http://utenti.lycos.it/amenalleluia
http://members.xoom.virgilio.it/martiri
Il dogma rappresenta nella
storia della teologia la risposta al bisogno di esplicitare e sviluppare (mai
di sostituire!) il kerygma neotestamentario. I tre nomi vengono uniti nel NT,
nell’opera della salvezza. Anche nell’opera creatrice, il Figlio è mediatore
della Creazione. Il passaggio che abbiamo conosciuto è dal livello
storico salvifico ad un livello speculativo. “Padre e Figlio e Spirito Santo”:
cosa significa? Un soggetto personale o tre? In che senso “Dio”? In che modo
Figlio e Spirito partecipano dell’unico Dio? Come l’uomo Gesù di Nazareth può
essere accreditato di preesistenza e natura divina?
1.
I - II secolo: i Padri Apostolici e gli Apologeti
Percorriamo i passi più
significativi (tra quelli in nostro possesso) della riflessione immediatamente
post - neotestamentaria. Non sono vere e proprie speculazioni sistematiche, ma
accenni alla dottrina trinitaria usata in contesti storico salvifici.
1.1. I Padri Apostolici
1.1.1. Il
pastore di Erma: la bellissima confusione
Lo prendiamo come esempio
di bellissima confusione tra Padre e Figlio e Spirito Santo, tra preesistenza e
creazione, tra incarnazione e esaltazione e croce, etc...
Cfr. cap. 6, similitudo 5:
“Allo Spirito Santo, che è preesistente, che ha fatto tutta la Creazione, Dio
lo ha fatto abitare nel corpo di carne che Lui ha voluto. Però, questa carne in
cui abitava lo Spirito Santo, ha servito bene lo Spirito, camminando in santità
e purezza, senza macchiare allo stesso Spirito. Come avesse dunque portato una
condotta eccellente... così prende come consigliere il suo Figlio e gli angeli
gloriosi... “
Si tratta di una
confusione che ha le sue radici nella lettura stessa delle lettere di Paolo,
specie se confrontate con i Vangeli, quando il linguaggio era ancora equivoco.
Ad es.: in 1 Cor 1, 21 per “DunamiV Qeou” ci si riferisce al Cristo, mentre in
Lc 1, 35 lo stesso vocabolo è invece riferito allo Spirito. La [parziale]
chiarezza del nostro linguaggio è frutto di secoli di discussione che hanno in
Erma solo un primo inizio. Pensiamo solo ai problemi interpretativi di Gv 4,
24: “Dio è Spirito”.
http://utenti.lycos.it/amenalleluia
http://members.xoom.virgilio.it/martiri
1.1.2. Clemente Romano
Ci riferiamo soprattutto
alla sua famosissima lettera ai Corinzi, scritta con grande [o presupposta]
autorità “papale”. Clemente presenta una formula trinitaria in chiara chiave
storico salvifica, con alcune sfumature interessanti. Le divisioni nella
comunità cristiana - egli afferma - sono inutili poiché abbiamo “un unico Dio,
un solo Cristo e un solo Spirito di Grazia effuso come dono”. In Clemente
Romano (come in Paolo), la Trinità è misura di Unità.
Interessante è notare che
la figura del Padre, che nel NT era sempre esplicitamente il “Padre di Gesù” e
solo indirettamente il “Padre in quanto Creatore del mondo”, nei primi secoli
vede accentuarsi il proprio aspetto di Creatore; la bontà di Dio e la sua
paternità sono viste in rapporto intimo nella Creazione; anche in Clemente, il
Padre è “Creatore di tutte le cose per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo”.
Lo Spirito Santo parla nei
profeti, negli apostoli e negli evangelisti. Clemente sottolinea molto la
presenza dello Spirito nella vita della Chiesa; in aprticolare, l’azione dello
Spirito nell’ìstituzione della gerarchia. E’ lo stesso Spirito che ispira le
predicazioni (quindi anche le sue lettere, sembra dire).
Clemente, infine, per
quanto riguarda Gesù Figlio di Dio, ne afferma la sua preesistenza alla propria
Incarnazione. Lo Spirito Santo già parlava su Gesù; non ne consegue
direttamente la nozione di “eternità”.
1.1.3. Ignazio di Antiochia
Come in Clemente è dal
contesto dell’Unità della Chiesa che sorge la riflessione trinitaria. La
gerarchia della Chiesa appare come elemento naturale (e voluto da Dio) della
storia salvifica e [secondo un approccio abbastanza pericoloso?] riflesso della
Trinità economica.
Nella sua lettera agli
Efesini al cap. 9, Ignazio afferma che la Chiesa è un edificio progettato da
Dio Padre, le cui pietre vive sono innalzate mediante l’“argano” costituito
dalla croce di Cristo attraverso le “corde che legano ad esso” dello Spirito.
In altre parole, è nella nostra costituzione di cristiani l’essere vocati dal
Padre, innalzati con la croce del Cristo e aiutati dallo Spirito. La Trinità è
sempre pensata in chiave salvifica.
Un primo germe della
riflessione “ontologica” si ha nella descrizione della “processione” (o
“fuoriuscita”) del LogoV dal Padre: Gesù Cristo è la Parola di Dio uscita dal
silenzio. E’ il LogoV che esce e si realizza nella Creazione, compiacendo il
Padre. Ricordiamo comunque, che siamo sempre nel campo della ricerca: il
rapporto (eterno) fra Padre e Figlio è qualcosa che si va delineando, al pari
dell’idea dell’“appartenenza” dello Spirito, della sua presenza
nell’Incarnazione e nell’Unzione di Gesù.
Nella 2 Clemente (che è un
apocrifo) abbiamo l’affermazione esplicita “parliamo di Gesù come di Dio”..
1.1.4. Lo Pseudo-Barnaba
L’autore della lettera di
Barnaba può essere considerato il primo interprete trinitario di Gn 1, 26:
“facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”; è il Padre che parla al
Figlio (successivamente si dirà “lo dice al Figlio e allo Spirito”). E’ chiaro
quindi che il Figlio è preesistente in quanto compartecipe della Creazione. Per
quanto riguarda lo Spirito la riflessione è ancora oscura: si dice che lo
Spirito proviene dall’abbondante fonte del Signore; allusione battesimale? E’
probabile.
1.1.5. La Didaché
Ricordiamo solo la
presenza per due volte nel cap. 7 della formula battesimale così come la
troviamo in Mt 28. Nulla di più. Fuori dalle formule battesimali c’è poco o
nulla da dire sullo Spirito per tutto il periodo dei padri apostolici.
Riassumendo questo
primissimo periodo della Chiesa, potremmo dire che ci sono alcune formule
triadiche; il collegamento Padre - Figlio è sicuramente la relazione più forte;
lo Spirito è visto in relazione all’attività profetica o è comunuqe
strettamente legato all’attività di Gesù; probabilmente è dato anche a noi nel
Battesimo.
1.2. Gli Apologeti: la teologia del LogoV
L’ispirazione principale è
quella della teologia giovannea (Gv 1, 1). Il vocabolo in sé, presentava un
duplice utilizzo, identificando un duplice (e vasto) campo semantico a seconda
del contesto in cui era utilizzato. In area filosofica, soprattutto stoica, era
chiamato con questo nome il principio regolatore del mondo, del kosmoV. In area
cristiana questo vocabolo viene assunto dai cristiani che vi identificano la
persona divina mediante la quale fu creato il mondo e quindi Gesù di Nazareth
detto il Cristo. Altri significati di Logos possono essere: “Mente”, “Ragione”,
“Parola”, “Verbo”...
1.2.1. Giustino: il LogoV spermatikoV e la generazione “mentale” del Verbo
Secondo il filosofo pagano
convertito al cristianesimo, là dove c’è un barlume di Verità , si trova una
scintilla dell’unica Ragione, dell’Unico Dio. Ma chi è questo Logos? Come si
rapporta nei confronti di JHWH o del Dio Padre del NT? Sono queste le domande
da cui scaturiranno le prime riflessioni trinitarie.
Anche in Giustino, il
Padre è “il Creatore” dell’universo. Accanto al Padre troviamo il Figlio
preesistente. Attraverso il Figlio è per noi possibile seguire l’Unico Dio
ingenerato. Il Figlio è in sé preesistente come Dio, mentre è generato dalla
Vergine in quanto uomo pur senza nulla perdere in questa generazione del suo
originale essere Dio. Giustino suggerisce quindi un’identificazione Logos -
Figlio di Dio.
Ma l’idea di “Figlio”
suggerisce anche una differenza rispetto al Padre: il Figlio è infatti
generato, mentre il Padre è Dio ingenerato. “Logos” suggerisce anche l’idea di
“Mente”; per Giustino, quindi, non è errato dire che il Logos è sì generato, ma
generato mentalmente. Sta in questa idea il contributo più grande (in positivo
e in negativo) dato da Giustino alla storia del dogma trinitario.
