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Il coraggio di aprirsi
di Antonino Saggio
L’architettura italiana
non appare particolarmente reattiva. E uso un eufemismo. Forse è vero: la
capacità di rispondere ai cambiamenti, non è del nostro paese componente
peculiare perché la modernità è costantemente frenata dalle presenze
stratificate del tempo, perché ancora bruciante è il ricordo delle
contraddizioni dei cosiddetti anni del boom e perché i sempre farraginosi
apparati di servizio e di supporto alle decisioni impediscono quasi l’emergere
delle volontà. Singolarmente, o associati insieme, i veti vincono quasi sempre.
L’altissimo indice di disoccupazione e lo stesso tasso di natalità ormai vicino
allo zero descrive un paese che, tra le nazioni occidentali, ha la progettualità
più bassa.
Negli ultimi anni in Italia si è affermata una concezione di mantenimento dello
status quo che se per alcuni può essere un beneficio, per ampi settori
della società è fonte di enorme e crescente frustrazione. Nel mondo
dell’architettura (professione, università, sfere dell’editoria e dell’impresa)
vi è poca apertura verso problemi nuovi, poca curiosità verso una maniera
diversa di fare e vedere le cose, forte arroccamento in posizioni e idee
consolidate. Il riconoscimento della sconfitta dell’architettura in Italia
comunque è unanime. Lo confermano anche le riviste estere di settore da cui è
quasi assente.
La nostra situazione è tanto più sorprendente perché corrisponde ad una fase di
grande produttività del panorama internazionale. Abbiamo assistito tutti al
decollo della Spagna, all’onda lunga della Francia, al coraggio verso le nuove
sfide della Germania, all’attivismo anche di nazioni piccole come la Finlandia o
l’Austria, al costante sviluppo della ricerca architettonica in Olanda e
Danimarca. E tralasciamo gli Stati Uniti, dove gli architetti vivono un momento
di euforia, o quello che febbrilmente accade oltre il Pacifico.
Gli architetti italiani oggi guardano sgomenti il mondo: i giovani, e ce ne sono
tanti di validissimi, cercano con fatica e una dedizione che è forse pari alla
difficoltà dell’impresa, un aggiornamento. Spulciano Internet, vanno magari a
pane e acqua a fare un Erasmus all’estero, si iscrivono ai seminari, lavorano
negli studi d’oltralpe, fondano riviste anche on line. Gli architetti con più di
qualche lustro di lavoro alle spalle, e che hanno conosciuto fasi più
produttive, guardano perplessi l’architettura che si fa nel resto mondo. E
magari fanno spallucce, tacciando quelle esperienze di irrealizzabilità qui da
noi, oppure di inseguimento preconcetto di mode e di strampalati linguaggi,
oppure di aderenza a messaggi pubblicitari e superficiali o a vacui segni forti,
oppure di mancanza di coerenza tra forma e funzione, di scissione tra
costruzione e immagine. Hanno difensori famosi che, a capo del sistema
architettura in Italia da almeno un trentennio, e corresponsabili della
situazione, guidano ora la ’’resistenza’’ all’ondata internazionale
dell’architettura.
Ma il meccanismo è vecchio. Sempre il rinnovamento dell’architettura qui è
passato attraverso forche caudine. Chi come Pagano, o Perisco o Giolli
rivendicava l’imprescindibilità di una apertura europea, veniva tacciato di
traditore delle tradizioni o di internazionalismo bolscevico. In realtà quelle
personalità hanno aperto una strada praticabile, tra istanze di rinnovamento
internazionale e interpretazioni nostre. E questa strada, non è stata solo delle
élite ma è stata percorsa da avventure collettive non disprezzabili. O vogliamo
scordare i molti edifici razionalisti degli anni Trenta, la vitale fase
neo-realista e organica degli anni Cinquanta, la stessa tormentata ma coraggiosa
idea della casa popolare del Sessanta e Settanta, i sensibili inserimenti nei
contesti preesistenti di parecchia buona architettura sino almeno alla metà
degli anni Ottanta?
Ritornando allo sconcerto di cui si diceva, spesso le critiche rispetto a quanto
si fa altrove è dovuto al fatto di vedere come episodi (quindi slegati,
accidentali ed effimeri) quelli che invece sono segnali secondo noi evidenti di
una trasformazione complessiva della società di cui l’architettura sta
registrando e rilanciando alcuni caratteri.
