione di Dio e lasciando intatto il mistero della
sua autocomunicazione nell'amore. La possibilità e l'impossibilità in Dio -ci
direbbero i teologi del secolo XIII e ancor più del secolo successivo- sono al
di sopra degli argini che vorrebbe edificare la ragione umana. Ma -viene da
obbiettare- ciò può portare anche ad ignorare gli argini che la ragione
rintraccia nella Rivelazione?
Ma la ragione
principale è che, date le premesse metodologiche di Bonaventura e degli altri
medievali, non si poteva sfociare in un esito diverso. Abbiamo affermato
nell'introduzione alla nostra ricerca che il Cur Filius homo presenta interesse non tanto come theologoumenon in sé considerato, quanto
soprattutto come un test dal quale si
può misurare il grado di unità tra Trinità immanente e Trinità economica in un
sistema teologico. Ora, nel pensiero dei medievali tale grado è molto basso.
Si consideri che il trattato
De Deo uno precede sistematicamente
il De Deo trino, sviluppando
considerazioni valide ma su un piano pre-teologico intorno ad un Dio che è
ancora soltanto il Dio dei filosofi, e non il Dio di Gesù Cristo, il Dio che si
fa conoscere non per attributi ma i suoi atteggiamenti e il suo coinvolgimento
nella storia umana.
Si può anche ricordare
che Pietro Lombardo espone la dottrina della Trinità nel primo libro delle
Sentenze, e l'incarnazione nel terzo. Egualmente san Bonaventura nel Breviloquium e san Tommaso nella Summa trattano della Trinità immanente preponendola a quella dell'incarnazione. Certamente,
nell'ordine che potremmo definire reale, la Trinità sta prima
dell'incarnazione, esistendo a prescindere dalla creazione e da ogni forma di
rivelazione. Ma seguendo l'ordine dela rivelazione, l'ordine che potrebbe dirsi
epistemologico, la dottrina della Trinità immanente dovrebbe seguire quella
della Trinità economica, e questa dovrebbe seguire la cristologia dal basso.
Nulla infatti conosceremmo del mistero trinitario se non ci fosse l'umanità di
Cristo a manifestarcelo. In ogni caso i due misteri, e insieme i misteri
dell'uomo, della Chiesa, del Regno, debbono essere considerati in un fortissimo
intreccio, in continua pericoresi tra loro, per così dire. Dedicheremo a tale
problematica l'ultimo capitolo della ricerca.
Desideriamo chiudere la
finestra dalla quale ci siamo affacciati sul secolo XIII, e in particolare su
san Bonaventura, ribadendo che, data la mancanza d'unità fra Trinità immanente
ed economica, l'impostazione del Cur
Filius homo non poteva condurre ad un esito diverso da quello esaminato. La
risposta ci appare un po' deludente e tuttavia, come sarebbe assurdo
rimproverare ad un triangolo il fatto di avere tre lati, così non dobbiamo obbiettare
al Dottore serafico di essere un medievale e di essersi mosso in un Sitz-im-Leben che è diverso dal nostro.
Segnaliamo sì le incongruenze che nel pensiero bonaventuriano sono determinate
da una impostazione che oggi non è più accettabile, ma senza rinunciare agli
stimoli preziosi di un patrimonio tuttora vitale e ricco di intuizioni valide,
se utilizzate in un ambito metodologico corretto ed aggiornato.
[1] Per una introduzione sulla cultura teologica nel
secolo di san Bonaventura, v. M. D. Chenu,
La teologia come scienza nel XIII secolo,
Milano 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale, 2 voll., Milano
1986-1988; E. Vilanova, Storia della teologia cristiana, I, Roma 1991, 482-516.
[2] V. più approfonditamente C. Bianchi - E. Randi, Le
verità dissonanti. Aristotele alla fine del Medioevo, Bari 1990; M. Grabmann, I divieti ecclesiastici di Aristotele sotto Innocenzo III e Gregorio IX,
Roma 1941.
[3] Seguiamo nell'esposizione P. Gilbert, Introduzione
alla teologia medievale, Casale Monferrato 1992, 118-125.
[4] Pietro
Lombardo, Sententiae in IV Libris
distinctae, Grottaferrata 19713.
[5] Cf. A. Gambaro,
Il valore dell'opera di Pietro Lombardo,
in: AA.VV. Miscellanea lombardiana,
Novara 1957, 5-10; L. Ott, Pietro Lombardo: personalità e opera, ivi, 11-14.
[6] I due vengono affiancati da Dante nel Paradiso:
"L'altro ch'appresso adorna il nostro coro/ quel Pietro fu che con la
poverella/ offerse a Santa Chiesa il suo tesoro" (Dante Alighieri, Paradiso,
X, 106-108).
[7] Hanno composto commenti alle sentenze, tra gli altri,
Pietro di Poitiers, Alberto Magno, Alessandro di Hales, Tommaso d'Aquino,
Giovanni Duns Scoto, Riccardo da Middletown, Egidio Romano, Dionigi di Rijkel.
