Capitolo
Quarto
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UN THEOLOGOUMENON
ANTIQUATO?
I. BILANCIO DI UN ITINERARIO
Siamo al termine
dell'esplorazione che abbiamo condotto attorno al motivo per cui s'è fatto uomo
proprio il Figlio. È stato un indagare sul mistero dell'incarnazione,
considerandolo non dal basso, come
ordinariamente avviene, cioè dal punto di vista dell'uomo, ma dall'alto, dal punto di vista della
Trinità. Giunti a questo limite dobbiamo però domandarci: ne è valsa la pena? o
il "cur Filius homo"
rappresenta solo un theologoumenon antiquato, interessante ormai per
l'archeologia teologica, ma senza alcun addentellato con problematiche attuali?
Non è certo, infatti, una questione che goda di molta popolarità. Nei manuali
di dottrina cristologica o di dottrina trinitaria solo talvolta vi si trova un
fuggitivo accenno, e perloppiù in connessione col Grundaxiom di Rahner. Nei testi magisteriali non ci consta che la
questione sia mai stata direttamente oggetto di un pronunciamento. Anche nel Catechismo[1] di recente pubblicato invano cercheremmo un
accenno al nostro tema specifico. Dunque, vale la pena di chiedersi, oggi,
"cur Filius homo?"
Ebbene, senza volerne
ampliare artificialmente l'importanza, crediamo che l'interrogativo oggetto della
nostra ricerca conservi tuttora una sua rilevanza, quanto al contenuto e quanto
alle implicazioni di metodo.
Quanto al contenuto,
perché lo studio del mistero dell'incarnazione non sarebbe completo senza
rispettare entrambe le sue dimensioni, quelle che potremmo chiamare ascendente e discendente. Se infatti è vero, come affermavamo concludendo il
primo capitolo, che la questione sul senso del Cristo nel piano divino
costituisce il necessario coronamento di ogni cristologia, allora è ineludibile
dal frutto risalire alla radice, interrogandosi in primo luogo sui benefici
portati dall'autocomunicazione immanente del Verbo, ma poi innalzando per
quanto possibile lo sguardo sulla sua provenienza, sulla origine eterna di Gesù
di Nazareth, e dunque in definitiva sulla Trinità. In una parola, far emergere
il rapporto fra l'incarnazione e le persone divine rimane sempre un passaggio
obbligato per chi vuol presentare il mistero di Cristo.
Ma c'è un obbiettivo
ulteriore che intendevamo cogliere attraverso la nostra ricerca. Un obbiettivo
di natura metodologica. Nell'introduzione sostenevamo che formulare la domanda
sul motivo per cui proprio il Figlio si è incarnato, e non il Padre o lo
Spirito, significa sottoporre un sistema teologico ad un test in grado di verificarne il grado di sensibilità al nesso fra
Trinità economica e Trinità immanente. Infatti, come s'è visto nel secondo
capitolo, i medievali avevano bensì sviluppato una speculazione elevatissima
sulla dinamica intratrinitaria in rapporto all'incarnazione, ma non erano
riusciti ad oltrepassare la soglia della mera congruenza, affermando inoltre a
chiare lettere la possibilità effettuale dell'incarnazione anche per il Padre e
per lo Spirito. Perché una tale soluzione, che delude -se si considera l'alto
livello qualitativo della riflessione- e lascia una sgradevole sensazione di
contraddittorietà ed incompiutezza? La causa, sulla scorta della lezione di
Karl Rahner, ci è sembrata congiunta con l'impostazione risalente già a Pietro
Lombardo. Questi colloca nel libro primo delle sue Sententiae la dottrina su Dio uno e trino e sugli attributi divini,
e solo nel terzo s'occupa della incarnazione. Il discorso su Dio in sé viene
svolto prima e sotto certi aspetti indipendentemente dall'unica fonte di ogni
possibile di tale discorso, cioè dalla Rivelazione, che culmina
nell'incarnazione del Verbo. Nell'impostazione medievale, che segue l'ordine
"reale" e non l'ordine "economico", il collegamento tra
Trinità economica e immanente non è sufficientemente rigoroso. Dunque il "cur Filius homo" è un problema di contenuto che coinvolge
anche l'assetto ermeneutico di un sistema teologico.
Per tale motivo a
conclusione desideriamo fissare schematicamente alcuni principi, in forma di
corollari. Essi sono una diretta efflorescenza della soluzione offerta al
problema oggetto dell'indagine[2].