Stiamo vivendo anni di cambiamento profondo: da una società basata sui
meccanismi della produzione industriale, a quelli di una società basata sulla
produzione, formalizzazione e distribuzione dell’informazione. Il tema è già
stato sondato da almeno due decenni. Il fatto nuovo è che questo cambiamento ha
ora un impatto nella aree ’’nostre’’ dell’architettura e del farsi concreto
della città.
Come artificio espositivo dividiamo il tema in due aspetti: uno che riguarda le
opportunità, l’altro le conseguenze per il nostro fare.
Iniziamo dal problema delle brown areas o aree dismesse. La società
dell’informazione ha sempre meno bisogno di grandi porzioni di terreno, in
particolare se dislocate nelle città, per produrre beni manifatturieri. Il
vegetale che compriamo al supermercato è al 90% informazioni (ricerca,
commercializzazione, distribuzione), lo stesso e anche di più sono gli
elettrodomestici o le automobili e sempre più persone producono beni che sono ’’pura’’
informazione. La produzione si sposta negli uffici, nelle università, nei centri
di ricerca ma anche in posti una volta impensabili come le case, i luoghi di
commercio o di divertimento. Sempre meno il luogo specifico diventa in sé
fattore determinante.
In questo processo che investe tutto il mondo occidentale, le aree si liberano
dalle fabbriche (che possono divenire sempre più piccole, meno inquinanti e
deprivanti) e grandi risorse sono rimesse in gioco, prima di tutto appunto
quelle abbandonate dalla produzione industriale. Conosciamo la magnitudo del
fenomeno e quante occasioni all’architettura di tutto il mondo si sono aperte.
La seconda opportunità è legata ad un nuovo rapporto tra uomo e natura. Infatti
se il meccanismo di produzione industriale non poteva che sfruttare, dominare,
usare anche violentemente le risorse naturali, quella della società
dell’informazione le può valorizzare. Si apre così il grande tema dell’uso
consapevole delle risorse, delle fonti energetiche alternative, di materiali più
sani, di edifici più intelligenti che sappiano usare l’energia naturale invece
di sprecarla inquinando.
La terza opportunità è legata al mezzo principe della società dell’informazione
e cioè l’elettronica e quindi alle nuove macchine che processano le
informazioni. Ora le opportunità legate a questi strumenti -parlare di computer
o di programmi appare ormai riduttivo perché sempre più l’elettronica investe
tutto, sino ai nostri stessi corpi- sono evidenti innanzitutto negli aspetti
immediatamente pratici (trasformabilità costante delle informazioni,
trasmissione a distanza, accesso a database, potenza di calcolo, supporto alla
globalizzazione di cui si diceva) sia in quelli più profondi e radicali
(simulazioni, interconnessioni, integrazioni, interattività tra architettura e
ambiente).
Ora veniamo al rapporto tra queste tre grandi opportunità e le conseguenze. E
rimettiamoci in una posizione rigida di chiusura, di mantenimento anche
concettuale del nostro staus quo, delle nostre certezze. Possiamo per
ciascuna di queste grandi occasioni operare a un livello per così dire minimale.
Usare il grande tema delle aree dismesse per immettere le griglie di una città
monofunzionale, regolare e modulata come le grandi città borghesi o quelle
sognate dai funzionalisti, aumentare il quoziente di verde attorno agli edifici,
o la cura al landscaping, usare il computer per disegnare con più
efficienza e rapidità.
E possiamo ignorare chi invece pensa che quelle opportunità richiedano un
cambiamento profondo nel fare e sentire l’architettura e la città. Infatti non è
affatto vero come abbiamo dovuto fare per semplificare che da una parte esistano
’’opportunità’’ e dall’altra ’’conseguenze’’, magari indolori, passeggere,
ricollocabili nel quadro cui siamo abituati. Si poteva, certo, usare il cemento
armato per rivestire gli edifici coi vecchi stucchi, o fare le fabbriche con gli
archi e le colonne; prima che le novità e le crisi di trasformazione trovino
espressione ci vuole sforzo, coraggio, tensioni e scontri. Moltissimi segnali
dell’architettura internazionale dimostrano già oggi che le opportunità in vario
modo collegate alla società dell’informazione determinano conseguenze ’’forti’’
e in fondo a ben guardare necessarie. Può stupire forse che avendo come grande
tema quello delle aree dismesse, emerga un sentire che si distacchi dalle
certezze tipo-morfologiche che erano state elaborate (in particolare proprio
dagli architetti italiani) per operare nelle maglie della città consolidata? Può
stupire che operare in situazioni residuali, intricate, piene di intrecci tra
usi, abbandoni, oggetti si cerchi nelle pieghe di questi paesaggi poveri nuove
vitalità?
