I primi "contatti"

Nella primavera del 1991 (da poco diciassettenne), in autobus, finalmente si tornava a casa da una veramente pesante gita scolastica nei "luoghi manzoniani" che solamente grazie ai ragazzi di altre classi (noi del classico siamo sempre stati molto poco "brillanti") non era stata una mortale noia assoluta. Il caso ha voluto che fossi sul lato sinistro della corriera, ovviamente verso il finestrino. Daltronde non vi era di meglio da fare se non curiosare fuori, fra le luci del panorama, o vedere quali auto sorpassassero il torpedone. Si era sull'Autostrada dei Laghi, aveva già fatto buio. All'improvviso un'apparizione, sul lato sinistro, di là dall'autostrada, in mezzo agli alberi, decisamente ad una altezza rilevante, una enorme scritta, rossa, in corsivo: "Alfa Romeo".

Ero fuori da Arese. Un attimo e la scritta era già scomparsa. Avevo, per la prima volta, qualcosa da associare ad una parola, al nome di un comune d'Italia, che spesso avevo visto scritto quando si parlava dell'Alfa Romeo. Era lì, sotto la scritta, che producevano la mia amata 75, sogno di oramai un paio d'anni, il cui poster di una 3.0 America nera campeggiava in camera mia, e che talvolta cedeva il passo a quello di una Turbo America rossa. Anche la Giulia Nuova Super di papà era stata costruita lì.

Di Arese, per anni, ho ricordato solamente quella scritta, e rare erano le foto che vedevo, dato che la mia ricerca era ancora "in nuce" e destinata soprattutto alla scoperta della cronologia dei modelli. Sognavo la 75, ma mi stavo "specializzando" in Giulia: daltronde mio padre, conservatore al massimo, guidava ancora Giulia e io avrei cominciato da quell'auto.

Anche la Giulia era nata ad Arese, seppur negli articoli più precisi si dava atto del fatto che la produzione della "macchina disegnata dal vento" era partita dal vecchio Portello.

Dovevano passare altri cinque o sei anni. Una giornata d'estate, tre Alfetta si ritrovano all'area di parcheggio di Fontanellato, sulla A1 in carreggiata nord. Una viene da La Spezia ed è una 1.6 dell'84 grigia metallizzata. L'altra viene invece da Reggio Emilia ed è una splendida prima serie del 1973. Condisce il tutto una 1.6 del 1977 colore testa di moro salvata dalla demolizione. Fra tutte, la più brutta era la mia. Ma l'occasione era ghiotta, anzi, ghiottissima. L'Alfetta tornava a casa, c'era un raduno ad Arese, organizzato grazie ai buoni uffici di un membro del mio club dell'epoca, ex corridore Alfa Romeo. Io in quel periodo ero un provincialotto poco più che ventenne, Arese esercitava, ora sì, un fascino irresistibile. Grazie al mio compagno di viaggio conservo quei momenti, con l'ingresso di questa Alfetta (che purtroppo dal 1998 non c'è più, e non certo per scelta mia!) che entra nella rampa che conduce al Museo. Altre Alfetta, Alfa 6, Alfa 90. Tutti parcheggiati davanti al Museo. Il mio primo contatto con Arese. Ed il primo pensiero è: "l'Alfetta quà ci sta davvero bene". Daltronde l'architettura lasciava intendere una gestazione o costruzione fra i tardi '60 e l'inizio '70.

 

Il mio primo ingresso ad Arese è stato in concomitanza con un raduno organizzato dall'allora "Club Alfa 6  -Registro 119" di Milano. Una ricca parata di Alfa 6, Alfa 90 ed Alfetta si trova a suo agio fra gli edifici (quì si vede la facciata del Museo) in stile anni '70.

 

 

 

A differenza di quanto avvenuto per il Portello, che proprio in quei periodi vedevo per la prima volta, Arese mi intrigò da subito. La produzione, come si leggeva ovunque, era oramai praticamente inesistente. Avevo dato una rapida occhiata, al momento di uscire, a quello che evidentemente era il magazzino dei prodotti finiti, almeno, la parte all'aperto: una qualche 164 e qualche Gtv, peraltro uno di colore bianco.