II. QUATTRO COROLLARI METODOLOGICI
a. La dimensione personale-trinitaria della cristologia
La teologia patristica
più antica ha una ben marcata impronta trinitaria. Gesù di Nazareth è il Verbo
incarnato. Il frutto della sua autocomunicazione consiste nella cooptazione nel
suo rapporto filiale con Dio il Padre, grazie allo Spirito effuso nel cuore
dell'uomo. La realtà che si vive al presente nella grazia è la medesima che si
sperimenterà nella gloria[3]. Più tardi tale impronta, senza del tutto
scomparire, si appanna tuttavia considerevolmente. Non si parla più di
condivisione del rapporto filiale con il Figlio eterno, ma di divinizzazione
dell'uomo, e di partecipazione alla natura divina. La visione dei beati si
separa dall'umanità del Verbo glorificato[4], e diventa la visione di una generica
essenza divina. Si arriverà così nel tempo alle incongruenze indicate da K.
Rahner, già esposte nel terzo capitolo, circa la "neutralità" della
teologia della incarnazione, della grazia, dei sacramenti, della preghiera,
dell'escatologia. Ora, il "cur
Filius homo" ci insegna che una cristologia astratta del Dio-uomo è
assolutamente inaccettabile. L'unica autentica è quella del
Figlio-di-Dio-fatto-uomo-nella-storia[5].
b. Il trattato De Deo uno
Già nell'opera di
alcuni Padri greci, ad esempio in Origene, si può trovare una trattazione della
dottrina di Dio in sé esposta prima della dottrina trinitaria, così che la qeologia
precede l'oikonomia. Ma è soprattutto col Medioevo, dopo Pietro Lombardo, che
si antepone sistematicamente la trattazione sulla natura divina comune a tutte
e tre le persone alla trattazione della dottrina trinitaria in senso stretto.
Si tratta di una scelta di campo, nel senso che si adotta lo schema trinitario
latino a preferenza dello schema greco, più antico e più conforme al Nuovo
Testamento. Si radica l'unità tra le persone nella comune essenza, anziché nel
Padre, l'Ingenerato, colui che è o autoqeos. Si presenta Dio a partire dai suoi
attributi, ma prescindendo dai suoi atteggiamenti, con la conseguenza che se il
dato della Rivelazione attesta un evento che contrasta con qualcuno di tali
attributi divini, debbono compiersi sforzi esasperati per salvare entrambe le
prospettive, col rischio però di giungere a svuotare di fatto il patrimonio di
dati vitali che Dio stesso ci ha comunicato su di sé e sulla propria realtà. È
quanto accaduto ad esempio a riguardo dell'incarnazione in rapporto con
l'attributo dell'immutabilità e a riguardo della croce in rapporto con
l'attributo dell'impassibilità. Si tratta insomma di un discorso di tipo
prevalentemente filosofico, sebbene talora con addentellati biblici[6].
Un tale approccio al
mistero di Dio è legittimo? Sì, ma a due condizioni: (a) che si evidenzi
chiaramente il suo carattere
pre-teologico e (b) che la
Rivelazione non venga condizionata
dall'idea di Dio che un particolare sistema filosofico elabora indipendentemente
dalla storia della salvezza. Dio è così come egli si è fatto conoscere nella
storia della salvezza, nel suo impegno verso l'uomo. Se vi è contrasto tra le
proposizioni filosofiche su Dio e ciò che egli di sé ci ha manifestato nei suoi
atteggiamenti e negli eventi dell'economia, sarà necessario ripensare le
proposizioni filosofiche alla luce della Rivelazione, e non certamente
sacrificare questa a quelle.
c. La collocazione del De
Trinitate
Conseguentemente a ciò,
quale posto dovrebbe avere il trattato sulla Trinità nell'insegnamento
teologico? Si registrano al proposito fondamentalmente due tipi di opzioni.
I medievali, come
abbiamo già indicato parlando di Pietro Lombardo, condizionati dalla
impostazione del Maestro delle Sentenze, collocano il De Trinitate immediatamente all'inizio delle loro trattazioni. Ad
esempio san Tommaso premette nella Summa
il "De Deo uno et Trino" per giungere attraverso alla
antropologia finalmente alla
incarnazione. La Trinità è presentata in se stessa, nella sua immanenza, senza
considerare che essa ci viene rivelata soltanto a partire da Gesù di Nazareth.
Anche la dottrina della creazione, della grazia e dell'escatologia precedono la
cristologia, e ciò si spiega col fatto che l'evento-Cristo nella linea tomista
è visto principalmente in funzione della redenzione.
In qualche modo nella
stessa linea, tra le opere recenti, il Mysterium
Salutis[7]. Anche W. Kasper afferma che la dottrina
trinitaria va posta all'inizio di tutta la teologia costituendone la
grammatica, non però in modo da lasciare la dottrina stessa in uno
"splendido isolamento" nello svolgimento successivo dei trattati,
bensì come la tematizzazione di un contenuto che rappresenta poi lo sfondo e
quasi il Leitmotiv di tutti i
successivi trattati[8].