A noi, invece, appare del tutto naturale che molti guardino alle ricerche degli
artisti più vicini a fenomeni di stratificazione, di residualità, di
ibridazione: ai sacchi o ai cretti di Burri, ai manifesti scorticati di Rotella,
al neo-espressionismo americano di Pollock o di Rauschenberg al fronte più duro
della Pop-art o dell’Arte povera. L’architettura si insinua nelle maglie
dell’esistente, usa e rilancia gli oggetti preesistenti come dei ready-made,
crea con le sue articolazioni dinamiche spazi interstiziali ’’tra’’ nuovo e
preesistente. Ora di questa tensione è piena l’architettura internazionale.
Relegarla nella facile categorie ’’della moda’’ o ’’del linguaggio’’ è riduttivo
e, crediamo, improduttivo.
Tornando ai rapporti natura-architettura, è chiaro che all’interno di questo
interesse sempre più l’architettura tenda a porsi come paesaggio. La natura cui
questa concezione di architettura guarda non è però più quella floreale o
liberty o neanche quella dei maestri dell’organicismo, controcanto umano alle
verità macchiniste dei funzionalisti. È diventata una natura molto più
complessa, molto più nascosta ed è sondata con occhio anti romantico attraverso
i formalismi della scienza contemporanea (i frattali, il dna, i quanti, i salti
di un universo che si espande il rapporto tra vita e materia). Nascono in questo
contesto le figure dei flussi, dell’onda, dei gorghi, dei crepacci, dei
cristalli liquidi e la fluidità diventa parole chiave.
Le opportunità di confronto con la natura e le grandi aree dismesse nelle città
innescano il tema del ’’risarcimento’’. In zone spesso costruite a densità
altissime si può iniettare verde, natura, attrezzature per il tempo libero. Ma
si tratta forse di circoscrivere e recintare aree verdi, da contrapporre a
quelle residenziali, terziarie, direzionali come era nella logica
dell’organizzare dividendo della città industriale? La tendenza che si sta
affermando è al contrario nel cercare sempre più di creare nuovi pezzi di città
integrate dove, accanto a una forte presenza di natura, siano attive l’insieme
interagente di attività della società dell’informazione. Oppure di Eurolille o
di Postdamer platz o di Battery Park ci interessano solo le forme?
Ed ora veniamo al terzo legame quello ancora più stretto tra informazione (o
società dell’informazione) e architettura.
L’architettura è, come è ben noto, disciplina polisemica. Sin dall’antichità
essa è stata vista come sintesi tra diversi che, almeno in un primo momento,
erano corrispondenti alle tre grandi aree della costruzione, dell’uso e della
forma. L’architettura affermatasi negli anni Venti ha cambiato completamente i
contenuti delle tre grandi aree (una costruzione non più continua per mura ma
discontinua per punti, una funzione non più rivolta esclusivamente ai temi
aulici ma a quelli della società di massa, e un estetica che sostituiva i vecchi
cardini figurativi degli ordini e della prospettiva con quelli astratti dei
movimenti del nuovo mondo meccanico). La necessità verso la sintesi però, non
solo persisteva, ma era ancora più forte perché l’architettura voleva aderire
alle spinte verso la serializzazione, la tipizzazione, la razionalizzazione
della produzione industriale. Ne conseguiva che, come per l’oggetto d’uso, essa
aveva tanto più valore quanto più funzionava come sistema di coerenze: la forma
doveva seguire la funzione, gli spazi interni dovevano essere manifesti
all’esterno, la costruzione doveva essere solidale con gli altri aspetti e resa
per quanto possibile manifesta. Questo processo verso l’ntima coerenza del
progetto ha trovato il suo apice nell’opera di Louis Kahn che, a seconda dei
casi, alcuni vedono come l’ultimo dei grandi maestri della prima generazione del
secolo e altri, invece come il più forte perturbatore.