Arese è la sede del Centro Documentazione Storica. Sono entrato in quel periodo in contatto con quell'encomiabile ed insostituibile persona che è la Elvira Ruocco. Se vogliamo, l'inizio dei miei "pellegrinaggi" ad Arese è stata la ricerca di contatto con persone dell'Alfa Romeo per raccogliere interviste da pubblicare sul notiziario del nostro club o per presentarlo alla Promozione Immagine. Mi ricordo, infatti, il quinto piano, quello della dirigenza con la sua moquette e le poltone nel corridoio che erano d'epoca oramai, il colloquio con Marino Bussi della Promozione Immagine; mi ricordo il primo colloquio a tu per tu con il Dott. Magro, Direttore del Museo. Ed ovviamente l'intervista alla Elvira. Il tempo comunque passava, ed ancora non era maturata quella spasmodica passione di sapere. Certo, lo stabilimento che era oramai inoperativo lo vedevo, le macchine nei piazzali sparivano, diminuivano anche quelle dei dipendenti, le 155 dei carabinieri che uscivano, per le prove, dal magazzino prodotti finiti non le avevo più viste...ma erano comunque tasselli di un puzzle ancora molto incerto, o meglio, non mi rendevo conto che il puzzle mi si sarebbe aperto di lì a poco e che quelle immagini fotografate ad Arese  sarebbero state, poi, un "amarcord" triste.

 

 

La GTV6 esemplare unico realizzata dall'Autodelta. Fu portata in occasione di un raduno da me organizzato, grazie alla disponibilità ed alla cortesia del Dott. Magro. La vettura è quì ritratta dinanzi al Museo storico. L'Alfetta blu che si intravede dopo l'Alfa 6 (parcheggiata in quel punto, a coprire la GTV, da parte del proprietario, un emerito imbecille egocentrista) è la mia 2000 che in quel periodo avevo appena finito di restaurare di carrozzeria.

 

 

Intanto organizzavo un'altra visita al Museo. Era frattanto successo qualcosa: avevo, forzatamente, cambiato auto. L'Alfetta 1.6 me l'aveva distrutta un camion, ed ora c'era la 2.0 blu, peraltro targata Milano, che il suo da fare me lo dava. Ancora successivamente partecipavo ad un raduno organizzato da altro club, sempre con l'Alfetta 2.0 sotto un diluvio che non dava tregua da due giorni a tutto il nord Italia.

 

 
Ma ancora la grande scintilla non era scoccata. Vedevo il Museo, sapevo oramai come era fatto, che macchine c'erano. Conoscevo la strada per l'archivio storico, fra un po' conoscevo anche quelli della portineria ma ignoravo ancora tutto dello stabilimento. Nè sembrava che qualcuno avesse voglia (o potesse?) chiarirmi qualche punto oscuro. Ma la questione del Portello non aveva come unico scopo quello di accentrare la mia attenzione sul vecchio stabilimento in centro Milano. Iniziavano le agitazioni degli operai perchè Arese sarebbe stato nuovamente ridimensionato. Ed allora, se stavo pensando al Portello, come ignorare Arese?

E' stato allora che ad ogni visita in Via Grosotto ed in Via Gattamelata ho voluto associare sempre una visita anche poco fuori Milano. Dapprincipio non sapevo praticamente niente. Sapevo che due edifici erano uno il Centro Direzionale (ci andavo spesso, quindi lo sapevo, ma dall'esterno non era visibile nella sua totalità) e l'altro il Centro Tecnico, un edificio originale in cui una parte centrale era incastonata fra due cubi laterali non posti parallelamente e sotto il quale, oltre a due parcheggi coperti chiuso ed uno parzialmente aperto, era la portineria centrale, quella che conduceva direttamente allo stabilimento.

Conoscere meglio l'ubicazione dei reparti non è comunque stato difficile, e sicuramente come sia nato e come sia diviso Arese ora posso affermare di saperlo con buona precisione.

Mi sono state d'aiuto quelle immagini d'archivio che ho poi scoperto di avere, così come l'aiuto di un amico che ha lavorato al Centro Direzionale.

E quindi inizio la cronistoria di questo stabilimento, troppo spesso ricordato (e non sempre a torto) con l'appellativo di "cattedrale dei metalmeccanici".

 

capitolo 1

Portello

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