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La via dei simboli
di Antonino Saggio
Alcune opere dell'architettura
recente impongono una riflessione.
Frank Owen Gehry ha ultimato nel 1997 il Museo Guggenheim di Bilbao. Gehry ama
Utzon e la Sidney Opera House. E su Jørn Utzon, nato nel 1918, vi è un ritorno
di attenzione. Utzon a sua volta deve il successo al concorso di Sidney alla
chiaroveggenza del giurato Eero Saarinen, autore di molte opere, tra cui il
Terminal della Twa al Kennedy di New York. Gehry ama anche l'espressionismo
di Scharoun della Philarmonie di Berlino, Ronchamp di Le Corbusier e la famosa
macchina strepitante del Mummers Theater di John Johansen.
Nei primi anni Settanta una giuria audace dà ai trentenni Piano & Rogers la
costruzione di un centro polivalente nel cuore di Parigi, il celeberrimo
Beaubourg. Oggi Piano ha inaugurato un Museo della Scienza come una nave
incagliata nelle banchine di Amsterdam.
Un'altra
Arca era stata creata a Londra per la società Seagram da Ralph Erskine che aveva
anche eretto un muro ondeggiante alto dieci piani -The Byker Wall- che fa segno,
simbolo, paesaggio nella ricostruzione di una parte di Newcastle in Scozia.
Cosa succede? Perché ci interessa questo filo che parte da Sidney e arriva a
Bilbao?
Cominciamo da Utzon, un architetto la cui grandezza è tale che ancora non è
stata del tutto metabolizzata. Utzon è l'unico
architetto che in quel lontano 1956 ebbe l'intuito,
l'intelligenza
e il coraggio di fare del grande Auditorium un simbolo. Ma non era il simbolo
una delle parole tabù del movimento moderno? Vediamo come è rientrato in
circolo.
L'architettura
moderna, almeno nel suo filone sassone tra Gran Bretagna e Germania, si è
sviluppata attraverso una predilezione per la chiave minore, frammentaria,
libera nelle forme e negli assemblamenti che era tipica dell'edilizia
minuta dei borghi, dei villaggi, dei tessuti medioevali. Questa cifra divenne
centrale per innescare la ricerca che rivalutò l'artigianato
e la sua etica e poi, via Hermann Muthesius e il Deutsche Werkbund, si incanalò
nel Bauhaus. Cioè nel primo movimento maturo nella storia in cui la società
industriale trova, a più di cent'anni
dalla nascita, risposta articolata e polivalente: sul piano estetico, attraverso
l'astrazione,
la trasparenza, la dinamicità, sul piano eticofunzionale, con un'aderenza
oggettiva ai nuovi bisogni "dal
cucchiaio alla città",
sul piano costruttivo e tecnologico.
Come sottolineò Nikolaus Pevsner il percorso da William Morris a Walter Gropius
valorizzò la cifra spontanea e vernacolare, ma rimosse completamente, quasi come
non esistesse, l'altra
chiave, l'altra
dimensione del Medioevo: quella legata alla costruzione delle grandi cattedrali,
da Chartres a Notre Dame da Rouen a Salisbury, e allo sforzo di simboleggiare,
attraverso la propensione verticale alla divinità, la volontà di una città di
rappresentarsi in quanto collettività.
"A noi non
interessano i monumenti",
parafrasando Frank Llyod Wright, sostenevano gli architetti moderni, e avevano
ragione. Infatti la parola Monumento tra le due guerre, era usata per esprimere
la potenza di uno Stato, spesso dittatoriale, che intendeva magnificare l'autorità,
il comando, la gerarchia.
La Mosca di Stalin, le scenografie di Hitler, la nuova romanità di Mussolini, ma
anche i parlamenti classicheggianti della nuova Finlandia o la sede delle
Società delle Nazioni a Ginevra.
Gli architetti moderni, quelli dei Ciam per intenderci meglio, avevano problemi
ben più stringenti da risolvere (la casa per tutti, un linguaggio secco,
industriale e astratto, l'utilizzo
dei nuovi materiali e delle nuove scoperte costruttive, l'urbanistica
e gli insediamenti) per dilettarsi con queste parate.