[8] Per più dettagliate
indicazioni biografiche cf. R. Manselli
- T. Gregory, Bonaventura da Bagnoregio, in: Dizionario biografico degli italiani, XI, Roma 1969, 612-630; G. Abate, Per la storia e la cronologia
di S. Bonaventura, OM, in: "Miscellanea Franciscana" 49 (1949),
534-568; 50 (1950) 97-1930.
[9] Bonaventura da
Bagnoregio, Legenda minor,
VII. Ove non consti altrimenti, citeremo le fonti bonaventuriane dall'edizione
critica delle Opera omnia, pubblicata
in 10 volumi a Quaracchi dal 1882 al 1902.
[10] V. l'Opera
omnia pubblicata a Quaracchi in dieci volumi, dal 1892 al 1902. Ove non
consti altrimenti, citeremo le fonti bonaventuriane da questa edizione. È in
corso inoltre, a cura di J. G. Bougerol
- C. Del Zotto - L. Sileo l'edizione latino-italiana, Roma 1990ss., di
cui sono usciti finora quattro volumi.
[11] V. J. G. Bougerol, Introduzione a san Bonaventura, Vicenza 1988, 45-128.
[12] Un approfondimento a parte meriterebbe il confronto
con Aristotele, che Bonaventura conosce, ma al quale non attribuisce autorità
nell'ambito specificamente cristiano. Cf. L.
Elders, Les citations d'Aristote dans le «Commentaire»
sur le Sentences de saint Bonaventure, in: AA. VV., San Bonaventura maestro di vita francescana e di sapienza cristiana,
I, 831-842.
[13] Cf. il giudizio di R.
Guardini, Die Lehre des hl.
Bonaventura von der Erlösung, Düsseldorf, 1921, 186: "[Bonaventura]
ist Logiker, aber auch Künstler, ein Arkiteckt des Gedankes und Meister des
Ausdrucks".
[14] Per la
teologia e la cristologia sanfrancescana, v. N. Nguyên-van-kahn, Le
Christ dans la pensée de saint François d'Assise d'après ses écrits, Paris
1989; A. Rotzetter, Gott
in der Verkündigung des Franz von
Assisi, in: E. Covi (ed.), L'esperienza di Dio in Francesco d'Assisi,
Roma 1982, 40-76. Su san Bonaventura, AA. VV., San Bonaventura francescano, Todi 1973.
[15] É. Gilson,
La Philosophie de saint Bonaventure, Paris 1953³; AA.
VV., Teologia e Filosofia nel pensiero di
S. Bonaventura, Brescia 1974.
[16] Bonaventura da
Bagnoregio, Sermo "Christus
unus omnium magister", 15.
[17] J. G. Bougerol, Introduzione a san Bonaventura, cit., 196.
[18] Bonaventura da
Bagnoregio, Itinerarium mentis in
Deum, VII, 6.
[19] R. Guardini,
Die Lehre des hl. Bonaventura von der
Erlösung, cit.; A. Gerken, Theologie des Wortes. Das Verhältnis von Schöpfung und Inkarnation bei
Bonaventura, Düsseldorf 1963; C.
Bigi, Il cristocentrismo nelle
Conferenze sull'Hexaemeron di s. Bonaventura, in: "Incontri
bonaventuriani", 3 (1967), 71-96.
[20] H. U. von
Balthasar, Gloria. Una estetica
teologica, II, Stili ecclesiastici.
Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Milano 1978, 263.
[21] Bonaventura da
Bagnoregio, Collationes in
Hexaemeron, IX, 2.
[22] Bonaventura da
Bagnoregio, De Reductionem artium
ad theologiam, 12: "a summo
Opifice nulla creatura processit nisi per Verbum aeternum, «in quo omnia
disposuit», et per quod prduxit non solum creaturas habentes rationem vestigii,
sed etiam imaginis, ut eidem assimilari possint per cognitionem et
amorem".
[23] P. Botte, Cristo mediatore in s. Bonaventura, in:
"Incontri bonaventuriani", 3 (1967), 71-96.
[24] Cf. Bonaventura
da Bagnoregio, In Sententias,
d. 19, a. 2, q. 2.
[25] Cf. N.
Simonelli, Doctrina
christocentrica Seraphici Doctoris s. Bonaventurae, Iesi 1958, 116.
[26] Bonaventura da
Bagnoregio, Collationes in
Hexaemeron, I, n.11.
[27] Bonaventura da
Bagnoregio, Collationes in
Hexaemeron, III, 2.
[28] Cf. I. Brady,
The edition of the Opera Omnia of saint
Bonaventure, in: Il Collegio
"San Bonaventura" di Quaracchi, Grottaferrata 1977, 133-134.
[29] Citiamo dall'edizione critica inserita dagli editori
di Quaracchi nello Spicilegium
Bonaventurianum, Grottaferrata 1971-81.
[30] Pietro
Lombardo, Sententiae, III, d.
1., cap. 2: "Sicut enim Filius homo factus est, ita Pater vel
Spiritus Sanctus potuit et potest".