Generazione che è
strettamente legata all’idea di Creazione: la preesistenza, infatti, fino a
Nicea (o almeno fino ad Origene) non è intesa ab aeterno, ma come istante
immediato alla Creazione dell’universo. In altre parole: Dio ha generato il Figlio
nel momento in cui ha voluto creare il mondo attraverso il Figlio stesso.
Giustino parla (a proposito della generazione) di una DunamiV Logikh al
servizio della volontà del Padre, quindi non di una generazione paragonabile a
quella animale o umana. (Dobbiamo sempre intendere “generazione” come analoga a
“figliazione”).
Come spiegare questa
generazione? Giustino lo fa introducendo alcune metafore che hanno segnato la
storia del dogma fino ad oggi. Luce da Luce: non un semplice raggio di sole,
che fuoriesce dal sole e rimane in qualche modo dipendente da esso, ma realtà
completamente “indipendente”, “dotata di una “personalità” propria (anche se
non per questo necessariamente diversa in modo sostanziale).
Anche Giustino, parlando
del Figlio, utilizza QeoV senza l'articolo; QeoV generato da o QeoV: la
riflessione è ancora imperfetta e confusa; il Figlio non è detto un “secondo
Dio”, ma indubbiamente il linguaggio tradisce un certo subordinazionismo. Da
segnalare anche l’assenza di una riflessione centrata sull’importanza dello
Spirito: il LogoV è colui che dà senso all’universo, ma dello Spirito e della
sua “essenza” non si dice molto. Lo Spirito esiste, ispira (per es. l’attività
profetica), ed è collegato a Cristo.
Interessante è il fatto
che nella 1 Apologia (13), la formula Padre e Figlio e Spirito Santo non è
utilizzata solo in contesto battesimale, ma con essa si fa riferimento
all’Eucarestia e alla complessità della storia salvifica. Nello sviluppo del
dogma vedremo come anche le formule liturgiche e il loro progresso hanno avuto
un’importanza fondamentale (pensiamo solo all’uso dei Simboli conciliari).
Nella stessa Apologia,
abbiamo la presenza singolare dell’elemento angelico (cap. 60) in una struttura
incipientemente trinitaria, ma va ricordato che Gesù era stato appena chiamato
“il Signore degli Angeli”. Ivi, lo Spirito è nominato dopo gli angeli, ma
questo non comporta direttamente che essi siano superiori allo Spirito.
http://utenti.lycos.it/amenalleluia
http://members.xoom.virgilio.it/martiri
1.2.2. Taziano
Gesù non è un altro Dio,
non è nemmeno un secondo Dio o un Dio minore. Taziano afferma che “Dio esiste
fin dall’inizio”, ma anche che “all’inizio era il LogoV” (Gv 1, 1).
In Dio è presente ogni
potenza del visibile e dell’invisibile. Il Logos quindi esisteva in Dio e tutto
è stato fatto da Dio mediante la processione del Logos che era già esistente in
Dio. Secondo Taziano, il Logos è identificabile con la Volontà stessa di Dio;
in questo senso il Verbo è l’opera primogenita del Padre. E’ il principio del
mondo, generato non per divisione, ma per partecipazione. Anche Taziano
recupera la metafora della fiaccola (Luce da Luce) utilizzata da Giustino. Dio
Figlio procede dallo Spirito del Padre che lo ha generato. Per questo Genesi
afferma che il Logos in sé ad immagine del Padre, ha fatto l’uomo a “loro”
immagine.
Sintetizzando, Taziano
parla del Logos come mediatore della Creazione e partecipe della natura
spirituale del Padre. Verbo e Spirito sembrano coincidere.
1.2.3. Atenagora (1): il Figlio è la DunamiV
del Padre
Introduce (almeno un poco)
lo Spirito Santo nella struttura trinitaria e nella riflessione su di essa.
Abbiamo visto negli autori precedenti come sia frequente l’accostamento
terminologico Dio - Spirito - DunamiV. Il Figlio di Dio, in particolare, è il
Verbo del Padre perché secondo Lui e mediante Lui tutto è stato fatto
(categoria della mediazione creatrice). Il Padre è nel Figlio e il Figlio è nel
Padre mediante l’Unità e la Potenza (DunamiV) dello Spirito.
Il passo avanti di
Atenagora è proprio questo: prima che il Verbo fosse generato (per la
Creazione), era già in qualche modo [Spirito?] esistente in Dio (in quanto
essere razionale e quindi non privo di Logos): sembrerebbe una velata allusione
al LogoV immanente. Cfr., la figura della Sapienza nell’AT: essa è unita al
Figlio in quanto che Lui è Intelligenza, Verbo, Sapienza (sojia) del Padre..
1.2.4. Teofilo (1): il LogoV endiaJetoV e il LogoV
projorikoV
Il Verbo è sempre
immanente nel cuoredi Dio (endiaJetoV kardia Qeou), perché prima di creare era già suo consigliere, sua mente, suo
pensiero. E quando Dio ha voluto fare quanto aveva deliberato, ha generato
questo Verbo proferendolo (projorikoV), pronunciandolo, emettendolo come
primogenito di tutta la Creazione, non svuotandosi del Suo Verbo, ma
generandolo e parlando sempre con il Verbo. Dire che il Verbo era presso Dio
(Gv 1,1) sembra far riferimento al LogoV endiaJetoV; Gv 1, 3, invece sembra
riferirsi al LogoV projorikoV.
A Teofilo dobbiamo la
terminologia tecnica usata ancor oggi per definire i due momenti del Verbo
(cfr. Ad Autolicum, II, 22): endiaJetoV (immanente) e projorikoV (proferito,
“prolatizio” [come si dice nello schema iniziale di Ladaria]). Attenzione: la
distinzione non è fra preesistenza e incarnazione umana, ma ambedue i momenti
sono da considerarsi nella preesistenza; l’Incarnazione qui non è direttamente
interessata.
1.2.3. Atenagora (2): la TaxiV
Lo Spirito Santo è
“emanazione” di Dio che poi torna a Lui, come il raggio di sole (Giustino aveva
già mostrato il limite di questa metafora, parlando però del Figlio).
Padre e Figlio e Spirito
Santo mostrano la loro DunamiV nell’Unità e la loro distinzione nel loro ordine
(TaxiV): è questa l’idea fondamentale di Atenagora. Ordine che non è
semplicemente formale nelle nostre espressioni verbali, ma che è interno alla
Trinità stessa: è il Figlio che viene dal Padre e non viceversa! Si tratta di
un problema fondamentale che viene posto con sufficiente chiarezza per la prima
volta. Come Padre e Figlio e Spirito Santo sono un’Unità e a quale livello sono
invece distinti? Risponde Atenagora: sono uniti secondo la loro DunamiV e
distinti per la loro TaxiV: il Figlio è intelligenza, Verbo del Padre; lo
Spirito è emanazione come luce di fuoco. Importante: per Atenagora l’ordine
potrebbe anche cambiare. [!]
1.2.4. Teofilo (2): TriaV
E’ stato anche il primo ad
utilizzare la parola TriaV, che in latino sarà “Trinitas” (Tertulliano). “I tre
giorni che precedono la creazione dei luminari [?] sono simboli della Trinità,
cioè di Dio, del suo Verbo e della sua Sapienza”. Interessante è notare che per
Teofilo (come per Ireneo), la Sapienza è lo Spirito e non il Figlio.
2.
I Secoli II e III
La Grande Chiesa conosce
la parentesi e le provocazioni del fenomeno gnostico; nascono le
interpretazioni adozioniste e modaliste (Sabellio si trova a Roma fra il 215 e
il 217; Praxea e Noeto): l’errore fondamentale è la negazione della distinzione
interna all’unico Dio: secondo questi eretici sarebbe il Padre ad incarnarsi
sotto la forma di Figlio (Patripassianesimo). Analizzeremo tre figure
fondamentali di questi secoli per l’ortodossia.
2.1. Ireneo di Lione
E’ tra i primi a
trasmetterci formule di fede chiaramente trinitarie (siamo alla fine del II
secolo). Un esempio: “un solo Dio Padre e un solo Verbo e un solo Spirito e una
sola Salvezza per coloro che credono in Lui”.
Notiamo che i testi
trinitari più belli di sant’Ireneo sono sempre inseriti in contesti storico
salvifici: lo Spirito Santo porta gli uomini al Figlio mediante il quale è
possibile la comunione con il Padre (appare l’idea dominante dell’ascesa a
Dio). Il Padre è “comandante”, il Figlio è “ministrante” (servitore) del Padre
e servitore dell’uomo, lo Spirito è “nutriente” l’uomo, nel senso che lo fa
crescere fino a portarlo alla perfezione. La Trinità, in Ireneo, si manifesta
sempre nel cammino di salvezza, sia che si parta dall’alto, sia che si parta
dal basso.
Figlio e Spirito sono “le
mani di Dio”, ma non nel senso della loro identità di Demiurghi (“secondi
dei”), alla maniera degli Gnostici. E’ Dio che ha creato direttamente l’uomo (e
questo spiega l’immensa dignità dell’uomo) non attraverso un Demiurgo esterno a
Sé, ma attraverso le “mani” che Egli ha in Se Stesso: il Figlio e lo Spirito
Santo.