Dire a noi non interessano i monumenti, fu storicamente sacrosanto, anche se si
doveva attaccare un architetto come Giuseppe Terragni, che già negli anni Trenta
e sostanzialmente unico in tutto il fronte moderno, riuscì a dimostrare che era
possibile dare un'aura
monumentale e simbolica a un edificio senza ricorrere allo strumentario del
passato ma attraverso un'ibridazione
pericolosa quanto magistrale. Giuseppe Pagano, il campione italiano degli
architetti moderni, stigmatizza la Casa del fascio di Como, anche se in cuor suo
sa che Terragni è un genio. Ma in quel momento, quell'opera
era un diversivo: solo sfiorare il tema della rappresentatività avrebbe
contribuito a innescare un arretramento (come il rinsaldarsi dell'asse
Speer-Piacentini e la costruzione dell'E42
a Roma dimostrò).
Ma
torniamo ad Utzon. Perché questo giovane architetto, aveva 38 anni quando
progettò Sidney, dieci anni in più di Terragni quando nel dicembre del
'32 disegnò la sua
Casa del Fascio, riesce a fare uno scarto di questa portata?
Diciamo per la compresenza di almeno quattro fattori.
Prima di tutto Utzon è un nordico. E nell'architettura
nordica la presenza del Monumento è linfa vitale: non astrazione illuminista del
potere, ma del matrimonio tra uomo e natura. E Gunnar Asplund lo insegna senza
il minimo dubbio.
In secondo luogo, Utzon ha lavorato con Aalto. Da giovane, quando ha solo un
repertorio neoclassico, Aalto tenta di agganciare i suoi edifici al paesaggio;
negli anni Cinquanta, in progetti come il Politecnico di Otaniemi ma anche il
municipio di Säynätsalo, sembra intuire che l'architettura
può anche rappresentare, ma si ferma sul limite e anzi in qualche caso cade in
un neoaccademismo di maniera.
La terza regione è che in Utzon, velista come Piano e Erskine, c'è
un interesse verso le forme naturali del volo e del movimento.
Infine, Utzon è un architetto interessato all'uomo
nelle sue diverse manifestazioni sociali, mai alla imposizione della propria
griffe. Sa che opere diverse per scala e programma debbono avere risposte
diverse. Per cui quando fa un gruppo di case (a Fredensborg nel 1962) è la
celebrazione dell'individuo
e delle sue diverse aggregazioni che esalta con una architettura spontanea e
popolare, quando fa una chiesa in campagna (a Bagsærd nel 1976) la tratta come
un silos cubico in lamierino per rivelare solo all'interno
un magico spazio fluido, quando deve fare la nuova sala di concerti di Sidney
capisce che deve essere il simbolo di un continente.
E nonostante la fatica, lo stress, i sabotaggi e i tradimenti legati all'impresa
ci riesce. L'opera
è un simbolo, forse il primo simbolo assoluto che l'architettura
moderna è riuscita a creare.
Vi si riconosco gli abitanti, i visitatori, la città, il continente. È un'opera
da questo punto di vista monumentale, ma che niente ha a che spartire con gli
aspetti propagandistici, retori e bolsi del potere. È un monumento di una
collettività che guarda al resto del mondo e che al domani si proietta con
slancio.
Gehry, quarant 'anni
dopo quel progetto, fa Bilbao. Molte parole possiamo usare per quest
'opera. Per esempio
"traiettoria",
perché il messaggio della plastica futurista e la conquista dinamica dello
spazio vi si afferma, oppure "luna
meccanica ',
perché il grande museo rifrange ludicamente la luce a tutte le ore, oppure
"pelle e spazi",
perché l'opera
rompe la meccanica corrispondenza tra interno ed esterno, riuscendo per questa
via ad ottenere il suo sbalordivo funzionamento, e altre ancora. Ma una parola è
la vera chiave in questo contesto.
*
Innanzitutto Gehry capisce che il nuovo
monumentalismo è un fatto civico, collettivo, della gente. Mai di un individuo o
di un magnate. "Gehry
è calamitato dal clima di rinascita del XII e XIII secolo"
ha scritto Bruno Zevi "Persuaso
che si possa contrapporre al caos (e alle disquisizioni sul caos) un ordine
intrinseco da manipolare, pretende che l'architettura
trascini emotivamente"
Gehry adora il Romanico e "crede
che l'epoca
degli architetti eroi, di Wright e di Le Corbusier, sia
esaurita: "questo
è un tempo in cui gente più numerosa si mescola assieme, per aiutarsi
reciprocamente e far funzionare le cose".
Sceglie, è lui che sceglie l'area
del progetto, una intersezione urbana. Un ganglio caotico tra ferrovia, fiume,
ponte, banchine. È una tipica area dismessa che però si può agganciare alla
rivitalizzazione del lungo fiume che l'amministrazione
vuole.