[31] Qui troviamo anche la seconda quaestio, dedicata al motivo della incarnazione: "quae fuerit incarnationis ratio
praecipua". Alla posizione di Bonaventura, più vicino a Tommaso che
non a Duns Scoto, abbiamo accennato nel primo capitolo della dissertazione. Vi
torneremo di passaggio in seguito.
[32] Bonaventura da
Bagnoregio, In Sententias,
III, d. 1, a. 1, q. 4.
[33] Anselmo
d'Aosta, Cur Deus homo, II, 9.
[34] Bonaventura da
Bagnoregio, loc. ult. cit.
[35] "Unde
sicut concedimus de aliquo malo potest Deus facere illud, pro eo quod illud
potest bene fieri, sicut est malum in se; de aliquo vero non, quod est secundum
se malum, quod nullo modo potest bene fieri: sic etiam in proposito est
intelligendum, cum dicitur quod quodlibet inconveniens in Deo est
impossibile".
[36] Viene citata l'affermazione di Agostino d'Ippona, In Johann. , 40, 6: "Filio
ergo missio est ipsa incarnatio".
[37] Bonaventura da
Bagnoregio, op. loc. cit.
[38] Bonaventura da
Bagnoregio, In Sententias,
III, d. 1, a. 2, q. 3.
[39] L'Autore fa rinvio a d. 4., I a. 1, q. 1.
[40] Cf. L. Veuthey,
La filosofia cristiana di san Bonaventura,
Roma 1971, spec. 70ss.
[41] C. Del Zotto,
La teologia dell'immagine in san
Bonaventura, Vicenza 1977.
[42] Cf. T. Szabo,
Homo imago Christi, Christus imago Dei.
Principia s. Bonaventurae pro anthropologia in Christo instauranda, in: AA.
VV., S. Bonaventura 1274-1974, IV,
Grottaferrata 1973, 329-347.
[43] In Sententias,
III, d. 1, a. 1, q. 4.
[44] H. Schlier,
Elementi fondamentali di una teologia
neotestamentaria della Parola di Dio, in:
La fine del tempo, Brescia 1974; R. Bultmann, Il concetto di Parola di Dio nel NT, in: Credere e comprendere, Brescia 1977.
[45] Cf. A. Gerken,
Theologie des Wortes. Das Verhältnis von
Schöpfung und Inkarnation bei Bonaventura, cit.
[46] Ad es. in Breviloquium,
II, 1, e nelle Collationes in Hexaemeron.
[47] Agostino
d'Ippona, De Trinitate, II, 5,
8.
[48] Bonaventura da
Bagnoregio, Super Sententias,
III, d. 1, a. 2, q. 2; Breviloquium, IV, 1.
[49] Bonaventura da
Bagnoregio, De Reductione artium
ad theologiam, 23. V. anche Collationes
in Hexaemeron, III; Itinerarium
mentis in Deum, IV, 3.
[50] Bonaventura da
Bagnoregio, Collationes in
Hexaemeron, I, 12.
[51] Il testo continua con una citazione da Anselmo d'Aosta, Cur Deus homo, II, 9: "Homo,
pro quo erat oraturus, et diabolus, quem erat expugnaturus, ambo falsam Dei
similitudinem praesumserant. Unde specialius adversus Filium peccaverunt. Illi
itaque, cui specialiter fit iniuria, convenientius attribuitur culpae vindicta
et indulgentia".
[52] Cf. più dettagliatamente il primo paragrafo del primo
capitolo di questa dissertazione.
[53] Anselmo
d'Aosta, Cur Deus homo, II, 9:
"Convenientius sonat Filium
supplicare Patri quam aliam personam".
[54] Si cita Agostino
d'Ippona, De Trinitate, XX,
27: "Ut homo ex Deo nasceretur,
primo ex ipsis natus est Deus. Oportuit enim ut per eum efficeremur filii
adoptivi qui est filius naturalis".
[55] Così G.
Martelet, citato in J. Dupuis,
Gesù Cristo incontro alle religioni,
cit., 136.
[56] Accenni alla questione si trovano già in Agostino d'Ippona, De Trinitate, II, 5; IV, 20; XIV, 18; XV, 11. Cf. anche Anselmo d'Aosta, Cur Deus homo, II, 9.
[57] Alberto Magno,
Super Sententias, III, d. 1, cc. 1s.
[58] Alessandro di Hales,
Summa Theologiae, III, q. 2, t. 1, d.
2, m.1, c. 4.
[59] Tommaso
d'Aquino, Super Sententias,
III, d. 1, q. 2, a. 2. Cf. anche Summa
Theologiae, III, q. 3, a. 8, e Summa
contra gentiles, IV, c. 42.
[60] Riccardo da
Middletown, Super Sententias
quaestiones subtilissimae, III, d. 1, a. 2, q. 3.
[61] Egidio Romano,
Super Sententias, III, q. 2, a. 4.
[62] Dionigi di Rijkel, Super Sententias, III, d. 1, q. 3.