Riguardo al Figlio, che è JeoV,
Ireneo non si interessa delle speculazioni apologetiche del LogoV: nessuno può
dire cosa sia accaduto prima della creazione (logos immanente, logos
prolatizio...). Ireneo ci parla poco della generazione del LogoV, cos’ come
della generazione umana. Al proposito, è da notare il riferimento che Ireneo fa
al passo di Is 53, 8 nella versione dei LXX: “chi potrà mai raccontare la sua
generazione?” (che nella traduzione CEI dall’originale ebraico dice: “chi si
affliggerà per la sua sorte?”). Sarà una citazione molto utilizzata nei primi
secoli della Chiesa.
Per quanto riguarda
Ireneo, è difficile azzardare se abbia veramente pensato ad una generazione ab
aeterno (egli afferma che la generazione è sa sempre, cioè da quando c’è tempo,
perché la generazione è in funzione della creazione); sicuramente nei suoi
scritti il Verbo è QeoV, mentre solo il Padre è o QeoV. Sempre a livello di
linguaggio, Ireneo rifiutò nettamente “omoousioV” credendolo troppo
materialista e gnostico. Di fatto, anche Ireneo è accusabile di
subordinazionismo, come tutti i teologi (anche ortodossi) fino a Nicea, quando
si comincerà quel lungo cammino di chiarificazione del linguaggio (e del
contenuto) teologico.
In Ireneo è caratteristica
propria dello Spirito Santo che l’uomo sia assimilato a Dio. Una curiosità:
abbiamo visto come fino ad ora la figura della Sapienza sia stata appropriata
spesso al Figlio; per Ireneo, come per Teofilo Antiocheno, la Sapienza è lo
Spirito Santo.
Lo Spirito è eterno in quanto è capace di dare la vita eterna al corpo;
fabricatio e dispositio si riferiscono al Figlio e allo Spirito come differenza
nel loro essere al servizio del Padre. Con l’assimilazione dell’uomo a Dio, lo
Spirito perfeziona in un ordine operativo l’opera del Verbo.
Secondo padre Orbe, Ireneo
è anche uno dei primi teologi che ha messo in luce le caratteristiche femminili
dello Spirito (Ruah): in particolare egli recupera lo schema Adamo ed Eva [vedi
libro di O’Donnell]. C’è una relazione fra la creazione di Eva e la processione
dello Spirito a partire dal LogoV: è una processione non generativa.
Interessante è comunque la
centratura soteriologica di tutta la descrizione trinitaria: il Figlio è colui
che dà lo Spirito attraverso due momenti: nella Creazione e per filiazione.
Rimane chiara sempre in Ireneo la consapevolezza della dinamica trinitaria.
2.2. Tertulliano
Comincia con questo grande
pensatore africano il vocabolario teologico (e soprattutto trinitario) della
latinità. E’ il primo ad utilizzare “Trinità”.
Di grande interesse è
soprattutto l’opera apologetica “Adversus Praxeam”. Prassea (o Praxea) è un
modalista, cioè ritiene che Figlio e Spirito siano semplici “modi di
comprendere” (aspetti) dell’unico Dio che è il Padre: non c’è differenziazione
personale nella vita divina (il patripassianesimo, in particolare, rappresentò
una corrente molto forte nell’ambiente modalista).
Di fronte ai modalisti,
Tertulliano afferma: noi crediamo in un solo Dio nella conoscenza economica di
cui noi godiamo. “Economia” in Tertulliano è la “spiegazione naturale
dell’essenza divina” (che, non va dimenticato, per questi autori è sempre
orientata all’economia salvifica: la spiegazione naturale è la spiegazione che
viene fuori in vista dell’economia salvifica). Per Tertulliano, quindi, la
distinzione personale è “economica” [e quindi immanente!] Questa economia,
infatti, è il fatto che c’è un Figlio dell’Unico Dio, Sua Parola, incarnato e
Risorto; e che c’è lo Spirito Santo.
Non possiamo negare che
l’idea della taxiV ha avuto sicuramente ampio sviluppo già all’interno dello
gnosticismo, ma il passo in avanti compiuto da Tertulliano è fondamentale
(oltre che perfettamente ortodosso per l’epoca):
“C’è unità di sostanza
(substantia) ma si deve custodire quell’economia (vedi sopra) che dispone
l’Unità (Unitas) nella Trinità (Trinitas) che prescrive che siano tre: il Padre
e il Figlio e lo Spirito Santo”.
Oppure un altro testo
diventato emblematico:
“ Tres sunt
non statu (per il modo di essere) sed gradu (per la gradualità)
non substantia (che è una) sed
forma
non potestate (la dunamiV!) sed
specie (per l’aspetto)”
Schematizzando:
Unus status substantia potestas
da cui
Tres gradus formae species
Tertulliano utilizzò molte
metafore divenute poi celebri sia nel mondo latino sia nel mondo greco per
esprimere la Trinità nell’Unità (oltre alla celebre lumen ex lumine che fu già
di Ireneo): frutto - albero - radice; canale - fiume - fonte; scintilla -
raggio - sole.
Per la prima volta, poi, i
Tre sono chiamati “personae”. Il significato di questo termine è ancora molto
debole nella riflessione di Tertulliano, non indica ancora un soggetto, quanto
piuttosto è da intendersi nel senso figurativo, dell’immagine che rappresenta..
Ma indubbiamente, pensando anche all’uso quotidiano in Roma (dove gli schiavi
non erano “personae”), è stato il primo ad utilizzare quel vocabolo che, nato
in teologia, avrà prima all’interno e poi all’esterno uno sviluppo incredibile.
I limiti della teologia di
Tertulliano sono concentrati in un certo subordinazionismo (la differenza di
“grado” fra le persone!). Secondo l’africano, infatti, uno solo è Dio Padre,
tutta la sostanza divina; il Figlio è una “portio” (nel senso di
partecipazione) divina ma comunque di una certa inferiorità (Gv 14, 28); sullo
Spirito Santo non troviamo alcun riferimento esplicito, ma ciò è una conferma
implicita di una ulteriore differenza di grado. Secondo Tertulliano, del resto,
Dio è sempre stato “Dio”, ma solo ad un certo punto “Padre” e “Signore”.
Seguendo queste premesse,
Tertulliano abbandona la prudenza di un Ireneo e sviluppa una teologia del LogoV
molto radicale. Dio contempla se stesso dall’eternità, e nel momento in cui
pensa che può creare, il LogoV di Dio è ancora in Lui ed è il modello della
Creazione (la Sapienza creata all’inizio di tutto), poi volendo creare emette
il Verbo (Gen 1, 2-3: la luce è Gesù, attraverso il quale Dio creerà tutte le
cose). E’ nel momento in cui Dio emette il LogoV che diventa Padre. Il Figlio
stesso è Dio, ma diverso da Lui; è sostanza del Padre, è divino, ma è Figlio.
Lo Spirito Santo è il tertium nomen divinitatis es tertium gradus maiestatis,
la natura divina posseduta dal Padre e dal Figlio (Gv 4, 24). Dal Padre e dal
Figlio, infatti, viene lo Spirito Santo, chiamato “Munus” (dono) perché
comunicato agli uomini da parte del Padre, mediante il Figlio (ricordiamo le
mtafore utilizzate per esprimere la Trinità nell’Unità).
Riassumendo la teologia di
Tertulliano, possiamo tracciarne lo schema intorno a questi punti:
lo schema trinitario “unus
et tres”;
Dio “diventa” Padre nel
momento in cui comunica al Figlio la sua identità,
cioè il suo Spirito (che
resta sempre un grado inferiore), “portio” della substantia divina al pari del
Figlio (con la differenza che lo Spirito viene da Padre e Figlio, mentre il
Figlio viene dal Padre);
il Figlio partecipa (in un
grado inferiore) della divinità;
la preoccupazione di
garantire l’unità senza sminuire la distinzione; l’avversario principale è
infatti Prassea, un modalista, e perciò Tertulliano bada bene a non cadere
nell’accusa più facile: triteismo;
fondamentale è
l’interpretazione di Gv 10: il Padre ed io siamo aliud (la stessa cosa) e non
alius (lo stesso)!
al pari dell’economia
della creazione, anche l’economia divina ha “un inizio”.
2.3. Origene ( + 250)
Leggermente posteriore a
Tertulliano, spesso considerato già autore del III secolo. Analizziamo in
particolare il testo esemplare contenuto nell’opera “In Johannem”, II 2, 18
(vedi fotocopia).
Origene affronta qui il
modalismo e la negazione della divinità di Gesù. “Bisogna dire loro che il Dio in Sé (autoJeoV) [il Padre?] è
il solo vero Dio”. Tutto ciò che è divinizzato per partecipazione alla Sua
divinità (e per primo il Cristo), non è o QeoV, ma QeoV. Anche se,
indubbiamente, il Figlio è il primo (prototokoV) a partecipare della divinità
del Padre.
Chiaramente c’è differenza
grande tra il nostro modo di partecipazione e quello di Gesù, ma c’è ancor più
grande differenza tra il Figlio e il Padre, perché solo il Padre è autoJeoV.