All'opposto si registra
la scelta di chi ritiene invece la dottrina trinitaria come la somma di tutta
la teologia, e dunque coronamento che va posto a concludere l'intera
esposizione dei misteri rivelati. Troviamo tale impostazione applicata dal Catechismo della Chiesa olandese[9] o dall'opera collettiva Iniziazione alla pratica della teologia[10].
Che dire delle due
opzioni? Entrambe hanno aspetti vantaggiosi ma presentano anche inconvenienti.
Anteporre la trattazione della Trinità a tutti gli altri trattati reputandola
la somma, significa valorizzare l'ordine reale e mettere in evidenza che la
Trinità esiste indipendentemente dalla sua rivelazione. Posporne d'altro canto
la trattazione al termine come il coronamento, significa rispettare l'ordine
economico e sottolineare che non abbiamo alcuna conoscenza del Dio unitrino se
non a partire da Gesù Cristo.
Per parte nostra,
propendiamo per una sorta di circolo
completo. Occorrerebbe cioè saldare tra loro cristologia e dottrina
trinitaria, partendo dall'umanità di Gesù come dalla fonte da cui ci è dato
accesso al mistero di Dio. È infatti nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti,
nell'intimità che egli manifesta nei confronti del Padre, che possiamo cogliere
il riflesso e il prolungamento della sua figliolanza divina. Nell'umanità del
Verbo incarnato, nel dispiegarsi dell'evento Natale-Pasqua-Pentecoste, si
rivela la Trinità. Dall'economia è poi possibile innalzarsi verso l'immanenza,
da ciò che il Dio unitrino è per noi risalire a ciò che egli è in sé. Alla luce
infine di tali acquisizioni, si può infine tratteggiare l'identità ontologica
di Gesù. Il circolo sarebbe pertanto schematizzabile nel modo seguente: cristologia
dal basso
Trinità economica
Trinità immanente
cristologia dall'alto.
d. La pericoresi fra i trattati della dommatica
Se dunque il punto di
partenza della riflessione sulla fede deve essere la rivelazione del Dio
unitrino, si comprende anche che il centro gravitazionale dell'intero sistema
teologico dovrà essere il mistero del Verbo incarnato. Alla luce del
cristocentrismo trinitario dovranno essere affrontati anche i contenuti
ulteriori del cristianesimo. Anzi da questo cuore cristocentrico dovrà avviarsi
un movimento di vera e propria "pericoresi" fra i trattati della
dommatica[11].
Ciò vale anzitutto per
l'ecclesiologia. La Chiesa è stata
infatti definita dalla Lumen Gentium "sacramento
universale di salvezza" (n. 48), "segno e strumento dell'intima
unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (n.1). Ma la
categoria di "sacramento" può applicarsi alla chiesa solo in senso
derivato, in dipendenza cioè dall'Ursakrament,
il sacramento primordiale dell'incontro con Dio, che è Gesù stesso. La Chiesa
non è una realtà autosufficiente ma relativa. È sacramento di Cristo ed icona
della Trinità[12].
Anche per l'antropologia deve sottolinearsi, in modo
più netto di quanto non sia avvenuto in certa teologia scolastica, come tra
l'uomo e Cristo sussista un legame strettissimo, non derivante dal peccato ma
risalente al momento stesso della creazione, così che
"in
realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè
Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del
Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la
sua altissima vocazione"[13].
Analoghe conclusioni
vanno tratte per la protologia, la
dottrina della grazia, l'escatologia, i
sacramenti[14].
Se
dunque il centro gravitazionale della riflessione è il mistero di Cristo
collocato nel quadro trinitario, si comprenderà allora che tra i trattati debba
stabilirsi in rapporto di mutua compenetrazione, di pericoresi appunto, che
mostri in una prospettiva integrale l'intima connessione di tutti i misteri
della fede. Anzi a ben vedere, come sottolinea W. Kasper, il cristianesimo è
altro che un arcipelago di verità da tenere artificialmente legate fra di loro.
Essenzialmente v'è un'unica verità,
un'unica realtà soteriologica:
"Dio
e la sua volontà di salvezza per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito santo. Un
mistero unitrino che si può sviluppare in tre misteri: la sostanza unitrina di
Dio, l'incarnazione di Dio in Gesù Cristo, la salvezza dell'uomo nello Spirito
santo, quella che sarà completa nel tempo escatologico, quando contempleremo
Dio faccia a faccia (...). La Trinità è il mistero in tutti i misteri, il
mistero della fede cristiana semplicemente"[15].
III. CONCLUSIONE
Non è forse quella
adottata la parola più adatta per definire l'ultima pagina della nostra
ricerca.