In questa intersezione Gehry inserisce i suoi corpi. Ma non sono le ali del
gabbiano di Utzon che calano nel promontorio, ma una macchina che si aggancia al
contesto come forse nessuna architettura aveva mai fatto. L'articolazione
dei corpi fa strade, banchine, percorsi, entrate e accoglie i flussi. E la gente
vive tutto lo spazio pubblico, ci va di giorno e di notte, genitori con bambini,
turisti, vecchi operai con il basco e teenager con i pattini. Insomma la sua
architettura forma e conforma l'ambiente
come la cattedrale gotica che intesseva attività e formava con le sue diverse
strutture la piazza principale, quella adiacente del mercato, gli edifici, le
zone per le manifestazioni e gli eventi.
Ma se questa lettura può apparire forzata, Gehry nella manipolazione dei volumi
non lascia dubbi. A partire da un atrio centrale che spinge il visitatore a
guardare all'insù
e strabiliarsi come una volta si faceva con le ogive e le vetrate, innesta un
grande corpo oblungo lungo più di 100 metri. È la navata che si insinua sotto il
ponte, e al di la di questo, si alza un volume apparentemente arbitrario. Una
specie di scultura altissima a forma di forcella aperta.
Segno tanto inutile quanto indispensabile, come il campanile di Giotto la torre
di Gehry annuncia l'edificio
a chi giunge lungo le banchine dal centro della città. Aspettiamo che vi si
monti un raggio laser che rintocchi l'arrivo
del nuovo millennio.
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Ecco che con Gehry si richiude il circolo. Nel movimento moderno è rientrata la
cattedrale, è rinata la possibilità di fare un'architettura
anche simbolica, anche rappresentativa, anche monumentale. E queste parole non
si associano alla magniloquenza accademica del potere, ma alla vibrazione di una
società locale e globale, che impone un pellegrinaggio per celebrare la nuova
religione laica della cultura. Del Medioevo 140 anni dopo la Casa Rossa di
Philip Webb per William Morris, la nuova architettura ha riconquistato anche il
valore civico e rappresentativo.
Una domanda per concludere.
Questa nuova tensione rappresentativa, civica, collettiva in una parola
simbolica, cosa ha a che vedere con la tendenza alla metaforizzazione che
investe buona parte dell'architettura
contemporanea d'avanguardia
e di cui abbiamo già parlato a proposito del Paesaggio e dell'Informatica
(Costruire 12/97 e 5/98)? Per rispondere paragoniamo due opere di Piano, la
prima e l'ultima
o quasi.
Il Beaubourg è un'enorme
scatola meccanica industriale. Semovente, (almeno nell'idea
iniziale) e cablata, ma comunque meccanica: una scatola-fabbrica. Il nuovo museo
di Amsterdam invece è prima di tutto un edifico metafora (è dichiaratamente una
grande nave) e "secondariamente"
è anche un edificio che funziona. Che cosa è avvenuto in questi trent
'anni?
È avvenuto che il mondo, e gli architetti se ne stanno rendendo conto, è mutato
e che siamo nell'epoca
delle informazioni, nel pieno della Rivoluzione Informatica. E l'epoca
informatica funziona non più per messaggi assertivi, causa effetto, ma per
messaggi metaforici, traslati. Un edifico non è più buono solo se funziona ed è
efficiente, insomma se è una macchina, ma deve dire e dare di più. Tra l'altro
quando serve, anche simboli. Daniel Libeskind lo fa a Berlino nel suo straziante
Museo-monumento all'Olocausto,
come un muro spezzato e zigzagante. A Roma il danese Kay Fisker ha eretto l'accademia
del suo paese come un monastero che sa dialogare con San Pietro.
Antoine Predock e Abraham Zabludovsky ripensano al sacro dialogo tra paesaggio e
costruzione dell'architettura
mesoamericana. Gehry, Libeskind, Piano sono arrivati in alto anche grazie a
Scharoun, Johansen e Erskine. Utzon è stato il grande e geniale precursore.
Ci sono anche altre vie: quella da Ledoux a Le Corbusier, quella dell'edilizia
cittadina da Piacentini a Aldo Rossi, quella che da Louis Kahn via Mario Botta
arriva a Tadao Ando, quella algida e sola di Ludwig Mies van Der Rohe, quella
che dal Crystal Palace arriva all'High
Tech o quella che ragiona su Las Vegas. Sono strade diverse, altre vie, altre
storie per erodere un tabù. Ma quella da Utzon a Gehry a me pare la più felice.
Antonino Saggio
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