Notiamo come lo Spirito Santo sia completamente assente dal discorso.
A partire dalle ultime
affermazioni del testo, soprattutto se estrapolate dal contesto, si potrebbe
muovere ad Origene l’accusa di subordinazionismo. Ma non fermiamoci ad una
lettura superficiale. Tutti hanno pensato fino ad Origene al LogoV emanato in
vista della Creazione; Origene invece dice: se Dio voleva creare non era
necessario che si servisse di un mediatore divino; ossia: per la mediazione creatrice
non era necessario che il LogoV fosse Dio (in quanto poteva avere sussistenza
personale senza per questo essere Dio). E’ invece necessario che il mediatore
fosse Dio per portare a termine la missione di divinizzazione dell’uomo: ecco
lo scopo che guidò il Padre ad emanare il proprio Verbo. Per Origene, quindi,
la processione del LogoV ha ancora senso per la Creazione, ma soprattutto in
quanto essa è orientata alla partecipazione degli uomini alla divinità del Dio autoJeoV.
Rispetto a Tertulliano, si
pone una differenza molto più netta fra il Padre e il Figlio che è collocato
“quasi” fra le creature. “Figlio e Spirito Santo non sono paragonabili agli
esseri creati [...] ma sono a loro volta superati dal Padre, di altrettanto e
di più ancora di quanto Figlio e Spirito non superino gli altri esseri”. La
differenza è così posta come intratrinitaria; in Tertulliano era principale la
preoccupazione dell’Unità nella distinzione. In Origene è il contrario.
Origene, infatti, è anche il primo che parla della generazione ab aeterno del
Verbo. Dio è da sempre Padre perché da sempre lo splendore della luce è
inseparabile dalla luce stessa. E’ per questo che si parla in Origene di un
subordinazionismo intratrinitario: non c’è un momento in cui Dio è da solo,
eppure Figlio e Spirito sono solo QeoV.
Possiamo allora dire che
Origene è stato il primo a sciogliere il legame Incarnazione - Creazione? No,
anche se il legame è più complessivamente analizzato inserendo il termine della
divinizzazione come scopo della Creazione.
Origene dice anche che poiché Dio è eterno, le cose sono in Lui
intenzionalmente, se non realmente. Ossia: la Creazione è eterna
nell’intenzione del Padre, ed è quindi anche eterno questo LogoV che è già
generato mediatore della creazione e della divinizzazione.
Schematizzando:
la generazione del LogoV è
ab aeterno (Dio è sempre stato Padre; il Figlio, inteso come Dio, procede dalla
mente paterna; in quanto persona, procede dalla volontà del Padre);
è sempre stato Padre
perché da sempre ha l’intenzione di comunicare e divinizzare;
la processione è eterna ma
insieme profondamente legata all’economia salvifica.
La Sapienza di Dio è
quindi senza principio e senza fine. Anche in Origene, processione e economia
sono ancora pienamente inseriti nella gratuità della volontà divina. Quando Gn
1, 1 dice “creò il cielo e la terra”, viene indicata una creazione intenzionale
che poi ha un’esecuzione nel tempo di ciò che fin dal primo istante era nella
mente del Padre. Così, “nel principio” è interpretato da Origene come “nel
Salvatore”. Il Figlio è la volontà del Padre: per questo Dio è costantemente
rivolto al Dio Uno. “Il mio cibo è fare la volontà del Padre mio”; solo così
Egli può rimanere Figlio (QeoV): contemplando il Padre (o AutoJeoV).
L’unità del Padre e del Figlio
in Tertulliano era chiara, si trattava di una unità “di sostanza”, “di
Spirito”. Origene si rivela molto più incerto, è un punto che sembra
interessarlo meno. Qualche critico sostiene che Origene sia arrivato a
sostenere una differenza di ousia fondata sulla diversa upostasiV (intesa come
“sussistenza, persona”) del Figlio rispetto al Padre. In realtà Origene non
specifica mai questo punto, ma ne parla sempre in termini piuttosto vaghi,
evidenziando quell’equivocità terminologica che arriverà fino a Nicea e poi
Calcedonia.
Anche per Origene, lo
Spirito viene dal Padre attraverso il Figlio, ed è interessante che egli fondi
questa osservazione a partire da Gv 1, 3 (“tutto fu fatto per mezzo di Lui [il
Verbo] e nulla fu fatto senza di Lui di ciò che è stato fatto”): anche se lo
Spirito è diverso dalle altre “creature” (“facta”) perché si tratta di una
generazione eterna. “Crediamo che esistano tre ipostasi, di cui il Padre è
l’unica ingenerata, mentre riteniamo che lo Spirito Santo abbia una posizione
di preminenza in vista della sua eternità e che sia il primo della Creazione
avvenuta attraverso il Figlio e che sia JeoV come il Figlio”, anche se con meno
importanza.
Ancora: in Tertulliano
abbiamo tantissimi testi trinitari, mentre in Origene quello sopracitato è uno
dei pochi, in cui è inoltre evidenziata la distinzione più che l’unità delle
persone.
In conclusione ricordiamo
anche che Tertulliano è considerato un esponente della teologia “occidentale” e
Origene della teologia “orientale”. Senza volerne fare delle caricature,
evidenziamo quindi una certa tendenza che porterà un ambiente verso gli errori
monofisiti e modalisti e l’altro ambiente verso l’arianesimo. Si tratta di due
approcci che manifestano fin d’ora la necessaria complementarità. Cfr. al proposito
la polemica fra i due Dionigi (d’Alessandria e di Roma): DS 112 ss.
3.
Ario e Nicea
Gesù il Cristo, “creatura”
perfetta ma non “fatto” come le altre cose fatte; creato prima dei tempi, nato
prima dei secoli ma né eterno né co-eterno né increato. Queste erano le
principali conclusioni a cui erano giunti all’inizio del IV secolo anche molti
Padri ortodossi, allo scopo di garantire l’unicità del Dio Uno dell’AT.
3.1. Ario: il figlio è
“creatura”, infatti ha sofferto
Ario arriverà su questa
linea a sostenere che il Figlio non possiede la stessa ousia del Padre (cfr. il
sinodo di Antiochia contro Paolo di Samosata), perché ciò significherebbe
negare l’indipendenza del Figlio [la “personalità”, se ho capito bene]. Ma per
Ario, cosa significava esattamente “generare”? I Padri lo hanno quasi sempre
inteso in senso mentale; Ario, invece, quando il Figlio viene chiamato
“generato”, mette in rilievo il problema dell’origine, ontologia e cronologica:
poiché non si possono avere due “ingenerati”, il Figlio non procede
direttamente dalla piena sostanza del Padre e la sua “generazione” libera e
volontaria è quindi “creazione”. Ario respinge ogni tipo di derivazione che
possa sembrare “animale”, rifiuta “portio”, rifiuta essenza ed emanazione,
rifiuta anche sostanza comune; rifiuta infine anche la proposizione ek, perché
indicherebbe “materialità”. Gli apologeti, al contrario, vedevano nella
“generazione” una “comunicazione di essere” molto maggiore rispetto alla
semplice creazione dal nulla.
Accenniamo al problema di
Apollinare: il LogoV è inteso a sostituzione dell’anima in Cristo. Nel 381
avremo la condanna esplicita dell’apollinarismo. Ario vive, opera e predica
almeno 70 anni prima; nell’ambiente teologico non si nega l’anima umana di
Cristo, ma sicuramente si trascura di parlarne; anche Ario.
Il problema che nasce da questa “dimenticanza” è il seguente: se il LogoV
sostituisce l’anima, chi è il protagonista della passione, visto che Dio è in
Sé impassibile? Ario prende le mosse da queste considerazioni per dire che, avendo
Gesù sofferto, era necessariamente creatura. (E’ esemplarmente rovesciata la
tesi di von Harnack: non i dogmi, ma le eresie come quella ariana erano il vero
tentativo di ellenizzare il cristianesimo! Il Demiurgo, l’Uno in senso
plotiniano, le Monadi gnostiche altro non erano che tentativi di sfuggire la
follia dell’Incarnazione).
Ario portava con sé un
vasto campionario di citazioni scritturistiche interpretate a proprio favore
(Mc 10, 18 più un vasto assortimento giovanneo...) senza contare i testi della
passione riguardo la sofferenza del Figlio.
Una prima risposta ad Ario
sarà portata dal vescovo Alessandro che parlerà di generazione ab aeterno, e di
generazione comunque inspiegabile e inenarrabile. Padre e Figlio stanno come
Luce da Luce (Giustino), il secondo generato per volere del primo (Origene);
curiosamente, Alessandro userà contro Ario una citazione da Gv 14, 28 che già
aveva usato Tertulliano: se è più grande, significa che è comparabile a Dio e
che quindi è Dio.
Lezione del 5 aprile
3.2. Analisi della
definizione di Nicea 325
Cfr. DS 125. Le note sono
a margine.