Abbiamo affrontato un
tema inconsueto, e nell'esplorare le soluzioni adottate in due secoli così
distanti tra loro come il XIII ed il XX, da due teologi così diversi tra loro
come san Bonaventura e Karl Rahner, ci siamo accorti che porre l'interrogativo
sui motivi per cui si è incarnato proprio il Figlio, significa in realtà
indagare sul nesso fra Trinità immanente e Trinità economica. Siamo dinanzi ad
una questione con una dimensione di metodo, prima ancora che di contenuto, e la
seconda può essere affrontata solo dopo una corretta impostazione della prima.
È per questo che il
frutto più oggettivo della ricerca ci sembra rappresentato dai quattro
corollari appena formulati, quattro regole ermeneutiche a cui deve
imprescindibilmente obbedire ogni discorso sulla Trinità.
Quanto alla tesi sul
contenuto del cur Filius homo, quella
rahneriana, che abbiamo adottata
presentandola come la più coerente con l'insieme della Rivelazione, desideriamo
rivestirne la figura con un manto di moderato apofatismo. Ci siamo mossi
infatti in un campo in cui non si danno dimostrazioni cogenti ma solo proposte
plausibili. L'essere in sé di Dio -ci ammoniva già Bonaventura- a cui l'uomo si
spinge attraverso l'autocomunicazione economica, è come il roveto ardente di
Mosè: bisogna accostarvisi con riverenza e senza orgoglio, nell'umiltà di chi
si dispone a ricevere un dono. La conoscenza di Dio -ci insegnano i mistici che
ne hanno fatto l'esperienza- s'ottiene con lo stupore più che col furore, più
con l'abbandono della contemplazione che con la geometria della speculazione.
Non che l'uomo non debba tentare un discorso su Dio, anzi oggi più che mai è
urgente la qeologia nel senso che a questa parola davano i Padri. Dio e
null'altro è la salvezza dell'uomo. Tuttavia "quando avremo parlato,
dovremo di nuovo tacere adorando, bere sorso dietro sorso il calice di una
quotidianità senza Dio, aspettare la morte, essere grati per le gioie della
vita, accettarla cioè come un destino di amore, sopportare la theologia viatoris et crucis, finché non
brillerà la luce eterna. Ora vaghiamo ancora nell'incertezza, non abbiamo
rifugio sicuro nemmeno nel pensiero, siamo viandanti anche nella teologia. Ma è
giusto che sia così"[16].
[1] Catechismo
della Chiesa cattolica, Città del Vaticano 1992.
[2] Per tali principi ci rifacciamo al già citato corso
di J. Dupuis, Il Dio di Gesù Cristo: dalla cristologia
alla Trinità, e alle considerazioni nel testo del medesimo Autore, Introduzione alla cristologia, cit.,
48-55, con le debite trasposizioni.
[3] Cf. ad esempio, Ireneo
di Lione, Adversus haereses,
III, 19, 1, trad. it. di E. Bellini,
Milano 1981, 278.
[4] Cf. K. Rahner,
Il significato perenne dell'umanità di
Gesù nel nostro rapporto con Dio, in: Saggi
di cristologia e di mariologia, cit.
[5] Cf. J. Dupuis,
op. cit., 55.
[6] Cf. K. Rahner,
Dottrina di Dio nella dommatica cattolica,
in: Nuovi Saggi III, Roma 1969,
191-217.
[7] J. Feiner - M.
Löhrer (edd.), Mysterium Salutis,
cit.
[8] W. Kasper,
Il Dio di Gesù Cristo, cit., 415 s. Il teologo tedesco parla anche
di una pericoresi tra i trattati, ma è un'idea già avanzata da Rahner, come
stiamo per vedere.
[9] Il nuovo
Catechismo olandese, Torino 1969.
[10] AA. VV.,
Iniziazione alla pratica della teologia,
3 voll., Brescia 1986.
[11] L'espressione è in K.
Rahner, Osservazioni sul trattato
dommatico "De Trinitate", cit., 605.
[12] Cf. Commissio
theologica internationalis, Themata
selecta de ecclesiologia, in: Enchiridion
Vaticanum, IX, Bologna 1987, 1618-1637, spec. 1697ss.; B. Forte, La chiesa icona della Trinità, Brescia 1985².
[13] Concilio
ecumenico vaticano II, Gaudium et
Spes, n. 22.
[14] Oltre che alle tesi rahneriane svolte nel precedente
capitolo, rinviamo a E. Schillebeeeckx,
Cristo sacramento dell'incontro con Dio,
Roma 1968 e L. Ladaria, Antropologia teologica, Casale
Monferrato - Roma 1986.
[15] W. Kasper,
Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1985²,
360.
[16] K. Rahner, Dottrina su Dio nella dommatica cattolica, cit., 214.