Ora, se vogliamo usare una formula di comodo, l’architettura di oggi è
violentemente, assolutamente, anti-kahniana. Vuol dire che alla ricerca di
intima coerenza e di assoluta e quasi tautologica sovrapposizione (per il
maestro americano forma è funzione, forma è costruzione) corrisponde un processo
opposto di liberazione, di sganciamento da ogni sistema preordinato
gerarchicamente. L’architetto invece di essere in cima a una piramide di scelte
da governare e gerarchizzare cerca un percorso all’interno di una rete di scelte
che sono interrelate, complesse, anche in parte indeterminate e casuali rispetto
alla sua volontà. E questo avviene a tutte le scale: Small, Medium Large e
soprattutto Extra large, cioè nei sistemi urbani e territoriali come Rem
Koolhaas ha teorizzato con evidenza.
Il problema ovviamente non è quindi di moda o di linguaggio. Viviamo una
produttività che non è più legata alla duplicazione di un oggetto di serie ma
nel processo contrario di personalizzazione, di individualizzazione, di apertura
alle informazioni al costante mutamento, all’istantaneità delle risposte, al
riconoscimento delle creatività individuali, allo spargere in rete le
informazioni. E nel pensiero filosofico, artistico, scientifico non aderiamo più
né alle regole tassative del Rinascimento, né alla ricerca di sistemi
equilibrati, coerenti e chiusi di buona parte di questo secolo, ma ad una
accettazione della complessità. La strada dell’architettura, come in un
ipertesto, è ogni volta da tracciare.
Tutto questo è anche pauroso, angoscioso, drammatico come sempre accade quando
ci si aprono nuove possibilità, nuove libertà. Per esempio la forma invece di
trovare le sue ragioni come espressione della funzione cerca sempre più messaggi
metaforici, traslati, concettuali. Un edificio oggi non è più buono solo se
funziona, come un automobile non è più valida solo se e quanto cammina, entrambi
devono dire e dare molto di più. Apparentemente è il contenitore che stravince
sul contenuto, nella realtà sono le ’’informazioni’’ che entrambi veicolano il
nuovo valore.
La vecchia eticità della corrispondenza forma-costruzione è spezzata e anche la
costruzione cerca la sua strada di ottimizzazione. Un progetto ormai si può
costruire in molti modi diversi. La funzione si estende a una serie ancora più
estesa di connessioni, prima di tutto con il contesto circostante. Un risultato
evidente di questa opera di slegamento, di parzializzazione, di liberazione, se
si vuole di settorializzazione, è quella di avere, spesso, edifici estremamente
più efficienti dal punto di vista squisitamente ’’funzionale’’ rispetto al
passato, a volte molto più intriganti, e in fondo per quanto assurdo possa
all’inizio apparire viste la loro apparente complessità, anche più realizzabili.
Anche perché il computer e l’elettronica che abbiamo visto giocare un ruolo di
causa poi diventano strumento potentissimo nella prefigurazione geometrica, nel
calcolo, sin’anco nel taglio ad hoc dei pezzi. D’altronde se questo non fosse
vero, non si capirebbe come mai tanta architettura basata su questi principi si
realizzi all’estero. Hanno tutti torto?
Tornando allo status quo e al suo superamento. Guardare con il naso all’insù
queste realizzazioni e duplicarne acriticamente le ondulazioni zigzaganti o
avvolgenti appartiene a una fase primitiva e iniziale. Intendiamoci, non
negativa a mio avviso, più di quanto lo sia quella di copiare acriticamente
qualunque modello. Si tratta di capire il quadro in cui queste sperimentazioni
si svolgono, verificarne il grado di coerenza con le situazioni in cui si opera
senza eccessive forzature, ma neanche troppo subitanee rese. Soprattutto, in
particolare per chi ha poco o nulla da mantenere, è necessario aprirsi con
curiosità e interesse ai nuovi fermenti. Il mondo sta cambiando, si aprono nuove
crisi e insieme nuove opportunità.
Antonino Saggio
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