Il primo articolo non pone
grandi problemi di accettazione neppure da parte di Ario: “un solo Padre” (e
poi “un solo Signore”) è citazione esplicita dalla lettera ai Corinzi.
gennhJenta: per adesso è semplicemente “generato”, senza
chiarire quell’equivocità di fondo che aveva
dato il via alla polemica ariana.
monoghnh: citazione tratta
da Giovanni, spiegata dal toutestin successivo
ek thV ousian: ousia
letteralmente è traducibile con “essenza”, “ciò per cui qualcosa è”. A Nicea (e anche negli anni immediatamente
successivi) non si attribuisce al vocabolo un si- gnificato univoco. Qui è utilizzato per precisare il gennhJenta nel
senso di “da ciò per cui il Padre è”.
L’accusa principale che sarà mossa a questo punto sarà quella di aver utilizzato una metafora troppo
“naturale”, “materiale”, non ostante già Eusebio avesse tentato di insistere sul fatto che i Padri intendessero
piuttosto una generazione “spirituale”,
“mentale”...
Jeon ek Jeou: questa affermazione così posta, senza articolo,
poteva essere accettata da tutti se estrapolata
dal contesto successivo che invece la determina più precisamente.
jwV ek jwtoV: la metafora è tipicamente giustiniana,
preferita allo “splendore della luce” di Orige- ne
che tradiva un moderato subordinazionismo.
alhJinon ek alhJinou: “vero da vero”, in un climax di
affermazioni che porterà al “consustanziale”.
gennhJenta ou poihJenta: “generato [ma] non creato”; è la
precisazione che mostrava l’inaccettabilità
delle dottrine ariane. Si introduce la seguente diffe- renziazione: la “generazione” che dà l’essere al Figlio è diversa
dal modo con cui vengono ad esistere le
altre cose (anche Ario poteva accettare
questo)
omousion tw patri: è in questo punto l’origine delle lotte
di tutto il secolo IV. Come capire il senso
di quell’omoV? “Uguale”? “Lo stesso?” Cioè: noi possiamo condide- rarci omousioi gli uni gli altri in
quanto partecipi dell’unica natura umana; ma
se due di noi sono “due uomini”, allora Padre e Figlio, omousioi per la stessa natura divina, sono da considerarsi due
dei! E’ evidente che la de- finizione
nicena non va letta in questo modo.
Il linguaggio teologico è sempre
linguaggio analogico! Non possiamo utiliz- zarlo
in modo indifferenziato per gli uomini e per Dio.
Da dove viene omousioV? Quale è la
storia di questo vocabolo? La prefe- renza
per il termine è stata storicamente occidentale, “monarchiana” (Tertulliano?), soprattutto in
contrapposizione alle upostaseiV distinte dalla
scuola alessandrina (Origene?).
Non va dimenticato, nel secolo
scorso, il pericolo dell’eresia sabelliana, se- condo
la quale non vi era distinzione personale tra Padre e Figlio e Spirito in quanto ognuno ha la stessa natura. Nel 268, ad
Antiochia, gli eretici sconfitti si erano
difesi utilizzando lo stesso aggettivo che sarà poi proposto a Nicea.
Sono da ricercare anche in queste
memorie i motivi del grande sospetto con cui
molto Padri accolsero omousioV.
Comune all’oriente e all’occidente,
in definitiva, poteva essere considerata l’interpretazione
di “uguale natura”. Nicea, cioè, intese dire che il Figlio è Dio come il Padre; la modalità
dell’unione “intratrinitaria” non interessava e non era stata posta al centro della discussione. Conferma di
questa interpre- tazione, sono le stesse
traduzioni moderne; la CEI propone “della stessa sostanza”. Sarà poi Calcedonia a occuparsi dei fondamenti dell’unità
e della distinzione introducendo la
distinzione fra ousia e upostasiV.
* Apriamo una parentesi sull’utilizzo di un vocabolo “filosofico” o comunque
non biblico, in un documento ufficiale della Chiesa. Rifiutiamo l’accusa
moderna (von Harnack, per esempio) di essere di fronte all’inizio di
un’ellenizzazione del cristianesimo! Nicea, al contrario, rappresenta la
de-ellenizzazione del cristianesimo. Concetti, infatti, come incarnazione,
umanità di Dio e consustanzialità, erano inconcepibili dalla mentalità “greca”
(sia platonica che stoica); tanto che Ario tenterà di aggirarli introducendo l’idea
di un LogoV non pienamente Dio. A Nicea, invece, l’uomo Gesù di Nazareth è
dichiarato “consustanziale” a Dio Padre.[Riflettendo a posteriori, non potremmo
avanzare l’ipotesi che il linguaggio, le parole stesse, sono state investite e
“convertite” dal mistero della Rivelazione?]
“E nello Spirito Santo”:
il terzo articolo non viene sviluppato, ma semplicemente agganciato al se- condo. E’ comunque fondamentale che esso ci
sia.
Osservando le affermazioni
degli anatematismi, si può verificare l’accettazione pressocché generale della
“generatio ab aeterno”.
UpostaseiV h ousia: sono
ancora vocaboli intesi come sinonimi e lo resteranno almeno fino ai Cappadoci.
3.3. Commento al contenuto
del simbolo niceno
Assistiamo alla implicita
apertura alla dottrina trinitaria vera e propria, grazie soprattutto
all’abbandono di quel subordinazionismo moderato che indirettamente viene
colpito dalla polemica antiariana (Ilario e Atanasio).
Importantissima è
l’affermazione del “Figlio come il Padre”. Il Figlio non è una creatura, ma
esiste dall’eternità in virtù della sua consustanzialità (cfr. gli
anatematismi). Ammettiamo pure che il significato positivo di queste
affermazioni non era ancora univoco, ma certamente non era equivoco cosa esse
intendessero al negativo. [Non siamo di fronte ad una definizione chiara, ma ad
un sentiero che si sta delineando]
3.4. Le fazioni del
dopo-Nicea
omousiani (o niceni): spesso senza far di “omoousios” un
termine privilegiato, spesso senza fornirne una
spiegazione esplicita, ne fanno un uso riflettente il pensiero niceno (Atanasio, Ireneo...)
omoiousiani
(imprecisamente denominati semi-ariani): preferiscono omoioV (“simile”) a omoV,
giu- dicato troppo sabelliano; oggi
è una posizione non più accettata, ma è innegabile
il ruolo giocato da questa corrente per sconfiggere l’eresia ariana.
omei: non interessa loro la questione, in
quanto ousia non è termine biblico; ammettono che il Figlio è simile o uguale al Padre, ma non si soffermano sulla
questione (in realtà negando tacitamente
la divinità piena del Figlio)
anomei (gli ariani, per
esempio): il Figlio non è né omoV al Padre, e neppure omoioV; il grande ano- meo sarà Eunomeo, avversario dei Cappadoci.
4.
Gli sviluppi di Nicea nel secolo IV
4.1. Atanasio
Assumiamolo come esemplare
della “corrente orientale”.
Egli utilizzerà moltissimo
l’immagine dello splendore della luce. Se Origene fu considerato il grande
teologo della generazione ab aeterno legata alla creazione del mondo (perché
così era nella volontà economico-salvifica), Atanasio scioglie il legame
generazione-creazione: la generazione ab aeterno non è in funzione della
creazione del mondo, ma appartiene alla natura divina, e non solo alla sua
volontà.
Contra Arianos 3, 61: “Il
suo proprio Verbo è generato per natura senza decisione, perché è in Lui [in
Cristo] che il Padre fa tutto ciò che decide”. Altrove Atanasio dirà che la
generazione non può essere prodotto della decisione al pari del nostro avere le
mani che non è frutto della nostra volontà. E’ nel Figlio che il Padre decide
tutto. “Non c’è decisione previa, semplicemente perché non esiste un momento
previo”. Ciò non ostante, in Dio non possiamo applicare le nozioni di libertà e
necessità nello stesso modo con cui le applichiamo a noi. “Necessario alla sua
natura”, infatti non significa in Dio che sia contro la sua volontà o non sia
frutto della sua libertà.
Sta in queste affermazioni la grande ricchezza e il grande contributo dato da
Atanasio alla teologia successiva.
Dopo Nicea, “il Figlio
viene dall’ousia del Padre”. Per Atanasio ciò significa che il Figlio viene dal
Padre e il Figlio è Dio. Scandagliare il mistero della loro unità in termini
tecnici non interessa ad Atanasio, quanto piuttosto la vera e completa divinità
del Figlio; il Figlio è veramente tale e non solo “di adozione”, perché solo se
il Figlio è pienamente Dio noi possiamo essere salvati. Se il Figlio non fosse
vero Dio, infatti, come l’uomo potrebbe essere veramente divinizzato (e quindi
salvato)? Non è possibile all’uomo da solo (ma nemmeno agli angeli da soli!)
salvarsi, ma occorre l’intervento del Verbo (immagine “reale” e non solo
somiglianza) di Dio. La salvezza, infatti, può venire solo da Dio e da nessuna
altra creatura.
Atanasio è anche uno dei
primi teologi che osa affermare lo Spirito omoV del Figlio e del Padre, e di
conseguenza la sua realtà di divinizzatore e di Dio. Atanasio propone un
parallelismo di rapporti fra Padre - Figlio e Figlio - Spirito: se il Figlio
non è meno Dio che il Padre, lo Spirito non può essere meno Dio che il Figlio!
Tutti e tre intervengono all’inizio del mondo distinguendo fra: “dal quale” (il
Padre), “mediante il quale” (il Figlio), “nel quale” (lo Spirito), provengono
tutte le cose.
Sintetizzando, possiamo
dire che Atanasio è un grande pensatore della divinità del Figlio (che viene
dal Padre, unica fonte) più che dell’Unità. Egli difese con forza la
consustanzialità del Figlio, anche se non precisa la distinzione tra upostasiV
e ousia.
4.2. Ilario di Poitiers
Lo assumiamo come
contraltare di Atanasio e rappresentante della “corrente occidentale”.
Ilario è l’autore di una
stupenda definizione di paternità. Egli insiste anche sul fatto che il Figlio
ha una certa entità, non è solo “Verbo di”. Partendo da queste considerazioni,
egli si sofferma molto su “Lumen ex Lumine” e abbandona tutte le altre metafore
di matrice tertulliana. Anche se non possiamo entrare con certezza e chiarezza
nella dinamica generativa, Ilario è convinto che i nomi indichino ciò che
realmente è (generazione, non creazione!); Padre quindi indica il Padre e
Figlio il Figlio. [Ma era un genio!]
Spieghiamolo meglio con le
sue parole. “Il Padre è colui che non è che Padre [...] gli uomini diventano
genitori, Dio no, poiché Egli è da sempre Padre e costitutivamente e
integralmente Padre”.
“Padre totalmente,
significa che ha dato tutto al Figlio”. Ecco l’uguaglianza del Figlio a partire
dall’idea della paternità divina: se il Padre non desse tutto di Sé non
potrebbe essere il Padre del Figlio. “Non può essere tutto chi è solo una
parte, ma chi partecipa del perfetto è perfetto”. Analizzando la seconda parte
di questa affermazione, capiamo come per Atanasio, la radice di ogni divinità è
nel Padre, o QeoV. Infatti, “la natura divina è semplicissima [...quindi] Dio
la può dare in semplicità”. Viene affermato che “Dio non è composto”, in quanto
perfetto, ma questo suo vivere “tutto interamente” gli permette di donare
questa natura come Egli la possiede: non c’è diversità di natura fra Padre e
Figlio. Il Padre si comunica (ossia comunica la propria natura) come è (come la
possiede).
Il fondamento di tutti
questi discorsi sta nel concepire ultimamente la paternità come Amore. “Dio in
ogni momento non può che essere Amore”. La paternità è donazione di sé non “per
necessità di natura”, ma per Amore. “Chi ama non invidia e chi è Padre lo è
completamente” (quindi dandosi completamente). Ilario pone un’uguaglianza fra
Amore - donazione di Sé - Paternità.
E se il Padre è così
grande perché tutto dà, il Figlio non è inferiore in quanto tutto riceve. Chi
riceve non è da considerarsi come minore di colui che dà. Questo è evidente nel
momento della generazione eterna, ed è manifestato in modo definitivo e ultimo
nella Risurrezione (il Padre “fa Figlio” Gesù anche in quanto uomo: l’umanità
perfetta è tale perché inserita pienamente nella divinità). Anche in quanto
uomo, quindi, Gesù non è da meno del Padre, ricevendo tutto ciò che il Padre è.
LA teologia dello Spirito
in Ilario è molto ricca sul piano storico salvifico, anche se poco chiara nei
suoi riflessi trinitri. Lo Spirito appare unito al Padre e al Figlio nella
formula battesimale: “ci comandò di battezzare nel nome del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo; cioè nella confessione dell’Autore di tutte le cose,
dell’Unigenito per cui tutto è stato creato e nel dono”. Ritorneremo
successivamente sull’importanza di questa definizione di Spirito come “Dono”.
4.3. Riassunto delle idee
dei secoli III - prima metà IV
Il subordinazionismo
ecclesiastico in teologia è presente anche tra gli autori ortodossi fino a
Nicea. Per rispondere alle estreme conseguenze portate da Ario, Nicea si
ritrova a fondare gli inizi della dottrina trinitaria: il Figlio è Dio come il
Padre; il Figlio non è un secondo Dio; il Figlio riceve dal Padre la sua
natura. Dopo Nicea, conseguentemente, si scioglie il legame generazione -
creazione, giustificando il rapporto Padre e Figlio nell’ottica della Paternità
vista come Donazione e Amore.
Lezione del 7 aprile
I problemi ancora da
chiarire rimangono ancora parecchi e grande ruolo giocheranno nel secolo
seguente i padri cappadoci riflettendo su:
* unità e distinzione delle persone
trinitarie
* inserimento (non solo formale)
dello Spirito Santo nella teologia trinitaria
5.
I Padri cappadoci
Consideriamo come “padri
cappadoci” tre grandi figure del cristianesimo orientale del IV secolo, legate
tra loro da rapporti di parentela e amicizia.
^ Basilio di Cesarea (o
Magno)
^ Gregorio di Nazianzo, grande amico di Basilio
^ Gregorio di Nissa, fratello più giovane di Basilio
Vissero più o meno nella
seconda metà del IV secolo; Basilio morì prima del concilio di Costantinopoli
del 381, mentre Gregorio di Nazianzo morì poco dopo il concilio, dopo essersi
dimesso da patriarca della città sede imperiale.
5.1. La teologia
trinitaria dei cappadoci
Loro grande avversario
sarà quell’Eunomio che partendo dalla definizione di Dio come “Ingenerato”,
sostenne che il Figlio, in quanto generato, non è Dio (si parla di arianesimo
della seconda generazione).
5.1.1. Basilio Magno
Basilio risponderà a questa
posizione, distinguendo fra ciò che si dice direttamente di Dio e ciò che si
dice del rapporto mutuo fra le persone.
“Generato”, infatti, lo
diciamo di un uomo o di un animale o di una pianta; lo diciamo anche di Gesù,
ma non parliamo per questo della sua ousia o della sua jusiV, essendo la
“generazione” comune a molte cose e non solo a Dio. “Generato” indica solo il
rapporto di uno con l’altro e non dice esplicitamente della sostanza. Dire
“Ingenerato”, quindi non significa affermare una ousia, ma è negare un rapporto
(ricordiamo che ousia e jusiV sono considerati ancora come concetti
equivalenti).
Ci sono proprietà
distintive del Padre e del Figlio che si considerano della stessa ousia, che è
posseduta in maniera diversa da soggetti diversi. Generato e ingenerato sono
così da intendersi come proprietà distintive della stessa sostanza.
Le peculiarità personali divine non interrompono l’unica sostanza. Padre e
Figlio non sono nomi che stanno ad
indicare la sostanza, ma le proprietà dell’unica realtà che è Dio, di cui noi
non potremo mai definire l’ousia nella sua interezza. Dobbiamo perciò ben
comprendere l’utilizzo di alcune nostre parole oscure, consci della difficoltà
estrema di avvicinarci al Mistero.
(Agostino fonderà la sua
dottrina trinitaria su queste affermazioni di Basilio). In Dio, abbiamo un
aspetto comune costituito dal Padre che comunica tutta la sua divinità al
Figlio e allo Spirito, facendo sì che i 3 abbiano la stessa ousia/jusiV/natura/substantia.
Ma abbiamo anche un aspetto distintivo dato dalle proprietà appartenenti alle upostaseiV:
mia ousia en treiV upostasaiV.
Quali allora le proprietà personali? Propria dell’upostasiV del Padre è la
paternità, del Figlio è la filiazione, dello Spirito è la “santificazione”, il
potere di santificare. I Cappadoci chiamano le diverse proprietà idiwmata.
Attenzione: lo schema
basiliano non prevede una ousia divina dalla quale “provengono” o
“distinguiamo” tre persone, ma il Padre è sempre l’unica fonte dell’unica e
comune ousia delle tre upostaseiV. Filosoficamente parlando, Basilio presenta
una ontologia manifestantesi nell’azione economica. [chissà se qualcuno
gliel’ha mai detto?]
5.1.2. Gregorio di
Nazianzo
Il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo sono la stessa ousia e sono omousioi: per la prima volta dopo
Nicea viene esplicitamente posta la perfetta uguaglianza anche interna fra i 3.
Le differenti idiwmata,
secondo il Nazianzeno sono: il Padre è Ingenerato, il Figlio è Generato
(secondo un principio logico e mai cronologico) mentre il proprium dello
Spirito Santo sta già nell’interno della vita divina: procede dal Padre senza
essere mai stato generato. E’ un’idea ancora vaga e lo resterà per parecchio
tempo ancora, ma è interessante l’introduzione del termine “procedere”
(“processione”): un “venire da” che non coincide con la generazione. Il
richiamo è a Gv 15, 26.
Gregorio raccoglie da
Basilio il tema del rapporto Padre da sempre - Figlio da sempre. Padre e Figlio
non indicano un’essenza, ma una specie di azione, il rapporto fra i due
soggetti che condividono (comunicano) la stessa ousia. Nell’Oratione 31,
leggiamo: “il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo [...] non confusa (cfr. uno
dei 4 avverbi calcedonesi) la distinzione delle tre ipostasi nell’unica ousia e
nell’unica dignità della divinità. “Il Figlio non è il Padre,perché il Padre è
uno solo, ma è la stessa cosa (e non “lo stesso”! Cfr. Gv 10, 30) che è il
Padre. Né lo Spirito è il Figlio per il fatto che proviene da Dio, perché uno
solo è l’Unigenito, ma è la stessa cosa che è il Figlio. I 3 sono un solo
essere quanto alla natura divina e il solo essere è 3 in quanto alle
proprietà”.
Pur nella complessità e nella ancora oscurità di queste affermazioni, siamo in
grado di cogliere il grande cambiamento rispetto all’equivalenza ousia - upostasiV
di Nicea.
5.1.3. Gregorio di Nissa
L’originalità del Nisseno
ci mostra, per contro, l’estrema povertà e limitatezza del linguaggio umano su
Dio. E’ un platonico di formazione. “Noi diciamo tre uomini quando abbiamo di
fronte per esempio Pietro, Paolo e Giovanni. Tutti e tre hanno però in comune
la stessa natura umana”, che è qualcosa di molto profondo tanto da poter dire
che, in fondo, esiste un solo uomo. L’analogia tenta di spiegare la Trinità, ma
risulta senza dubbio stridente.
Più interessante si rivela
la riflessione seguente: “Iniziata dal Padre, realizzata dal Figlio, e
perfezionata dallo Spirito”, l’unità d’essenza nella Trinità si conferma e
manifesta nell’unità d’azione all’interno della storia della salvezza. I Tre
sono uniti in azione e volontà, vogliono e fanno lo stesso.
Gregorio di Nissa recupera
ancora le metafore triadiche tertullianee e aggiunge quella del profumo.
5.2. La riflessione dei
cappadoci sullo Spirito Santo
Verso il 360 appaiono
sulla scena del dibattito teologico i macedoniani (dall’eretico Macedonio) o pneumatomacoi
(i “nemici dello Spirito”): essi sostenevano che lo Spirito non è Dio e quindi
non può essere adorato, ma “in lui” Dio è adorato (Gv 4, 24). Si scontrarono
dapprima con Atanasio (cfr. lettere a Zerapione) e poi con Basilio (che scrisse
tra l’altro una bellissima opera, il De Spirito Sancto): “lo Spirito Santo è
Dio, nominato giustamente accanto a Padre e Figlio, in quanto creatore e
santificatore”.
Lezione dell’8 aprile
5.2.1. Lo Spirito Santo è
Dio?
E’ unito al Padre e al
Figlio nelle Scritture, sempre invocato nelle formule battesimali, unito al
Padre e al Figlio nell’opera di creazione e santificazione. Basilio parte da
queste affermazioni per dire che se deifica non può che essere Dio. (La
salvezza era identificata con la deificazione e i cappadoci furono maestri
dell’aplicazione di questa categoria).
Basilio, nel De Spirito 9,
afferma che colui che è toccato dallo Spirito Santo, è come specchio di un
sole: illuminato, illumina tutto d’intorno (ovviamente se è purificato). Grazie
all’azione dello Spirito, gli uomini “spirituali” possono adempiere ogni loro
desiderio (“diventano come Dio”). Il senso di quest’idea non è che l’uomo sia
confuso con Dio, ma evidenziare la sua partecipazione piena di figlio adottivo
alla vita divina: questa è l’azione dello Spirito Santo.
Nonostante la chiarezza
del procedimento speculativo, Basilio sembra non avere il coraggio di toccare
la vetta; nei suoi scritti, infatti, non troviamo mai l’affermazione “lo
Spirito Santo è Dio”, ma abbondanti riferimenti al fatto che lo Spirito
“deifica”, partecipa di Dio”...
Basilio è interessante
anche per l’analisi delle preposizioni applicate allo Spirito. Gli pneumatomacoi
dicevano “nello Spirito”, per mostrare l’inferiorità della terza persona
rispetto al Padre. Basilio impunga il NT e mostra come le tradizionali
appropriazioni (“dal Padre” [ek], “mediante il Figlio” [dia], “nello Spirito” [en]),
non siano esclusive; si trova infatti anche “nel Figlio” o “mediante il
Padre”... Le preposizioni applicate alle tre persone non mostrano nel NT un uso
necessario, ma anzi mostrano l’uguaglianza dei tre; Basilio conclude quindi che
la dossologia “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito” (come continuiamo a
dire a tutt’oggi) non è per nulla inferiore (o addirittura è preferibile) al
“Gloria al Padre mediante il Figlio nello Spirito”.
Gregorio di Nazianzo dirà
esplicitamente che lo Spirito Santo è omousioV al Padre dal quale viene. (Hanno
la stessa ousia coloro che sussistono in modo indipendente). Egli non accetterà
di buon grado la mancanza del termine omousioV nel concilio di Costantinopoli
e, precedentemente, litigherà anche con il suo amico Basilio per la troppa
“diplomazia” nella sua teologia mancante di un’affermazione esplicita della
divinità della terza persona.
Anche in Gregorio di
Nazianzo è importante la linea storico-salvifica: dalla ricchezza dell’azione
all’identità. Nell’Oratione 31 è presente un magnifico passaggio sulla continuità
dell’azione dello Spirito dall’AT al NT.
5.2.2. Da dove proviene lo
Spirito Santo?
Non siamo ancora al grosso
problema (dei secoli successivi) cosiddetto del “filioque”, ma è ugualmente
molto interessante analizzare come i padri cappadoci abbiano impostato il
problema dell’origine dello Spirito.
Tertulliano e Origene
avevano messo mano per primi al problema; Tertulliano aveva messo in luce
l’estrema unità attraverso le formule triadiche (radici - tronco - rami, canale
- fiume - fonte...), mentre Origene “subordinava” leggermente lo Spirito
definendolo primo “factum” attraverso il Figlio dal Padre, anche se il suo
essere “factum” era ab aeterno e in modo molto diverso da quello degli altri
esseri; per Origene, infatti, lo Spirito è colui che dà consistenza ai doni
fatti dal Padre agli uomini mediante il Figlio.
Atanasio aveva visto un
rapporto fra le due diadi Padre/Figlio e Figlio/Spirito: tutta l’upostasiV del
Figlio era impegnata nel “venir fuori” dello Spirito. Abbiamo visto però la
fatica e l’equivocità nel trovare una parola che si colocasse al parallelo
della generazione. Alcuni hanno detto “viene [procede?] dal Padre”.
Basilio è il primo che
affronta il problema in modo diretto: se è generato dal Padre, perché non è un
altro Figlio? Lo Spirito viene ek tou Jeou come il Figlio, ma non è generato
come il Figlio; si parla piuttosto analogicamente del “soffio” della bocca di
Dio, ma è una immagine che si applicava già al LogoV, poi identificato con il
Figlio.
Gregorio di Nazianzo è il
primo ad utilizzare (da Gv 15, 26) la formula “processione (ekporeuesiV) dal
Padre” in senso tecnico. Gv usa il verbo, il Nazianzeno ne fa un sostantivo.
“In quanto procede dal Padre, non è creatura, e in quanto non generato non è il
Figlio; ma in quanto intermedio fra Ingenerato e Generato è Dio” [oddio, la
precisione non è estrema, però....] In seguito, per giustificare la difficoltà
d’espressione Gregorio affermerà: “se tu mi spiegherai cos’è “ingenerato”, io
ti dirò cosa Filiazione e Processione significano” [eh va bene, non si può
neanche scherzare...]
Sono idee che già
affondano le radici in Ilario di Poitiers, ma che trovano in Gregorio di
Nazianzo quella legittimazione e quel linguaggio tecnico che già il Nisseno
utilizzerà con tranquillità.
* Riassunto delle
riflessioni fondamentali emerse dall’analisi della breve storia del dogma
compiuta fino a questo punto
Padri Apostolici
Si incontrano testi più triadici che trinitari; si parla di Padre e Figlio e
Spirito uniti più che di una Trinità in sé. (Interessante è il fare della
Trinità il modello della Chiesa, idea riscontrata in Clemente Romano e Ignazio
di Antiochia). Si inizia (forse) una certa speculazione sull’origine del
Figlio; la sua pre-esistenza è praticamente già affermata.
Padri Apologeti
Gli autori della cosiddetta “teologia del LogoV” (Giustino e Teofilo
soprattutto). Distinzione fra logoV endiaJetoV e logoV projorikoV (non ancora
incarnato!). Il punto debole della teologia trinitaria era l’insistere nel
legame fra Filiazione e Incarnazione. Assistiamo all’inizio di una speculazione
sullo Spirito Santo (Atenagora), anche se ad un livello ancora molto debole.
Secolo III: Ireneo,
Tertulliano e Origene
Ireneo: autore di interessantissimi testi
trinitari in dinamica storico-salvifica; Padre e Figlio e Spirito Santo sono
riconosciuti profondamente uniti nelle professioni di fede; Figlio e Spirito
vengono chiamati “mani di Dio”, ma si rifiuta nettamente l’idea di un Demiurgo
alla maniera gnostica; Figlio e Spirito sono divini; respinge la speculazione
sulla generazione del Figlio.
Tertulliano: il grande creatore del vocabolario teologico
latino; il primo a dire “Trinitas”; il primo a porre una riflessione esplicita
sull’unità e sulla distinzione trinitaria (Tres sunt non... sed...); “persona”
è ancora un termine vago; la generazione del Logos è vista ancora in funzione
della creazione; inventore di metafore e analogie trinitarie usate a lungo;
l’unità divina è utilizzata come spiegazione della monarchia nell’economia,
usata non solo per spiegare le relazioni ad extra, ma anche ad intra.
Origene: introduce la categoria della generazione
“ab aeterno”; da sempre il Figlio esiste, anche se ancora in vista della
creazione; come Ireneo e Tertulliano, tradisce ancora un certo subordinazionismo: il Figlio è un
po’ inferiore al Padre come lo Spirito lo è nei confronti del Figlio; viene
detto “subordinazionismo moderato” in quanto non si arriva a negare la divinità
del Figlio, come fece invece Ario.
Dopo Nicea
Si chiarisce il rapporto fra Padre e Figlio (Atanasio e Ilario). Si combattono
le ultime resistenze della crisi ariana; si ribadisce e si sviluppa la scelta
della consustanzialità: il Figlio è come il Padre. Interessante è lo sviluppo
della paternità nella riflessione di Ilario: la Paternità come Donazione di Sè
e come Amore.
I Cappadoci
Incorporazione della rilessione sullo Spirito nella riflessione su Dio trino.
Allo Spirito viene attribuito lo stesso titolo del Padre e del Figlio. Ampie e
importanti formulazioni trinitarie; una su tutte: mia jusiV en treiV upostasaiV.
Il fondamento dell’unità e della distinzione trinitaria comincia ad avere un
linguaggio tecnico.
Lezione del 26 aprile
6.
Il concilio di Costantinopoli
Cfr. DS 150. Note a
margine. Ricordiamo a mo’ di premessa, che a Nicea, ousia e upostasiV erano
considerati sinonimi, mentre per i cappadoci erano profondamente diversificati.
Per molti versi, Costantinopoli 381 è considerato teologicamente il
“completamento” di Nicea, soprattutto per quanto riguarda l’articolo sullo
Spirito Santo.
6.1. Analisi del testo del
Simbolo costantinopolitano
“Un solo Dio” e “un solo
Signore”: ancora una volta 1 Cor 8, 6.
“Prima di tutti i secoli”:
è una novità rispetto a Nicea; sparisce l’inciso: “cioè della stessa sostanza
del Padre”.
Per quanto riguarda la dizione
“Dio da Dio”, riscontriamo l’esistenza di un problema di critica testuale, ma
non influenzerà in modo determinante la nostra riflessione.
Nell’articolo su Gesù
Cristo, vengono aggiunti la nascita da Maria e dallo Spirito Santo (esplicitata
rispetto a Nicea) e gli accenni escatologici.
Riguardo a questi ultimi va detto che nel mezzo c’era stato Marcello d’Ancira
(Ankara): totalmente anti ariano, pensava che (secondo 1 Cor 15, 24-28: Gesù
consegnerà il Regno al Padre e Dio sarà tutto in tutte le cose), dopo
l’economia salvifica Figlio e Spirito Santo saranno riassorbiti dal Padre; ne
conseguiva che la Trinità dura solo nell’oikonomia, ma non appartiene
all’essere di Dio. Non si trattava di un modalismo radicale, ma ne condivideva
certamente le esigenze e i presupposti fondamentali.
Per contrastare queste idee eretiche, molti sinodi locali del IV avevano già
ribadito che la regalità di Gesù non era destinata a scomparire. Costantinopoli
riprende queste idee e le legittima ufficialmente.
“Noi crediamo nello
Spirito Santo”: si tratta di un evidente rinforzamento di Nicea. Non viene
detto “un solo” Spirito (come per il Padre e per il Figlio), ma si tratta di
una differenza che non va sopravvalutata. “Signore e datore di vita” sono
espressioni molto probabilmente mutuate rispettivamente da 2 Cor 3, 17 e Gv 6,
63 (quest’ultima è addirittura posta sulle labbra di Gesù); è interessante
notare come nel NT gli stessi appellativi siano riferiti anche a Gesù (1 Cor
15, 45).
To ex tou patroV
ekporeuomenon: la fonte diretta di quest’espressione è Gv 15, 26; non si tratta
di una citazione letterale, ma anche la differenza è interessante: Gv utilizza
la preposizione para, mentre il concilio utilizzerà ek indicante ugualmente
moto da luogo, ma in un senso più profondo. Studieremo a suo tempo il problema
del “filioque” (il fatto cioè della provenienza dello Spirito anche dal
Figlio), ma sottolineiamo come Costantinopoli non menzioni la seconda persona!
Occorre comunque precisare che ek tou patroV era molto probabilmente un modo
per esprimere la divinità dello Spirito Santo e non si trattava di una
definizione della vita intratrinitaria (per lo meno dogmaticamente
esplicitato).
Già Gregorio di Nazianzo aveva distinto fra processione e generazione,
ispirandosi sempre allo stesso passo di Gv. In 1 Cor 2, 12, è ancora più
esplicito il richiamo: lo Spirito è infatti detto ek tou Jeou.
“Che con il Padre e il
Figlio è adorato e glorificato”: ricordiamo l’influsso diretto di Basilio (in
particolare la sua riflessione sulle preposizioni nella dossologia del Gloria).
Su questo punto, Gregorio di Nazianzo si irriterà per la mancata dichiarazione
esplicita della consustanzialità dello Spirito al Padre e al Figlio. A
Costantinopoli 381, infatti, si parla di “isotimia” (“uguaglianza di onore”),
ma non (ancora) di consustanzialità.
6.2. La storia
dell’interpretazione del concilio
Costantinopoli non è mai
stato interpretato come l’aggiunta o la rettifica parziale di ciò che a Nicea
era e non era stato detto; Costantinopoli è sempre stato visto (in particolare
dai suoi contemporanei) come la ratifica di Nicea. Purtroppo non possediamo più
il Tomus che il concilio scrisse per spiegare più dettagliatamente il senso e
gli intenti della sintetica formulazione simbolica.
A proposito del Simbolo,
se Nicea è stata conosciuta proprio in virtù del suo “prodotto”, Costantinopoli
non è portatore del proprio simbolo almeno fino a Calcedonia 451, quando per la
prima volta (!) si parlerà del “simbolo di Costantinopoli”. Per ragioni solo
intuibili ma non accertabili, per i 70 anni seguenti non si parlò mai del
simbolo del 2° concilio (che è lo stesso da noi proclamato in ogni messa
domenicale!)
Sottolineiamo come
l’aggettivo omousioV a Nicea era stato introdotto dalla corrente “occidentale”
prevalentemente “monarchiana”; dopo la riflessione dei Cappadoci, la parola
viene indirizzata da “uguale sostanza” a “la stessa sostanza”: si sta chiarendo
lentamente come h ousia sia il criterio di unità.
7.
Sviluppi successivi a Costantinopoli 381
Decidiamo per esigenze didattiche
di posticipare al capitolo seguente l’esposizione diretta sul pensiero di
sant’Agostino.
Papa Damaso convocò,
l’anno successivo il concilio, un sinodo a Roma per chiarire le istanze
trinitarie, invitando anche tutti gli orientali; il mondo teologico
dell’oriente disertò in massa il sinodo romano e inviò una lettera comunque
molto interessante in cui si legge che quando diciamo Padre e Figlio e Spirito
Santo, intendiamo “una sola ousia del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo”. Assistiamo come l’ampliamento pratico dell’omousioV alla persona dello
Spirito sia esplicito appena un anno dopo la formulazione dogmatica.
Cfr. DS 152 ss: la
proposizione di papa Damaso (soprattutto 172-173); è interessante come vengano
elencati un’ampia serie di criteri di unità fra le persone della Trinità, ma
non venga menzionata l’unica ousia; per contro, si parla chiaramente di treiV
upostaseiV.
Cfr. DS 421 ss: il
concilio Costantinopolitano II sulla volontà umana di Cristo. L’affermazione
iniziale è molto interessante: mian Jeothta en trisin upostasesin. La formula è
poi considerabile come divisa in due parti: nella prima abbiamo una descrizione
astratta della Trinità consustanziale in 3 persone, nella seconda la dinamica
salvifica.
Cfr. anche nello studio
personale [se ti ritieni uno studente volenteroso e dedito alle tue sudate
carte e riesci a dormire un paio di ore per notte...] il Concilio di Lione
(1274), DS 851 ss; il Concilio di Firenze (1439), DS 1300 ss; in particolare
1330 ss su cui probabilmente torneremo più avanti.